1.Dopo aver cercato di delineare, in un primo contributo, i tratti generali di un nuovo approccio alla giustizia, occorre adesso focalizzare aspetti più specifici del tema, necessariamente ampio e generale. Una prima specificazione del tema investe il rapporto tra politica e giustizia, tra il potere politico rappresentato dal Parlamento e dal Governo e la giustizia “amministrata” dai giudici ( riprendendo la formulazione dell’art.101, primo comma, Cost. : “La giustizia è amministrata in nome del popolo “ ).
Problema questo dibattuto da decenni, spesso con toni accesi e conflittuali, tra chi -schematicamente - difende le prerogative e le attribuzioni della politica e chi invece difende le prerogative e le “guarentigie” della magistratura ( termine un po' datato, che era il titolo del Regio Decreto Legislativo 31 maggio 1946, n. 511 ). Si può dire, sicuramente, che si tratta per il nostro Paese di una vexata quaestio, discussa con modalità ed accenti diversi a seconda del momento storico-politico e dello stato dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario. Naturalmente, in questa sede ci si limita ad esaminare il rapporto politica-giustizia in relazione all’obiettivo di una giustizia soddisfacente e qualitativamente accettabile, come precisato nel primo contributo di carattere introduttivo.
Dunque, si cercherà di individuare la maniera “virtuosa” in cui si può declinare il rapporto tra politica e giustizia, evidenziando nel contempo le maniere “patologiche” in cui di fatto, dal secondo Novecento ad oggi, si è inverato in Italia il suddetto rapporto.
E’ stato acutamente osservato da un filosofo del diritto che “ Per proteggersi dall’invadenza della politica, non di rado i giudici e gli studiosi di diritto ripiegano sul tecnicismo e sul rigore, autentico o apparente. Sfoggiano un linguaggio incomprensibile ai non addetti ai lavori, pesante e complicato, e, dietro quella cortina fumogena fatta di pseudo-precisione, nascondono le loro scelte. “ ( Claudio Luzzati, “ Il giurista come intellettuale “, Il Mulino n.1/2022, pag.144 ). D’altro canto, non si può che convenire con questo Autore che
“ …non abbiamo bisogno di un giurista racchiuso in uno splendido isolamento, bensì necessitiamo di un giurista dialogante e in grado di mettersi in gioco “ ( op. cit., pag.146 ).
Ma quale è, precisamente, l’invadenza della politica dalla quale i giuristi del nostro tempo tentano di proteggersi rifugiandosi nel tecnicismo ? Non è facile rispondere a questa domanda, perché non è facile ricostruire le vicende della politica e della giustizia nel nostro Paese dalla Costituzione repubblicana al giorno d’oggi.
Tuttavia, un punto fermo ed uno spartiacque è costituito proprio dalla Costituzione del 1948 e dalla sua attuazione peraltro ritardata, poiché “ La portata pienamente innovativa della Costituzione si dispiegò solo successivamente, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in sintonia con le profonde trasformazioni sociali, politiche e culturali di quel periodo “, evidenziandosi che “ Le premesse per il ‘disgelo costituzionale’ furono poste nel 1956 dalla prima sentenza della Corte costituzionale, che superò l’orientamento restrittivo della Cassazione sulla precettività delle norme della Carta “ ( così Cesare Salvi, “ Capitalismo e diritto civile “, Bologna, 2015, pag. 82 ). Anche per la magistratura è solo tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 del XX secolo che l’innovativo disegno costituzionale trova la prima attuazione, in concomitanza con l’entrata in funzione della Corte costituzionale ( nel 1956 ) e del Consiglio superiore della magistratura ( nel 1959 ), come rilevato da uno dei più attenti studiosi della magistratura ( Edmondo Bruti Liberati,
“ Magistratura e società nell’Italia repubblicana “, Bari-Roma, 2018, pag.53 ).
