-  Redazione P&D  -  24/05/2017

Io vulesse truvà pace di Eduardo De Filippo - Maria Beatrice Maranò

L"almanacco di oggi ci ricorda la nascita di un grande del teatro che si dilettava a scrivere poesie, come aiuto durante la stesura delle opere teatrali: Eduardo De Filippo nasce il 24 maggio del 1900, figlio naturale dell"attore Eduardo Scarpetta e di Luisa De Filippo.

Nel 1904 debutta come giapponesino ne "La geisha", firmata da suo padre. Nel 1909 i tre fratelli De Filippo: Titina, Eduardo e Peppino, si ritrovano insieme sul palcoscenico del Valle di Roma per una recita di "Nu ministro mmiez 'e guaie" del padre Eduardo Scarpetta. Eduardo scoprì anche il mondo del teatro di varietà e delle macchiette, e fece amicizia con Totò, in un camerino di "quello sporco locale" che a lui "pare bello e sontuoso", che era il teatro Orfeo di Napoli. Un eccellente drammaturgo, così come testimoniano le sue numerosissime opere teatrali di successo, delle quali è stato autore ed interprete e che sono state rappresentate più volte anche all'estero. Tali opere teatrali si  fondano su una  attenta e dettagliata descrizione della società italiana del secondo dopoguerra, dal punto di vista storico e quotidiano: protagonista indiscussa di tutti i suoi lavori è Napoli. Fu un grande innovatore nell'ambito del teatro e del cinema italiano, tanto che il suo nome fu proposto come candidato per il premio Nobel per la letteratura. Emblematiche sono opere come "Questi fantasmi", "Natale in casa Cupiello" o "Napoli milionaria!", nelle quali l'autore racconta la vita quotidiana del popolo napoletano che spera in un futuro migliore e si affida all'aiuto di San Gennaro. Una costante sono i riferimenti  ai conflitti fra il singolo soggetto e la società, diventata chiusa e superba nel periodo post bellico, per dimenticare, per sempre, quei momenti di grandi sofferenze. Non ci sono eroi nelle opere di Eduardo, quasi a volere significare che i napoletani, sono un popolo che non ha bisogno di eroi ( Brecht docet ): I veri protagonisti, sono le persone normali che con le loro situazioni tragicomiche consentono agli spettatori di ogni tempo di specchiarsi con vizi e virtù. Su Eduardo, poeta,  scriveva di sè, lui stesso:  "Mi succedeva, a volte, scrivendo una commedia, d'impuntarmi su una situazione da sviluppare in modo da poterla agganciare più avanti ad un'altra, e allora, messo da parte il copione, per non alzarmi dal tavolino con un problema irrisolto, il che avrebbe significato non aver più voglia di riprendere il lavoro per chissà quanto tempo, mi mettevo davanti un foglio bianco e buttavo giù versi che avessero attinenza con l'argomento e i personaggi dei lavoro interrotto. Questo mi portava sempre più vicino alla essenza dei mio pensiero e mi permetteva di superare gli ostacoli. Per esempio, " 'A gatta d"o palazzo " e " Tre ppiccerilli " mi aiutarono ad andare avanti con " Filumena Marturano ". Come la gatta lascia il biglietto da mille lire e mangia il cibo, così Filumena non mira al danaro di Domenico Soriano ma alla pace e alla serenità dei suoi figli. I quali figli sono poi i tre bambini sotto un ombrello che vidi davvero una mattina in un vicolo di Napoli, uniti nella poesia, separati nella vicenda teatrale fino al momento della rivelazione di Filumena. Mentre scrivevo " Questi fantasmi ", per chiarire a me stesso il tormento di Pasquale Lojacono, ebbi bisogno di " Io vulesse truva' pace". Talvolta l'impuntatura riguarda questioni di linguaggio. Per esempio, per rendere vivo il modo d'esprimersi di Amalia Jovine nel secondo atto di " Napoli milionaria ", scrissi " L'enemì ", avendo in mente il tipo di popolana napoletana che usa termini a lei inconsueti e così, per paura di sbagliare le finali delle parole, le elimina dei tutto. Invece di dire "vitamina" dice "vitamì", invece di "anemia", "enemì": l'eterna anemia dei popolo napoletano. A poco a poco ci ho preso gusto e ora scrivo poesie anche indipendentemente dalle commedie. Fra le tante che si sono andate accumulando sul mio tavolo ho scelto quelle che più mi piacevano per farne una raccolta di versi, alcuni già pubblicati in " Il paese di Pulcinella 2 e in " '0 canisto", e altri inediti."

Io vulesse truvà pace;

ma na pace senza morte.

Una, mmieze'a tanta porte,

s'arapesse pè campà!


S'arapesse na matina,

na matin' 'e primavera,

e arrivasse fin' 'a sera

senza dì: "nzerràte llà!"


Senza sentere cchiù 'a ggente

ca te dice:"io faccio...,io dico",

senza sentere l'amico

ca te vene a cunziglià.


Senza senter' 'a famiglia

ca te dice: "Ma ch' 'e fatto?"

Senza scennere cchiù a patto

c' 'a cuscienza e 'a dignità.


Senza leggere 'o giurnale...

'a nutizia impressionante,

ch'è nu guaio pè tutte quante

e nun tiene che ce fà.


Senza sentere 'o duttore

ca te spiega a malatia...

'a ricett' in farmacia...

l'onorario ch' 'e 'a pavà.


Senza sentere stu core

ca te parla 'e Cuncettina,

Rita, Brigida, Nannina...

Chesta sì...Chell'ata no.


Pecchè, insomma, si vuò pace

e nun sentere cchiù niente,

'e 'a sperà ca sulamente

ven' 'a morte a te piglià?


Io vulesse truvà pace

ma na pace senza morte.

Una, mmiez' 'a tanta porte

s'arapesse pè campà!



S'arapesse na matina,

na matin' 'e primavera,

e arrivasse fin' 'a sera

senza dì: "nzerràte llà!"( Eduardo De Filippo)....Io vulesse truvà pace;




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