Alessandro Barca, Michela Ferraris, Arianna Baldelli, Cecilia Barisone, Giacomo Battaglia, Giulio Bertora, Martina Bregante, Chiara Caccavale, Claudia Campanale, Simone Incorvaia, Simone Parisi, Arianna Sambito
“Perché le idee sono come farfalle che non puoi togliergli le ali
Perché le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali
Perché le idee sono voci di madre che credevano di avere perso e sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo
Continua a scrivere la vita, tra il silenzio e il tuono, difendi questa umanità che è così vera in ogni uomo
In questo disperato sogno tra il silenzio e il tuono difendi questa umanità anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore, chiamami sempre amore perché noi siamo amore”
(passaggi tratti da Roberto Vecchioni, “Chiamami ancora amore”)
1. Vivere, rispettare e tutelare la fragilità.
Il libro di racconti del Prof. Paolo Cendon (come tutta la sua sterminata produzione scientifica a tutela dei soggetti fragili) pone al centro del diritto la persona, la sua interiorità con l’impegno a restituire a ciascuno una vita decorosa.
Non parla nel linguaggio giuridico in senso stretto ma nel linguaggio dei sentimenti e della filosofia anche se dietro ogni racconto si possono leggere le tutele giuridiche che nel tempo sono state approntate, o che ancora devono essere approntate, a tutela di ogni singola esperienza di vita descritta.
I racconti vanno così a fondo nell’ombra umana che alla fine di ogni racconto questa ombra, da ombra, diventa luce in cerca di ascolto.
Racconti profondamente umani nei quali si narra di gesti, di silenzi, di sguardi e di espressione dei volti e qui la narrazione si fa via via più intensa sino ad esprimere sentimenti di dolore ma anche di speranza. Sono vellutati, perché intendono tracciare, tessere, un colloquio con il lettore.
Si può scoprire un Paolo Cendon non solamente giurista ma abilissimo narratore che ci fa comprendere che anche la solitudine, la fragilità, il dolore, la follia, e le disabilità in ogni loro forma (ludopatia, anoressia, droga, alcool) possono volgere al positivo.
Tutta l’opera di Cendon in difesa dei fragili origina da Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano del quale quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita: tutto inizia dalla chiusura dei manicomi, per curare la follia, per non lasciare i malati di mente soli, per legare, stringere una relazione empatica con loro, alla ricerca della tenerezza.
Da lì si dipana tutta la Sua produzione scientifica a tutela delle varie e variegate forme di disabilità e Cendon pare voglia insegnarci che non si sanno scegliere le parole ed i diritti che curano e le parole ed i diritti che salvano, se non si è capaci di introspezione e di immedesimazione: noi siamo di continuo responsabili delle parole che diciamo e di quelle che dovremmo dire e non diciamo ma anche dei silenzi che sono più delle parole e Cendon traduce tutto questo nel suo libro.
L’alterità, il rispetto della condizione dell’altro, soprattutto quando soffre, è il terreno del confronto per rimuovere e superare la solitudine e l’ombra dell’anima.
Potremmo definire il Prof. Cendon, quando tratta dei diritti dei deboli, come poeta della fragilità, fragilità come ombra in cerca di ascolto, appunto.
Ha scritto Emily Dickinson: “Una parola muore appena è detta dice qualcuno. Io dico che comincia appena a vivere quel giorno”, se la sappiamo ascoltare, aggiungo io.
Eh sì, perché le parole contenute nel libro raccontano di esperienze umane che trascinano con loro angoscia, tristezza, solitudine, dissociazione e smarrimento ma ogni parola può essere, di volta in volta, quella decisiva, quella che crea fiducia nella soluzione di queste situazioni grazie alle tutele giuridiche che la dottrina ha nel tempo creato sfruttando i principi contenuti nella nostra Carta costituzionale.
Un’opera capace di emozionare e restare nel cuore perché, come tutti i grandi giuristi, Paolo Cendon ci spiega i fatti ed i diritti ad essi collegati, in modo semplice e chiaro.