La “costituzionalizzazione” del diritto civile e del diritto penale, nonché dell’ordinamento giudiziario, si avvia quindi negli anni Sessanta del secolo scorso e si consolida negli anni Settanta, con l’introduzione legislativa di riforme volte a dare attuazione ai principi costituzionali ( cfr. C. Salvi, op. cit., pag.157 ). Si intendono qui richiamare, soltanto a titolo esemplificativo, alcuni di questi interventi di riforma relativi al settore civile : lo Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970 ( legge 300 / 1970 ), l’introduzione del divorzio nel 1970 ( legge 898 / 1970 ), la riforma del diritto di famiglia del 1975 ( legge 151 / 1975 ), la nuova disciplina delle locazioni di immobili urbani nel 1978 ( legge 392 / 1978 ), la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale nel 1978 ( legge 833 / 1978 ). E’ evidente che con questi interventi legislativi si intende dare attuazione ai nuovi principi contenuti nella Carta Costituzionale del 1948, principi sovente confliggenti con la precedente legislazione ordinaria : un plastico esempio è rappresentato dall’art.1 della legge 833/1978, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale ( “ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale.
La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana…” ).
In questo modo il legislatore fa bene il suo “mestiere”, adeguando la normativa previgente alla nuova architettura costituzionale, espressione di un ordinamento democratico, fondato sui diritti inviolabili della persona umana, diritti non solo individuali ma anche sociali ( lavoro, istruzione, salute ). Anche il rapporto con la magistratura, soggetta alla legge ( art.101, secondo comma, Cost. ) e autonoma e indipendente dagli altri poteri ( art.104, primo comma ), si caratterizza in questa fase in termini fisiologici, di reciproco rispetto e collaborazione, in aderenza al principio inderogabile di separazione dei poteri : si può certamente affermare che questo periodo “ …è la stagione di una serie di riforme, che sanzionano i cambiamenti profondi della società e attribuiscono sempre nuovi compiti alla magistratura, la quale peraltro, in non pochi casi con nuove interpretazioni e nuove prassi, ha aperto la via al legislatore “ ( E. Bruti Liberati, op. cit., pag.112 ).
2. Ma dopo, dagli anni ’80 in poi, questa situazione quasi idilliaca e comunque felice nel rapporto tra politica e magistratura svanisce rapidamente, fino a trasformarsi in contrasto aperto o indiretto, in concomitanza con eventi gravi come, in primo luogo, la scoperta della loggia P2 nel 1981 ( che non risparmia la categoria dei magistrati, anche se si deve riconoscere che “ La magistratura in diverse sue articolazioni dà subito il segno di procedere con fermezza nei confronti dei piduisti “ : E. Bruti Liberati, op. cit., pag.174 ).
Questo è anche l’effetto dell’espansione del ruolo del potere giudiziario e, in particolare, delle indagini giudiziarie nei confronti di esponenti politici per fatti di corruzione : inizia già negli anni Ottanta il fenomeno definito giornalisticamente come “Tangentopoli”, che culminerà negli anni Novanta con la ben nota inchiesta della Procura della Repubblica di Milano denominata “Mani pulite “ ( per un’interessante disamina di uno dei primi processi di questo tipo, dalla parte del magistrato istruttore, cfr. Michele Del Gaudio, “ La toga strappata “, Napoli, 1992 ). E’ abbastanza evidente che, nel momento in cui l’intervento giudiziario tocca in modo non isolato la classe politica, per episodi di corruzione o comunque per delitti contro la Pubblica Amministrazione, la reazione della politica, in forme più o meno istituzionali, non tarda ad arrivare, così da giungere in più occasioni a scontri tra esponenti del potere politico ed esponenti del potere giudiziario.
Non si può e non si vuole, in questa sede, esaminare nel dettaglio una vicenda come quella di Tangentopoli, che richiede il piglio e la competenza dello storico ; il dato che interessa qui sottolineare è che sicuramente positivo è stato l’intensificarsi di inchieste giudiziarie per episodi di corruzione politico-amministrativa, senza timidezze o malintesi sensi di self-restraint da parte della magistratura, ma ciò non esime dal valutare l’esito giudiziario dei singoli processi, il rispetto delle garanzie difensive, che valgono per tutti gli imputati, anche se titolari di alte cariche politiche o amministrative. Si è detto in maniera ineccepibile :
“ Alla giustizia penale si deve chiedere di accertare, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa, fatti di reato specifici e responsabilità individuali e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali “ ( E. Bruti Liberati, op. cit., pag. 276 ). La precisazione non è superflua, perché talvolta alcuni magistrati ( in specie Pubblici Ministeri ) non si sono conformati a questa regola fondamentale, presentandosi come persecutori di un sistema illecito ( come quello della corruzione ) piuttosto che di specifici fatti delittuosi ascritti a singoli imputati.
