Interessi protetti  -  Redazione P&D  -  04/05/2022

Verso un nuovo approccio alla giustizia: sul rapporto tra politica e giustizia (seconda  parte) - Massimo Niro

1.Dopo  aver  cercato  di  delineare, in  un  primo  contributo, i  tratti  generali  di  un  nuovo  approccio  alla  giustizia,  occorre  adesso  focalizzare  aspetti  più  specifici  del  tema, necessariamente  ampio  e  generale.  Una  prima  specificazione  del  tema  investe  il  rapporto  tra  politica  e  giustizia,  tra  il  potere  politico  rappresentato  dal  Parlamento  e  dal  Governo  e  la  giustizia  “amministrata”  dai  giudici ( riprendendo  la  formulazione  dell’art.101, primo  comma, Cost. :  La  giustizia  è  amministrata  in  nome  del  popolo “ ).

Problema  questo  dibattuto  da  decenni, spesso  con  toni  accesi  e  conflittuali, tra  chi -schematicamente - difende  le  prerogative  e  le  attribuzioni  della  politica  e  chi  invece  difende  le  prerogative  e  le  “guarentigie”  della  magistratura ( termine  un  po'  datato, che  era  il  titolo  del  Regio  Decreto  Legislativo  31  maggio  1946, n. 511 ).   Si  può  dire, sicuramente, che  si  tratta  per  il  nostro  Paese  di  una  vexata  quaestio,  discussa  con  modalità  ed  accenti  diversi  a  seconda  del  momento  storico-politico  e  dello  stato  dei  rapporti  tra  potere  politico  e  potere  giudiziario.  Naturalmente, in  questa  sede  ci  si  limita  ad  esaminare  il  rapporto  politica-giustizia  in  relazione  all’obiettivo  di  una  giustizia  soddisfacente  e  qualitativamente  accettabile, come  precisato  nel  primo  contributo  di  carattere  introduttivo.  

Dunque, si  cercherà  di  individuare  la  maniera  “virtuosa”  in  cui  si  può  declinare  il  rapporto  tra  politica  e  giustizia,  evidenziando  nel  contempo  le  maniere  “patologiche”  in  cui  di  fatto, dal  secondo  Novecento  ad  oggi,  si  è  inverato  in  Italia  il  suddetto  rapporto.  

E’  stato  acutamente  osservato  da  un  filosofo  del  diritto  che  Per  proteggersi  dall’invadenza  della  politica,  non  di  rado  i  giudici  e  gli  studiosi  di  diritto  ripiegano  sul  tecnicismo  e  sul  rigore, autentico o apparente.  Sfoggiano  un  linguaggio  incomprensibile  ai  non  addetti  ai  lavori, pesante  e  complicato, e, dietro  quella  cortina  fumogena  fatta  di  pseudo-precisione,  nascondono  le  loro  scelte. “ ( Claudio  Luzzati,  Il  giurista  come  intellettuale “,  Il  Mulino  n.1/2022,  pag.144 ).   D’altro  canto,  non  si  può  che  convenire  con  questo  Autore  che  

“ …non  abbiamo  bisogno  di  un  giurista  racchiuso  in  uno  splendido  isolamento, bensì  necessitiamo  di  un  giurista  dialogante  e  in  grado  di  mettersi  in  gioco “ ( op. cit., pag.146 ).

Ma  quale  è, precisamente,  l’invadenza  della  politica  dalla  quale  i  giuristi  del  nostro  tempo  tentano  di  proteggersi  rifugiandosi  nel  tecnicismo ?  Non  è  facile  rispondere  a  questa  domanda,  perché  non  è  facile  ricostruire  le  vicende  della  politica  e  della  giustizia  nel  nostro  Paese  dalla  Costituzione  repubblicana  al  giorno  d’oggi.  