Ogni episodio narrato è una esperienza vissuta dall’Autore e da ogni esperienza egli trae un insegnamento ed uno sprone per aiutare i personaggi descritti nei singoli racconti e ricordarci che quei personaggi, un giorno, potremmo essere noi stessi.
Desidero chiudere questa premessa ricordando le parole di Matteo Fedeli, violinista, violista e docente di violino: “Suonare per gli ospiti delle RSA dà un ritorno, a livello emozionale, che un palcoscenico non è in grado di dare” .
2. I singoli racconti.
Entrando nei singoli racconti, ciascuno esprime uno spaccato di vita vissuta dall’Autore, maestro nella descrizione di fatti ma soprattutto di sentimenti ed emozioni, intrisi di diritto passato, moderno e futuro, in linea con la sua visione di mondo e di tutela dei diritti dei più fragili.
In particolare il racconto “Sassolino”, n. 21, descrive la frustrazione e l’attenzione di un figlio per genitore terminale; “Notte africana”, n. 7, lo sfruttamento sessuale di una straniera che si prostituisce per cercare di potere avere una vita migliore; “Valigia sopra l’armadio”, n. 12, racconta di un ragazzo omosessuale che non riesce a vivere in libertà i propri sentimenti, con tutte le tristi conseguenze del caso.
Nel racconto “Specchio”, n. 1, si possono scorgere i germi del bullismo e della lotta, ante litteram, per combatterlo: storia vecchia, che si può leggere con gli occhi del giurista del futuro, intento a combattere tale piaga in difesa dei diritti fondamentali della persona.
“Mondo alla rovescia”, n. 28, è uno spaccato concreto, attuale e, purtroppo, diffusissimo della malattia mentale vissuta tra le mura domestiche: una malattia mentale che non sfocia nei ricoveri ma che viene vissuta quotidianamente dalle famiglie che spesso si trovano ad affrontare, da sole o quasi, queste situazioni di disagio. Un mondo sommerso vissuto nel nascondimento perché consapevoli della malattia, in un mondo che non vuole vedere e vivere tali situazioni: l’aiuto di singoli soggetti di buona volontà, è ancora oggi l’unico rimedio a tali situazioni di emarginazione.
“Viva gli sposi”, n. 6, è l’inno all’anti discriminazione, un racconto struggente di due ragazzi down che, come tutti, cercano di vivere una vita normale, fatta di sentimento ed emozioni comuni che sfociano nel matrimonio.
“Prove di carattere”, n. 3, illustra gli eventi della vita visti dagli occhi di un bambino.
Non è un caso che le vicissitudini che vedono protagonista il fanciullo veneziano Marcus vengano definite nell’incipit del racconto come un “apprendistato infantile”, un percorso legato da un filo conduttore capace di fargli maturare, tassello dopo tassello, un grado elevato di sensibilità. Lo sconforto e disarmo nel vedere una colomba assalita da un gabbiano, la scomparsa della propria cagnolina malata, la preparazione di una pietanza a base di anguilla cucinata ancora viva. Da qui, l’elaborazione di una norma morale pro-futuro: la coscienza di non poter evitare una sofferenza animale sarebbe stata mitigata dalla decisione di non cibarsene. Ben presto, tuttavia, il giovane conosce la crudeltà che porta la firma dell’essere umano, come quella del vicino di casa violento e vessatorio nei confronti della moglie, oppure quella dell’uomo ubriaco che prende a calci le ciotole posizionate da una “gattara” per i mici randagi.
Marcus, a questo punto, si rende conto che piccoli gesti potrebbero rivelarsi utili ad evitare ciò che prima avrebbe ritenuto inevitabile: l’urlare a squarciagola nella notte del litigio placò gli animi del marito aggressivo; l’essersi avvicinato ai gattini per qualche carezza fece desistere l’uomo violento dallo scalciarli un’altra volta. Piccoli gesti che evocano nella mente di chi scrive l’aforisma di Ralph W. Emerson “l'unica persona che sei destinato a diventare è la persona che decidi di essere” e questo bambino coraggioso, protagonista del racconto, riesce a portare luce in un mondo di ombre e ci ricorda di non voltare le spalle verso gli indifesi.