Solo attenendosi a queste regole basilari di civiltà giuridica l’interventismo della magistratura in questi campi è benvenuto ed anzi doveroso, considerato che in un sistema democratico non devono esserci zone “franche” ed impunità per nessuno, tanto meno per politici e/o amministratori pubblici.
Ma sempre nel rispetto del principio di separazione dei poteri : da un lato, il potere politico non deve mai invadere o tentare di limitare la sfera di autonomia e indipendenza riservata dalla Costituzione alla magistratura ; dall’altro, reciprocamente, il potere giudiziario non deve assumere un ruolo direttamente politico, entrando nella contesa politica e cercando il consenso della società e dei cittadini. Quest’ultima è una strada pericolosa, per il magistrato e specialmente per il pubblico ministero, come riconosciuto peraltro dai magistrati più avvertiti ( cfr. Paolo Borgna - Margherita Cassano, “ Il giudice e il Principe “, Roma, 1997, pag. 90 : “ …sarebbe certamente nefasta la ricerca di un consenso fondato sulla popolarità di questa o quella iniziativa giudiziaria “ ).
Questa pare la prospettiva corretta da cui esaminare i problemi di cui si discute, prospettiva che cerca di essere fedele al dettato e al disegno complessivo della nostra Costituzione : dettato e disegno complessivo che, nonostante il parere contrario di taluni commentatori, resta valido e adeguato anche oggi. D’altro canto, la soggezione del giudice alla legge
( art.101, comma 2, Cost. ) va intesa proprio come soggezione alle leggi interpretate alla luce della Costituzione e, quindi, pone il giudice in collegamento diretto con le norme costituzionali ( in questo senso v. P. Borgna - M. Cassano, op. cit., pag. 67 : “ …il giudice deve essere garante dei diritti di tutti i cittadini : dei diritti che sono consacrati nelle leggi, espressione della volontà politica della maggioranza, e dei diritti fondamentali, affermati nella Costituzione “ ).
3. Dovrebbe essere chiaro dalle considerazioni precedenti che il ripiegamento di molti giuristi contemporanei nel tecnicismo, così da nascondere le loro scelte di valore, evidenziato con preoccupazione dal filosofo del diritto Claudio Luzzati ( v. paragrafo 1 ), non è una strada auspicabile soprattutto per il giudice che applica il diritto, proprio alla luce del mutamento e dell’espansione del suo ruolo intervenuto dagli anni Settanta del secolo scorso fino ad oggi. Infatti, va riconosciuto che “ L’espansione della discrezionalità giudiziaria è quasi inevitabile davanti a testi legislativi confusi, contraddittori, con formule oscure, al degrado del linguaggio legale e delle tecniche legislative … “ ( C. Salvi, op. cit., pag. 201 ).
Se, quindi, aumenta la discrezionalità giudiziaria, la risposta del giudice non può essere affidata alla sola tecnica giuridica, ad un tecnicismo fine a se stesso, ma richiede anche scelte valutative fondate sulla conoscenza diretta dei problemi sociali su cui è chiamato ad intervenire, sempre alla luce dei principi fondamentali della Costituzione ( così anche
P. Borgna - M. Cassano, op. cit, pag. 66 : “ La dimensione tecnica dell’interpretazione della norma rimane, come ieri, importante ed essenziale. Ma non basta più. Perché il sapere del giudice deve ormai essere più ampio e comprendere la conoscenza dei problemi sociali su cui incide “ ).
