-  Ricciuti Daniela  -  07/12/2016

Lascia che la morte accada - Daniela Ricciuti

- Ammissibilità dell'autorizzazione giudiziale all'interruzione dei presidi medici di sostegno vitale artificiale

- Rispetto assoluto della volontà del malato in ambito medico-sanitario, in caso di libero e consapevole rifiuto della cura

- Inconfigurabilità di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico

"Lascia che la morte accada" ha ripetuto, quasi a mo' di mantra, Beppino Englaro per tutto il corso della sua lunghissima ed indefessa lotta, senza esclusione di gradi di giudizio nè di giurisdizioni, per l'affermazione della dignità e libertà di scelta di sua figlia Eluana.

Solo - "come un cane che ulula alla luna" diceva, - con la morte nel cuore di un padre che ha perduto la sua amata unica figlia, ha dovuto pure combattere, con coraggio e abnegazione, contro l'ordinamento giuridico e il comune sentire sociale, contro il Paese intero: tutti d'accordo, all'unisono e monoliticamente, nel ritenere inconcepibile che si potesse decidere di interrompere il trattamento artificiale in grado di mantenere in vita la propria persona. Inconcepibile che si potesse decidere di morire. Che si potesse esser padroni - se non della propria vita, per lo meno - della propria morte.

E così Piergiorgio Welby, anche lui "condannato" dall'ordinamento a "vivere" (ammesso che quella sia vita).

Non è eutanasia.

Lo ha chiarito la Suprema Corte proprio con riferimento al caso di Eluana (Cass. 4 ottobre 2007 n. 21748): «Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale».

Adesso, a distanza di quasi dieci anni, la rivoluzione: il giudice può autorizzare il distacco dai presidi medici e l'interruzione del sostegno vitale artificiale.

Il Tribunale di Cagliari, difatti, ha ultimamente accolto l'istanza all'autorizzazione della cessazione della respirazione artificiale, depositata dall'amministratore di sostegno di un malato di S.L.A., che aveva espresso le proprie determinazioni anticipate di volontà in relazione al fine vita, con accertata consapevolezza, lucidità di pensiero, ferma e reiterata volontà (Trib. Cagliari decr. 16 luglio 2016).

Approdo finale, questo, della complessa evoluzione (etica e culturale forse prima ancora che) giuridica, che molto deve alle tristi storie da cui sono scaturite querelle senza possibilità di soluzione, trattandosi di aporie vere e proprie.

Lo conferma l'espresso richiamo ai due provvedimenti (distanti nel tempo e resi in ambiti completamente diversi - giudizio di legittimità, l'uno; giurisdizione amministrativa, l'altro, - ma entrambi) riguardanti la vicenda di Eluana Englaro: da un canto, il dictum della Cassazione del 2007 (la citata sentenza n. 21748), in virtù del quale «Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale»; dall'altro, la recente decisione del T.A.R. Lombardia (sent. 6 aprile 2016 n. 650), che ha condannato la Regione al risarcimento dei danni conseguenti alla deliberata inottemperanza al provvedimento giudiziario di autorizzazione dell'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale, frapponendo ostacoli alla relativa esecuzione.

In assenza di una specifica legislazione sul fine vita, l'iter logico seguito dal giudice parte dalla considerazione sistematica del complesso contesto normativo in cui va inquadrata la fattispecie.

Si ripercorre il dettato costituzionale, esplicito nel prevedere che ogni trattamento sanitario, per poter essere praticato, necessiti del consenso dell'interessato, sempre, senza riserve di sorta, pur se il dissenso determini un pericolo di vita, reale o potenziale. Il che in virtù del principio dell'autodeterminazione individuale, fondato sul fondamentale precetto dell'inviolabilità della libertà personale (artt. 2, 13 e 32 co II Cost.) ed a sua volta fondamento della disciplina su accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori (di cui all'art. 33 della legge n. 833/1978 istitutiva del S.S.N.).

Sulla stessa lunghezza d'onda il Legislatore quando, nel 1997, aderì alla Convenzione di Oviedo ("Convenzione sui diritti umani e la biomedicina", il primo trattato internazionale di bioetica), dov'è fissata la regola generale del consenso e confermato il diritto dei pazienti al rifiuto delle cure, laddove è stabilito che «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. (...) La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso».

Mens legis confermata anche più tardi, nel 2001, in sede di ratifica della medesima Convenzione di Oviedo (con la legge n. 145/2001).

E, sebbene formalmente non sia ancora entrata in vigore nel nostro ordinamento (a quasi vent"anni dalla sottoscrizione e a quindici dalla ratifica parlamentare!), non risultando finora depositato presso il Consiglio d"Europa (organo promotore della Convenzione) lo strumento di ratifica da parte del Governo, la Convenzione di Oviedo ha comunque valore di canone ermeneutico ed è in quanto tale in grado di orientare l'interprete.

Pure nel Codice di Deontologia Medica (approvato il 15 dicembre 2006) trova riscontro il principio di autodeterminazione terapeutica: «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l"acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. (...) In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».

Infine inviolabilità della dignità umana e rispetto del consenso libero e informato trovano riconoscimento anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (che costituisce la seconda parte del Progetto di Trattato istitutivo della Costituzione europea).

Alla stregua di tale excursus giuridico-normativo, si arriva ad affermare che il riconoscimento del diritto ad autodeterminarsi in ordine al trattamento sanitario sarebbe parziale, ove non fosse riconosciuto lo speculare diritto di rifiutare il trattamento sanitario o di interromperne uno già in atto, pur se col sacrificio del bene della vita.

Sacrificio del bene della vita che neppure pone limiti al diritto all'autodeterminazione terapeutica del paziente, principio di libertà costituzionalmente garantito, in forza del quale la salute dell"individuo non può essere oggetto di imposizione coattiva.

Pertanto il quadro normativo richiamato impone il rispetto assoluto della volontà dell'interessato in ambito medico e sanitario, nel senso che ogniqualvolta il rifiuto sia informato, autentico ed attuale, non è possibile disattenderlo in nome di un dovere di curarsi quale principio di ordine pubblico.

L'esercizio del diritto di autodeterminazione terapeutica, come tutti i diritti di libertà, è condizionato dalle convinzioni etiche del titolare del diritto medesimo; inoltre è coerente con la nuova concezione della salute intesa, non più come mera assenza di malattia, bensì quale stato di benessere fisio-psichico, involgente altresì la dimensione interiore, esistenziale, dinamico-relazionale della vita.

Diritto di autodeterminazione terapeutica, dunque, quale diritto perfetto e costituzionalmente sancito, che presuppone una scelta del paziente - consapevole, libera e informata, personale (che peraltro può esprimere il rappresentante legale, come l'amministrazione di sostegno), attuale, sempre revocabile, concreta ed effettiva - nel duplice risvolto di consenso e rifiuto.




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