“Una madre racconta”, n. 4, è la storia della mamma di Giulio – ragazzo gravemente autistico – a cui non importa di cosa accadrà ai beni immobili quando lei e suo marito non saranno più in vita, oppure a quanto ammonterà l’imposta di successione o cosa ne sarà dei risparmi depositati sul conto corrente, quanto chi si prenderà cura del proprio figlio quando loro non ci saranno più, chi lo assisterà dopo di loro. Le novità legislative in materia rischiano di dare rilievo agli aspetti patrimoniali, lasciando in secondo piano aspetti di primaria importanza perle famiglie, ossia l’esistenza e l’assistenza dell’/all’ individuo fragile e privo della propria famiglia di origine. L’auspicio è che in un futuro non tropo distante, l’ascolto dell’altro possa divenire la prima regola così da restituire un quadro dove il beneficiario di istituti assistenziali possa essere visto, in primis, quale essere umano portatore di desideri, aspettative e speranze.
Il racconto “Inquieta gioventù”, n. 5, vede come protagonista Marcus, un ragazzo di ventiquattro anni che, terminati gli studi universitari, si accinge ad effettuare la difficile scelta di abbandonare la sua città natale. La storia è incentrata su un crescendo di esperienze di vita che, nel prosieguo della narrazione diventano via via più intense, cupe, tristi e segnate da un profondo senso di solitudine e rassegnazione.
La situazione di disagio che affligge Marcus, non traspare completamente nelle prime battute della storia, dalle quali sembrerebbe che le “difficoltà” che affliggono il protagonista derivino dal vuoto lasciatogli dalla perdita dei genitori, e, soprattutto, dal senso di smarrimento, non dissimile a quello che tutti noi, chi più, chi meno, ci siamo trovati ad affrontare, causato dalla fine degli studi e dall’inizio della vita lavorativa.
La sofferenza di Marcus, però, è in realtà molto più profonda, radicata nel disagio quotidiano che si trova ad affrontare a causa del suo aspetto fisico.
Man mano che si prosegue nella lettura del racconto e nelle tappe della crescita adolescenziale del protagonista, cresce la percezione del senso di solitudine che lo affligge. Al contempo cresce in Marcus la consapevolezza dell’impossibilità ad istaurare un rapporto affettivo per via di un aspetto fisico lontano dai normali canoni di bellezza o anche solo di normalità. Cresce la sensazione di rassegnazione al rimanere sempre vincolato e segnato da un’apparenza fisica socialmente debilitante, segnato da qualcosa che non si può cambiare.
Il racconto ripercorre, attraverso alcuni episodi, i principali momenti dell’adolescenza del protagonista, è forte tuttavia il contrasto con le esperienze degli adolescenti “normali”. Questi ultimi, riescono a vivere nella realtà i momenti che dovrebbero segnare lo sviluppo relazionale ed affettivo della vita di un ragazzo. Al contrario, queste tappe sono da Marcus solamente immaginate e sognate, ed è in questi passaggi che traspare maggiormente il senso di tristezza e solitudine della narrazione, tanto da spingere chi legge ad interrogarsi su quanto profondamente, una mera caratteristica fisica, possa influire sulla vita di un individuo.
C’è un altro aspetto, tuttavia, che colpisce il lettore: nonostante la solitudine e la consapevolezza dei propri “limiti” fisici, il protagonista non smette mai del tutto di sperare. Il racconto si conclude infatti con la scelta di Marcus di abbandonare la sua città di origine, Venezia, il luogo dove ha sempre abitato e dove è sempre stato vincolato al suo aspetto esteriore, per trasferirsi a Trieste.
Ed è proprio in queste battute finali che il contrasto tra il senso di rassegnazione per qualcosa che non può essere cambiato e la speranza di trovare un posto dove poter essere accettato malgrado l’apparenza, è più forte e porta il lettore ad interrogarsi ed a sperare per il futuro del protagonista.