Tuttavia, un  punto  fermo  ed  uno  spartiacque  è  costituito  proprio  dalla  Costituzione  del  1948  e  dalla  sua  attuazione  peraltro  ritardata,  poiché  La  portata  pienamente  innovativa  della  Costituzione  si  dispiegò  solo  successivamente, negli  anni  ’60  e  ’70  del  secolo  scorso, in  sintonia  con  le  profonde  trasformazioni  sociali, politiche  e  culturali  di  quel  periodo “,  evidenziandosi  che  Le  premesse  per  il  ‘disgelo  costituzionale’  furono  poste  nel  1956  dalla  prima  sentenza  della  Corte  costituzionale, che  superò  l’orientamento  restrittivo  della  Cassazione  sulla  precettività  delle  norme  della  Carta “ (  così  Cesare  Salvi,  Capitalismo  e  diritto  civile “,  Bologna, 2015,  pag. 82 ).   Anche  per  la  magistratura  è  solo  tra  la  fine  degli  anni  ’50  e  gli  inizi  degli  anni  ’60  del  XX  secolo  che  l’innovativo  disegno  costituzionale  trova  la  prima  attuazione,  in  concomitanza  con  l’entrata  in  funzione  della  Corte  costituzionale ( nel  1956 ) e  del  Consiglio  superiore  della  magistratura ( nel  1959 ),  come  rilevato  da  uno  dei  più  attenti  studiosi  della  magistratura ( Edmondo  Bruti  Liberati,  

“ Magistratura  e  società  nell’Italia  repubblicana “, Bari-Roma, 2018, pag.53 ).

La  “costituzionalizzazione”  del  diritto  civile  e  del  diritto  penale, nonché  dell’ordinamento  giudiziario, si  avvia  quindi  negli  anni  Sessanta  del  secolo  scorso  e  si  consolida  negli  anni  Settanta, con  l’introduzione  legislativa  di  riforme  volte  a  dare  attuazione  ai  principi  costituzionali ( cfr.  C. Salvi, op. cit.,  pag.157 ).   Si  intendono  qui  richiamare, soltanto  a  titolo  esemplificativo, alcuni  di  questi  interventi  di  riforma  relativi  al settore  civile :  lo  Statuto  dei  diritti  dei  lavoratori  del  1970 ( legge  300 / 1970 ),  l’introduzione  del  divorzio  nel  1970 ( legge  898 / 1970 ), la  riforma  del  diritto  di  famiglia  del 1975 ( legge  151 / 1975 ),  la  nuova  disciplina  delle  locazioni  di  immobili  urbani  nel  1978 ( legge  392 / 1978 ), la  legge  istitutiva  del  Servizio  sanitario  nazionale  nel  1978 ( legge  833 / 1978 ).  E’  evidente  che  con  questi  interventi  legislativi  si  intende  dare  attuazione  ai  nuovi  principi  contenuti  nella  Carta  Costituzionale  del  1948,  principi  sovente  confliggenti  con  la  precedente  legislazione  ordinaria :  un  plastico  esempio  è  rappresentato  dall’art.1  della  legge  833/1978,  che  ha  istituito  il  Servizio  sanitario  nazionale ( “ La  Repubblica  tutela  la  salute  come  fondamentale  diritto  dell’individuo  e  interesse  della  collettività  mediante  il  servizio  sanitario  nazionale.

La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana…” ).   

In  questo  modo  il  legislatore  fa  bene  il  suo  “mestiere”,  adeguando  la  normativa  previgente  alla  nuova  architettura  costituzionale, espressione  di  un  ordinamento  democratico, fondato  sui  diritti  inviolabili  della  persona  umana, diritti  non  solo  individuali  ma  anche  sociali ( lavoro, istruzione, salute ).   Anche  il  rapporto  con  la  magistratura, soggetta  alla  legge ( art.101, secondo  comma, Cost. ) e  autonoma  e  indipendente  dagli  altri  poteri ( art.104, primo  comma ), si  caratterizza  in  questa  fase  in  termini  fisiologici, di  reciproco  rispetto  e  collaborazione, in  aderenza  al  principio  inderogabile  di  separazione  dei  poteri :  si  può  certamente  affermare  che  questo  periodo  …è  la  stagione  di  una  serie  di  riforme, che  sanzionano  i  cambiamenti  profondi  della  società  e  attribuiscono  sempre  nuovi  compiti  alla  magistratura, la  quale  peraltro, in  non  pochi  casi  con  nuove  interpretazioni  e  nuove  prassi, ha  aperto  la  via  al  legislatore “ (  E. Bruti  Liberati, op. cit., pag.112 ).  

2. Ma  dopo, dagli  anni  ’80  in  poi, questa  situazione  quasi  idilliaca  e  comunque  felice  nel  rapporto  tra  politica  e  magistratura  svanisce  rapidamente,  fino  a  trasformarsi  in  contrasto  aperto o  indiretto,  in  concomitanza  con  eventi  gravi  come, in  primo  luogo, la  scoperta  della  loggia  P2  nel  1981 ( che  non  risparmia  la  categoria  dei  magistrati, anche  se  si  deve  riconoscere  che  La  magistratura  in  diverse  sue  articolazioni    subito  il  segno  di  procedere  con  fermezza  nei  confronti  dei  piduisti “ :  E. Bruti  Liberati, op. cit., pag.174 ).