Di fronte ai profondi cambiamenti politici, sociali, culturali intervenuti in Italia dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi sarebbe anacronistico, oltre che sbagliato, cercare di riesumare una concezione del giudice come bouche de la loi, come interprete della legge secondo parametri puramente tecnico-giuridici ancorati alla lettera del testo normativo ( come
statuito dall’art.12 delle c.d. preleggi, le disposizioni preliminari al Codice Civile ).
Questo non può avvenire perché, prima di tutto, non esiste più - da molti decenni - una legge generale e astratta, completa e coerente, che il giudice debba solo interpretare secondo i canoni classici dell’interpretazione giuridica. Al contrario, la legge moderna è spesso particolare, riferita a situazioni specifiche, confusa, disarmonica se non contraddittoria, oscura tanto da non evidenziare la “intenzione del legislatore “ ( che invece il citato art.12 delle preleggi poneva come parametro fondamentale dell’interpretazione ). E’ evidente che al cospetto di questo tipo di legislazione il giudice non può utilizzare gli strumenti ermeneutici del passato, pena l’impossibilità di risolvere le controversie a lui affidate : se non gli è consentito l’esercizio del libero apprezzamento discrezionale non può venire a capo delle cause che è chiamato a decidere ( così C. Luzzati, op. cit., pag.144 : “ …se non si colmassero in un modo o nell’altro quegli spazi decisori, la causa resterebbe in sospeso e non si potrebbe venirne a capo “ ).
D’altra parte, occorre sempre evitare il pericolo che gli organi giudiziari esorbitino dalle funzioni loro assegnate dalla Costituzione ed invadano gli spazi propri della politica, perché in tal modo verrebbe intaccato il principio irrinunciabile di separazione dei poteri, già in precedenza richiamato. Va rifiutato, quindi, un improponibile ritorno al modello di giudice “bocca della legge”, ma nel contempo va fatto in modo che la magistratura sappia esercitare in maniera consapevole le nuove attribuzioni e i nuovi compiti alla stessa assegnati, senza sconfinamenti e senza indebite forme di protagonismo, anche mediatico.
Non è facile per i magistrati far fronte ai nuovi gravosi compiti senza travalicare i confini della giurisdizione, ma è necessario, per salvaguardare l’assetto costituzionale complessivo e l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Diversamente le ricorrenti accuse di parte politica di un
“governo dei giudici “ cesserebbero di essere strumentali ( come in prevalenza sono ) ed acquisterebbero qualche consistenza.
Di fronte alla indubbia crisi della politica, che “ ..non riesce più, come una volta, a esprimere ideali e una sua razionalità “ ( C. Luzzati, op. cit., pag.149 ), il magistrato non può pensare di sostituirsi al legislatore e di far valere i suoi ideali e la sua razionalità, bensì deve approfondire ed ampliare i suoi poteri di interpretazione della norma e di valutazione della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, al fine di giungere ad una soluzione accettabile del caso, anche avvalendosi, qualora non sia possibile pervenire ad una interpretazione “costituzionalmente orientata” della legge che è chiamato ad applicare, della facoltà di sollevare una questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale. Ciò è difficile, senza dubbio, ma è possibile, attingendo alle risorse di competenza professionale e di sensibilità istituzionale che non mancano alla nostra magistratura.
Resta l’auspicio che il Parlamento torni ad esercitare in modo adeguato il suo compito di legiferare, come aveva fatto almeno fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso nella stagione della “attuazione costituzionale”, recuperando una identità ed una centralità oggi fortemente compromesse : i tempi sono profondamente cambiati, ma è sempre possibile che l’organo legislativo recuperi la capacità di leggere e regolare i fenomeni sociali ed economici traducendo ciò in testi normativi non effimeri e non meramente compromissori. Di questo si avvantaggerebbe, ovviamente, tutto il sistema costituzionale e, in particolare, il sistema della giustizia, oggi in sofferenza.
Nel momento attuale, peraltro, sono in discussione o già pronte proposte di riforma del sistema giustizia, che potrebbero cambiarne i connotati : pare necessario, quindi, esaminarle e valutarle nel dettaglio, come sarà fatto in un successivo e conclusivo contributo, dedicato appunto al tema delle riforme della giustizia.