Nel racconto “La spiaggetta”, n. 8, l’Autore prova ad interrogarsi per capire cosa porta una persona a compiere un gesto tanto disperato come il suicidio.
In questo breve racconto, il Prof. Cendon trasporta il lettore in quello che prima facie sembra una qualsiasi scena di vita quotidiana. Una giornata al mare d’estate, pochi bagnanti intenti a godersi, nella loro individualità, la tranquillità di una spiaggetta isolata. Il contesto, tuttavia, muta radicalmente in poche righe, e la perfetta tranquillità quotidiana viene stravolta da un evento tragico, quello, appunto, del suicidio di un ragazzo.
Attraverso queste poche pagine, l’Autore riesce a focalizzare l’attenzione del lettore; da un lato sul senso di impotenza che affligge chiunque si trova ad assistere, direttamente, come nel caso dei bagnanti della storia, o indirettamente come il lettore, ad un gesto estremo come quello compiuto dal ragazzo; dall’altro porta ad interrogarsi proprio sulle ragioni di tale gesto: perché lo ha fatto? Si poteva evitare?
Due sono i passaggi che colpiscono maggiormente in questo racconto.
Il primo è la drammatica perseveranza del ragazzo nel perseguire il suo intento, nonostante le ferite che si era appena procurato e restando completamente indifferente alle grida dei bagnanti volte a farlo desistere. Attraverso queste righe il Professor Cendon enfatizza il senso di disperazione, sordo ed incurabile del ragazzo, e trasmettere a chi legge la stessa impotenza provata dai bagnanti di fronte alla tragedia.
Il secondo è contenuto nelle righe finali, dove l’attenzione si focalizza sull’articolo di un quotidiano inerente alla vicenda, il quale, in poche battute e con una semplicità disarmante ed estremamente superficiale descrive il ragazzo e le probabili cause del gesto.
In queste poche righe finali, il Prof. Cendon riesca a descrivere in maniera impeccabile il modo in cui i media, ed in generale la maggioranza delle persone che restano estranee, per non dire indifferenti, a questi accadimenti, e come siano portati a minimizzare loro e, ed ancor di più, le persone che li compiono, quasi a volerli liquidare ad accadimenti normali ed inevitabili, come se tali accadimenti non gli appartenessero.
I racconti “Visita nel pomeriggio”, n. 9 e “Suona il campanello”, n. 10, rappresentano due gemme letterarie capaci di immergere il lettore in profondità emotive e riflessioni sulle fragilità umane. Essi ben si inseriscono nello spirito della raccolta, che intende esplorare le complessità dell’animo umano, offrendo uno sguardo attento e compassionevole su vite spesso ignorate dalla società.
“Visita nel pomeriggio", n. 9, cattura l’essenza dell’incontro come momento di apertura e confronto tra due mondi apparentemente distanti ma profondamente interconnessi.
La narrazione si svolge in un’atmosfera intima, carica di tensioni emotive, dove il tempo sembra rallentare per consentire al lettore di cogliere ogni sfumatura psicologica dei personaggi.
La visita, che dà il titolo al racconto, non è solo un evento fisico ma un viaggio interiore che porta i protagonisti a confrontarsi con le proprie vulnerabilità.
Cendon utilizza uno stile narrativo fluido e descrittivo, in grado di evocare immagini vivide e situazioni che risuonano con esperienze universali: la solitudine, la paura del rifiuto, e il desiderio disperato di essere compresi.
L'abilità dell'autore nel descrivere i dettagli — un gesto esitante, uno sguardo prolungato, il suono lontano di un orologio — contribuisce a costruire un’atmosfera malinconica ma intrisa di speranza. Il racconto si chiude lasciando il lettore sospeso, con domande che risuonano ben oltre l’ultima pagina.
Più nel dettaglio, l’opera appare di ampio respiro dal momento che, sotto un apparente minimalismo narrativo, cela una riflessione profonda sulla natura dei legami umani, sull'identità e sulla memoria. Attraverso una narrazione attenta ai dettagli, l’autore ci guida in un’esplorazione emotiva e sensoriale, dove l’ambientazione e i personaggi si intrecciano in modo indissolubile.