Questo  è  anche  l’effetto  dell’espansione  del  ruolo  del  potere  giudiziario  e, in  particolare, delle  indagini  giudiziarie  nei  confronti  di  esponenti  politici  per  fatti  di  corruzione  :  inizia  già  negli  anni  Ottanta  il  fenomeno  definito  giornalisticamente  come  “Tangentopoli”,  che  culminerà  negli  anni  Novanta  con  la  ben  nota  inchiesta  della  Procura  della  Repubblica  di  Milano  denominata  “Mani  pulite “ (  per  un’interessante  disamina  di  uno  dei  primi  processi  di  questo  tipo, dalla  parte  del  magistrato  istruttore, cfr. Michele  Del  Gaudio,  La  toga  strappata “,  Napoli, 1992 ).  E’  abbastanza  evidente  che, nel  momento  in  cui  l’intervento  giudiziario  tocca  in  modo  non  isolato  la  classe  politica,  per  episodi  di  corruzione  o  comunque  per  delitti  contro  la  Pubblica  Amministrazione,  la  reazione  della  politica, in  forme  più  o  meno  istituzionali,  non  tarda  ad  arrivare,  così  da  giungere  in  più  occasioni  a  scontri  tra  esponenti  del  potere  politico  ed  esponenti  del  potere  giudiziario.  

Non  si  può  e  non  si  vuole, in  questa  sede,  esaminare  nel  dettaglio  una  vicenda  come  quella  di  Tangentopoli,  che  richiede  il  piglio  e  la  competenza  dello  storico ;  il  dato  che  interessa  qui  sottolineare  è  che  sicuramente  positivo  è  stato  l’intensificarsi  di  inchieste  giudiziarie  per  episodi  di  corruzione  politico-amministrativa, senza  timidezze  o  malintesi  sensi  di  self-restraint  da  parte  della  magistratura,  ma  ciò   non  esime  dal  valutare  l’esito  giudiziario  dei  singoli  processi, il  rispetto  delle  garanzie  difensive,  che  valgono  per  tutti  gli  imputati, anche  se  titolari  di  alte  cariche  politiche  o  amministrative.   Si  è  detto  in  maniera  ineccepibile  :

Alla  giustizia  penale  si  deve  chiedere  di  accertare, con  il  livello  di  prova  elevato  che  si esige  per  una  condanna, nel  pieno  rispetto  delle  garanzie  di  difesa, fatti  di  reato  specifici  e  responsabilità  individuali  e  non  di  indagare  e  pretendere  di  risolvere  problemi  politici  e  sociali “ (  E. Bruti  Liberati, op. cit., pag. 276 ).  La  precisazione  non  è  superflua,  perché  talvolta  alcuni  magistrati ( in  specie  Pubblici  Ministeri )  non  si  sono  conformati  a  questa  regola  fondamentale,  presentandosi  come  persecutori  di  un  sistema  illecito ( come  quello  della  corruzione ) piuttosto  che  di  specifici  fatti  delittuosi  ascritti  a  singoli  imputati.

Solo  attenendosi  a  queste  regole  basilari  di  civiltà  giuridica  l’interventismo  della  magistratura  in  questi  campi  è  benvenuto  ed  anzi  doveroso,  considerato  che  in  un  sistema  democratico  non  devono  esserci  zone  “franche”  ed  impunità  per  nessuno, tanto  meno  per  politici  e/o  amministratori  pubblici.  

Ma  sempre  nel  rispetto del  principio  di  separazione  dei  poteri :  da  un  lato, il  potere  politico  non  deve  mai  invadere  o  tentare  di  limitare  la  sfera  di  autonomia  e  indipendenza  riservata  dalla  Costituzione  alla  magistratura ;  dall’altro, reciprocamente,  il  potere  giudiziario  non  deve  assumere  un  ruolo  direttamente  politico, entrando  nella  contesa  politica  e  cercando  il  consenso  della  società  e  dei  cittadini.  Quest’ultima  è  una  strada  pericolosa, per  il  magistrato  e  specialmente  per  il  pubblico  ministero,  come  riconosciuto  peraltro  dai  magistrati  più  avvertiti ( cfr.  Paolo  Borgna - Margherita  Cassano, “ Il  giudice  e  il  Principe “,  Roma, 1997, pag. 90 :  …sarebbe  certamente  nefasta  la  ricerca  di  un  consenso  fondato  sulla  popolarità  di  questa  o  quella  iniziativa  giudiziaria “ ). 

