-  Ricciuti Daniela  -  25/09/2016

Danno non patrimoniale (esistenziale) da alienazione parentale (PAS) - Trib. Roma 18475/2015 - Daniela Ricciuti

Deve condannarsi al risarcimento del danno non patrimoniale, da liquidarsi in via equitativa, la condotta illecita, produttiva di alienazione parentale o genitoriale, volta all'allontanamento di un genitore da parte dell'altro, in quanto lesiva del diritto costituzionale alla genitorialità.

 

La sindrome da alienazione parentale o PAS, dall'acronimo di Parental Alienation Syndrome, consiste in un'ipotetica e controversa dinamica psicologica disfunzionale, nella quale un genitore (c.d. alienatore) attiva una sorta di programmatico allontanamento dei figli da e contro l'altro genitore (c.d. alienato), talvolta con il pieno coinvolgimento dei figli stessi, che vengono manovrati o comunque influenzati, il tutto senza adeguata mediazione esterna e professionale alla coppia genitoriale.

La fattispecie è stata oggetto di acceso dibattito - sia in campo scientifico che in ambito giuridico - sin da quando è stata teorizzata negli anni '80 dallo psichiatra statunitense Richard Gardner; nè gode di miglior fortuna il nuovo concetto di disturbo da alienazione genitoriale o PAD, da Parental Alienation Disorder, proposto più recentemente da un altro americano, il docente universitario di psichiatria William Bernet.

La maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale non riconosce la PAS come disturbo psicopatologico, in quanto generalmente la ritiene priva di presupposti clinici e di requisiti di validità e affidabilità.

Anche in Italia la figura è controversa: da una parte, vi è chi ne nega l'ammissibilità come sindrome o malattia, ritenendola sprovvista di scientificità, in assenza di dati a sostegno; dall'altra parte, invece, non mancano coloro che la considerano fenomeno innegabile e di tutta evidenza pratico-scientifica, e conseguentemente rilevante pure sul piano del diritto.

La sindrome di alienazione genitoriale, peraltro, è stata inclusa tra le possibili forme di abuso psicologico sui minori, nell'ambito delle Linee guida elaborate (nella versione approvata nel 2007) dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza (SINPIA).

Pure in ambito giudiziario vi sono segnali di riconoscimento del fenomeno.

Su questa linea il Tribunale di Roma, con la sentenza della I sez. civ. n. 18475/2015, che - ponendosi sulla medesima scia di una decisione analoga assunta qualche tempo prima dalla stessa Curia capitolina (la n. 17546/2011), cui fa espresso riferimento - ha riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale da alienazione genitoriale o parentale.

E' stata così condannata al risarcimento del danno subito dall'ex marito, la madre che, dopo una conflittuale separazione personale tra coniugi, aveva posto in essere rispetto alla figlia minore una complessiva condotta volta ad ostacolare il rapporto col padre e ad eliminare la figura paterna (dietro l'alibi di una libera volontà della figlia, che in realtà era condizionata e quindi estorta), giungendo a determinare l'interruzione dei rapporti tra padre e figlia. La loro frequentazione, infatti, era interrotta ormai da nove anni (sin dal 2006) e un paio d'anni dopo erano cessate anche le conversazioni telefoniche.

Il che è dipeso - come emerso dalle risultanze probatorie - dall'atteggiamento non collaborativo della madre, anzi fortemente ostativo, oppositivo, ostruzionistico: tale contegno della donna già a più riprese era stato censurato dalla consulenza tecnica espletata in sede di accertamento peritale nell'ambito del giudizio di separazione; inoltre era stato segnalato anche dai Servizi sociali, affidatari della minore, che perciò si erano espressi negativamente sulla possibilità di revocare l'affidamento presso di loro e disporre un affidamento esclusivo alla madre.

La donna, quindi, è stata ritenuta responsabile dell'allontanamento del padre dalla vita della figlia, avendola indotta a rifiutare ogni rapporto con lui e con la famiglia paterna.

Tale responsabilità è stata imputata al suo ostinato, caparbio e reiterato comportamento, cosciente e volontario, di indisponibilità e di rifiuto degli incontri della figlia col padre; alla sua opera di denigrazione del padre e dell'intera famiglia paterna, svolta negli anni; al fatto di non aver provato in alcun modo a migliorare il rapporto padre-figlia; al mancato attivarsi affinchè la minore maturasse un atteggiamento psicologico favorevole allo sviluppo di un equilibrato rapporto con l'altro genitore; all'aver impedito il riavvicinamento tentato dal padre.

Nè ad escludere la condotta illecita della madre è valso richiamare l'inosservanza da parte del padre agli obblighi di partecipazione alle spese straordinarie, in particolare a quelle scolastiche.

Difatti il Giudice ha rilevato che eventuali profili di inadempienza possono essere sanzionati in altri modi e non possono certo giustificare l'interruzione dei rapporti tra padre e figlio, considerato il supremo interesse a uno sviluppo sereno e equilibrato del minore.

E comunque - si è sottolineato - nella fattispecie concreta la sentenza di separazione aveva evidenziato l'ostinata mancata condivisione da parte della madre delle scelte scolastiche e di vita della minore. Pertanto aveva disposto che il padre provvedesse al rimborso delle sole spese mediche e sanitarie, posto che il genitore che decide unilateralmente, non può pretendere dall'altro la compartecipazione alle spese sostenute per scelte relative alla vita della minore, che non sono state condivise.

La decisione in commento conclude nel senso che la convenuta, venendo meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare, ma anzi di favorire la partecipazione dell"altro genitore alla crescita ed alla vita affettiva del figlio, ha determinato la lesione del diritto personale dell'attore alla genitorialità. Diritto costituzionalmente garantito a norma degli artt. 2 e 29 della Carta fondamentale.

In conseguenza di tale violazione, il padre ha patito un pregiudizio consistente nella "forte sofferenza per non avere potuto assolvere – e non per sua volontà – ai doveri verso la figlia e per non aver potuto godere della presenza e dell"affetto della stessa".

Viene dunque in considerazione "un danno non patrimoniale da intendersi nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica".

Pregiudizio che, per il suo stesso contenuto, sfugge ad una precisa quantificazione, e pertanto va liquidato mediante una valutazione di tipo equitativo, pur se ancorata a parametri razionali. Parametri che nella fattispecie in esame sono stati in concreto individuati nella gravità dei fatti, nella lunga durata temporale degli stessi, nei rapporti tra le parti e nella loro personalità, età e condizione socio-culturale.

Sulla base di tali considerazioni è stato quantificato in 20.000 euro (oltre interessi e spese di lite) il risarcimento del danno, cui è stata condannata la convenuta in favore dell'attore, per aver dunque violato il di lui diritto alla genitorialità e per avergli consequenzialmente causato un dolore e un mutamento in peius della qualità della vita, un peggioramento dell'agenda quotidiana, la compromissione della realizzazione della propria personalità,... id est (in una parola) un danno esistenziale.




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