Dalla narrazione emerge un ritratto accurato ed emotivo di luoghi ed atmosfere, cornice articolata del “sentire” dei personaggi.
La Fondazione triestina, con la sua villa neoclassica su via Mendelssohn, diventa non solo lo sfondo ma un personaggio vivo e pulsante: la descrizione della struttura – le colonne, le sculture, la maestosità dell’architettura – si fonde con i ricordi del passato della famiglia Henzau, creando una tensione tra il peso della storia e la fragilità dell’adesso.
L’autore riesce ad evocare il fascino della villa, ma anche la sensazione di decadenza, come se il tempo, pur rispettandola, l’avesse segnata.
L’ambientazione si amplia, poi, con la città di Trieste, descritta nei suoi vicoli, piazze e mercati, in un mosaico che rispecchia l’interiorità del protagonista.
Ogni scelta narrativa – dagli itinerari ai piccoli gesti quotidiani – sembra essere studiata per far emergere il carattere contemplativo e un po’ solitario di Marcus, il narratore.
Il protagonista, infatti, si presenta come un uomo abitudinario, immerso in un’esistenza di tranquilla monotonia: il suo lavoro alla Fondazione non è solo una fonte di reddito, ma un rifugio, un microcosmo in cui egli può confrontarsi con i suoi pensieri e osservare il fluire delle relazioni umane. La sua voce narrante è precisa, quasi distaccata, ma è nel non detto che emergono le sue inquietudini più profonde.
L’incontro con Joseph Henzau, il presidente della Fondazione, segna un momento cruciale nella storia. Joseph è un uomo che emana autorità e raffinatezza, ma al contempo è pervaso da una gentilezza disarmante.
Attraverso le loro conversazioni, emergono riflessioni sul potere, sulla memoria familiare e sulla fragilità dell’essere umano.
Il contrasto tra l’“algida impettitezza” di Marcus e la “semplicità nel rivolgere la parola” di Joseph sottolinea il divario generazionale e sociale, ma anche una possibile affinità nascosta.
Geneviève, infine, moglie di Joseph, appare come un’epifania: la sua figura è quasi onirica, un ideale di femminilità e grazia che trasforma ogni luogo in cui si trova. La sua presenza porta con sé un senso di bellezza eterna e intangibile, che Marcus osserva con un misto di ammirazione e consapevolezza della propria distanza da lei.
La scena del giardino, in cui Geneviève accarezza i fiori, è, infatti, una delle più evocative del racconto, carica di simbolismo e malinconia.
Sotto la trama apparentemente semplice, il racconto esplora tre temi complessi.
Il Tempo e la Memoria: La villa e la Fondazione rappresentano il peso del passato, con i suoi legami e le sue responsabilità. Attraverso gli occhi di Joseph, vediamo un uomo che si sforza di preservare la memoria familiare, mentre Marcus si interroga sul proprio ruolo in quel contesto.
La Solitudine e la Connessione: Marcus vive un isolamento emotivo, interrotto solo occasionalmente dai suoi incontri. Tuttavia, l’intesa sottile che si crea tra lui e Joseph suggerisce che anche nei contesti più formali possano nascere connessioni autentiche.
La Bellezza e l’inaccessibilità: Geneviève incarna l’idea di una bellezza che non può essere posseduta, un ideale che Marcus osserva da lontano, consapevole della propria condizione di spettatore.
L’atmosfera (quasi) onirica del racconto viene valorizzata da un linguaggio ricco, ma mai ridondante. Le descrizioni, dense e minuziose, creano un’atmosfera quasi pittorica, dove ogni elemento – dalla luce che filtra tra gli alberi ai profumi del giardino – contribuisce a costruire un’esperienza immersiva. I dialoghi sono misurati, spesso allusivi, lasciando ampio spazio all’interpretazione del lettore.
Questo racconto, dunque, è un’opera che va letta con lentezza, assaporando ogni dettaglio. La sua forza sta nella capacità di evocare emozioni sottili, di mettere il lettore di fronte a domande profonde senza mai imporre risposte definitive.