Questa  pare  la  prospettiva  corretta  da  cui  esaminare  i  problemi  di  cui  si  discute,  prospettiva  che  cerca  di  essere  fedele  al  dettato  e  al  disegno  complessivo  della  nostra  Costituzione : dettato  e  disegno  complessivo  che, nonostante  il  parere  contrario  di  taluni  commentatori,  resta  valido  e  adeguato  anche  oggi.   D’altro  canto, la  soggezione  del  giudice  alla  legge 

( art.101, comma  2, Cost. )  va  intesa  proprio  come  soggezione  alle  leggi  interpretate  alla  luce  della  Costituzione  e, quindi, pone  il  giudice  in  collegamento  diretto  con  le  norme  costituzionali ( in  questo  senso  v.  P. Borgna - M. Cassano, op. cit., pag. 67 :  …il  giudice  deve  essere  garante  dei  diritti  di  tutti  i  cittadini  :  dei  diritti  che  sono  consacrati  nelle  leggi, espressione  della  volontà  politica  della  maggioranza, e  dei  diritti  fondamentali, affermati  nella  Costituzione “ ). 

3. Dovrebbe  essere  chiaro  dalle  considerazioni  precedenti  che  il  ripiegamento  di  molti  giuristi  contemporanei  nel  tecnicismo, così  da  nascondere  le  loro  scelte  di  valore,  evidenziato  con  preoccupazione  dal  filosofo  del  diritto  Claudio  Luzzati ( v. paragrafo  1 ),  non  è  una  strada  auspicabile  soprattutto  per  il  giudice  che  applica  il  diritto,  proprio  alla  luce  del  mutamento  e  dell’espansione  del  suo  ruolo  intervenuto  dagli  anni  Settanta  del  secolo  scorso  fino  ad  oggi.  Infatti, va  riconosciuto  che  L’espansione  della  discrezionalità  giudiziaria  è  quasi  inevitabile  davanti  a  testi  legislativi  confusi, contraddittori, con  formule  oscure,  al  degrado  del  linguaggio legale  e  delle tecniche  legislative … “ (  C. Salvi, op. cit., pag. 201 ). 

Se, quindi, aumenta  la  discrezionalità  giudiziaria,  la  risposta  del  giudice  non  può  essere  affidata  alla  sola  tecnica  giuridica, ad  un  tecnicismo  fine  a  se  stesso,  ma  richiede  anche  scelte  valutative  fondate  sulla  conoscenza  diretta  dei  problemi  sociali  su  cui  è  chiamato  ad  intervenire,  sempre  alla  luce  dei  principi  fondamentali  della  Costituzione ( così  anche  

P. Borgna - M. Cassano, op. cit,  pag. 66  :  La  dimensione  tecnica  dell’interpretazione  della  norma  rimane, come  ieri, importante  ed  essenziale.  Ma  non  basta  più.  Perché  il  sapere  del  giudice  deve  ormai  essere  più  ampio  e  comprendere  la  conoscenza  dei  problemi  sociali  su  cui  incide “ ). 

Di  fronte  ai  profondi  cambiamenti  politici, sociali, culturali  intervenuti  in  Italia  dalla  seconda  metà  del  secolo  scorso  ad  oggi  sarebbe  anacronistico, oltre  che  sbagliato, cercare  di  riesumare  una  concezione  del  giudice  come  bouche  de  la  loi,  come  interprete  della  legge  secondo  parametri  puramente  tecnico-giuridici  ancorati  alla  lettera  del  testo  normativo ( come  

statuito  dall’art.12  delle  c.d. preleggi,  le  disposizioni  preliminari  al  Codice  Civile ).  

Questo  non  può  avvenire  perché, prima  di  tutto, non  esiste  più - da  molti  decenni -  una  legge  generale  e  astratta, completa  e  coerente,  che  il  giudice  debba  solo  interpretare  secondo  i  canoni  classici  dell’interpretazione  giuridica.  Al  contrario,  la  legge  moderna  è  spesso  particolare, riferita  a  situazioni  specifiche, confusa, disarmonica  se  non  contraddittoria,  oscura  tanto  da  non  evidenziare  la  “intenzione  del  legislatore “ ( che  invece  il  citato  art.12  delle  preleggi  poneva  come  parametro  fondamentale  dell’interpretazione ).   E’  evidente  che  al cospetto  di  questo  tipo  di  legislazione  il  giudice  non  può  utilizzare  gli  strumenti  ermeneutici  del  passato, pena  l’impossibilità  di  risolvere  le  controversie  a  lui  affidate :  se  non  gli  è  consentito  l’esercizio  del  libero  apprezzamento  discrezionale  non  può  venire  a  capo  delle  cause  che  è  chiamato  a  decidere ( così  C. Luzzati, op. cit., pag.144  :  …se  non si  colmassero  in  un  modo  o  nell’altro  quegli  spazi  decisori, la  causa  resterebbe  in  sospeso  e  non  si  potrebbe  venirne  a  capo “ ).

D’altra  parte,  occorre  sempre  evitare  il  pericolo  che  gli  organi  giudiziari  esorbitino  dalle  funzioni  loro  assegnate  dalla  Costituzione  ed  invadano  gli  spazi  propri  della  politica,  perché  in  tal  modo  verrebbe  intaccato  il  principio  irrinunciabile  di  separazione  dei  poteri, già  in  precedenza  richiamato.  Va  rifiutato, quindi, un  improponibile  ritorno  al  modello  di  giudice  “bocca  della  legge”,  ma  nel  contempo  va  fatto  in  modo  che  la  magistratura  sappia  esercitare  in  maniera  consapevole  le  nuove  attribuzioni  e  i  nuovi  compiti  alla  stessa  assegnati,  senza  sconfinamenti  e  senza  indebite  forme  di  protagonismo, anche  mediatico.

Non  è  facile  per  i  magistrati  far  fronte  ai  nuovi  gravosi  compiti  senza  travalicare  i  confini  della  giurisdizione,  ma  è  necessario,  per  salvaguardare  l’assetto  costituzionale  complessivo  e  l’equilibrio  tra  i  poteri  dello  Stato.   Diversamente  le  ricorrenti  accuse  di  parte  politica  di  un

“governo  dei  giudici “  cesserebbero  di  essere  strumentali ( come  in  prevalenza  sono )  ed  acquisterebbero  qualche  consistenza.

Di  fronte  alla  indubbia  crisi  della  politica,  che  ..non  riesce  più, come  una  volta, a  esprimere  ideali  e  una  sua  razionalità “ ( C. Luzzati, op. cit., pag.149 ),  il  magistrato  non  può  pensare  di  sostituirsi  al  legislatore  e  di  far  valere  i  suoi  ideali  e  la  sua  razionalità,  bensì  deve  approfondire  ed  ampliare  i  suoi  poteri  di  interpretazione  della  norma  e  di  valutazione  della  fattispecie  concreta  sottoposta  al  suo  esame,  al  fine  di  giungere  ad  una  soluzione  accettabile  del  caso,  anche  avvalendosi, qualora  non  sia  possibile  pervenire  ad  una  interpretazione  “costituzionalmente  orientata”  della  legge  che  è  chiamato  ad  applicare, della  facoltà  di  sollevare  una  questione  di  legittimità  costituzionale  dinanzi  alla  Corte  costituzionale.   Ciò  è  difficile,  senza  dubbio,  ma  è  possibile,  attingendo  alle  risorse  di  competenza  professionale  e  di  sensibilità  istituzionale  che  non  mancano  alla  nostra  magistratura.

Resta  l’auspicio  che  il  Parlamento  torni  ad  esercitare  in  modo  adeguato  il  suo  compito  di  legiferare,  come  aveva  fatto  almeno  fino  alla  fine  degli  anni  Settanta  del  secolo  scorso  nella  stagione  della  “attuazione  costituzionale”,  recuperando  una  identità  ed  una  centralità  oggi  fortemente  compromesse  :  i  tempi  sono  profondamente  cambiati,  ma  è  sempre  possibile  che  l’organo  legislativo  recuperi  la  capacità  di  leggere  e  regolare  i  fenomeni  sociali  ed  economici  traducendo  ciò  in  testi  normativi  non  effimeri  e  non  meramente  compromissori.  Di  questo  si  avvantaggerebbe, ovviamente, tutto  il  sistema  costituzionale  e, in  particolare, il  sistema  della  giustizia,  oggi  in  sofferenza.

Nel  momento  attuale, peraltro, sono  in  discussione  o  già  pronte  proposte  di  riforma  del  sistema  giustizia,  che  potrebbero  cambiarne  i  connotati :  pare  necessario, quindi, esaminarle  e  valutarle  nel  dettaglio,  come  sarà  fatto  in  un  successivo  e  conclusivo  contributo,  dedicato  appunto  al  tema  delle  riforme  della  giustizia.




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