È una meditazione sulla vita e sulle relazioni, un invito a osservare ciò che ci circonda con occhi nuovi e un cuore aperto.
Il racconto "Suona il campanello", n. 10 è una potente metafora dell’azione di chiedere aiuto e dell’importanza dell’ascolto. Il semplice gesto di suonare un campanello assume qui un significato simbolico: è un grido silenzioso, una chiamata che cerca una risposta in un mondo spesso troppo distratto o indifferente.
La protagonista, di cui scopriamo frammenti di storia attraverso flashback e riflessioni interiori, è un personaggio profondamente umano, segnato da errori, rimpianti e speranze. Cendon dà voce a un’umanità dolente che lotta per trovare il coraggio di oltrepassare il muro dell’incomunicabilità.
La forza del racconto risiede nella sua struttura narrativa: ogni scena è costruita con precisione, alternando momenti di silenzio a dialoghi intensi che rivelano la complessità emotiva dei personaggi. Anche qui, l’autore dimostra la sua maestria nel rendere tangibile l'invisibile, facendo emergere le paure e i desideri nascosti dietro l'apparente banalità di un gesto quotidiano.
Più nel dettaglio, il racconto si presenta come un’opera dal tono crudo e disarmante, un’indagine sulla condizione umana affrontata con una rappresentazione brutale e diretta. Attraverso la storia di Claire, una donna con paralisi cerebrale, l’autore esplora temi di vulnerabilità, desiderio e relazioni, immergendo il lettore in un mondo dove la forza interiore e la fragilità fisica si intrecciano in modo inestricabile.
Claire è, infatti, un personaggio indimenticabile: la sua disabilità è descritta con una crudezza quasi documentaristica, che evita qualsiasi edulcorazione per mostrare la realtà della sua esistenza. Nonostante le limitazioni fisiche estreme – una schiena storta, arti esili come grissini, e una totale dipendenza dagli altri –la donna emerge come una figura straordinariamente resiliente. La sua capacità di esprimersi attraverso un sintetizzatore vocale, di desiderare e di agire, anche in condizioni di estrema vulnerabilità, fa di lei una protagonista complessa e potente.
L’ambientazione – una villetta periferica ottenuta con l’aiuto dei servizi sociali – riflette la solitudine e l’isolamento della sua vita, ma diventa anche uno spazio di incontri, scontri e speranza. Questo microcosmo diventa il palcoscenico di un dramma umano universale.
Anche i personaggi secondari risultano meritevoli di attenzione: Micheline, l’assistente di Claire, è, difatti, un personaggio di grande ambivalenza.
Da un lato, la sua presenza è fondamentale per la sopravvivenza della protagonista; dall’altro, la sua instabilità emotiva e la frustrazione la rendono una figura inaffidabile e potenzialmente pericolosa. Ossessionata dalla ricerca dell’amore, Micheline è una donna che incarna l’irrisolutezza e la vulnerabilità delle relazioni umane.
Alan, invece, l’uomo che entra nella vita di Claire, è descritto con una semplicità che lo rende immediatamente riconoscibile e credibile.
La sua dolcezza e il suo rispetto per Claire offrono un raggio di speranza in una narrazione spesso opprimente. Nonostante un momento di cedimento con Micheline, Alan torna da Claire, in una scena che suggella una connessione autentica e toccante.
Il racconto affronta temi profondi e universali con una lucidità spietata.
Il Desiderio e l’Amore: Claire non è semplicemente una vittima della sua condizione; è una donna che desidera, che ama, che cerca connessioni. La sua relazione con Alan, seppur breve e fragile, rappresenta un trionfo dello spirito umano sulle barriere fisiche.
La Violenza e l’Abuso: la scena in cui Micheline aggredisce Claire è scioccante e profondamente disturbante, ma è anche una denuncia del potere che chi assiste può esercitare su chi è vulnerabile. Questa dinamica esplora il confine sottile tra aiuto e controllo.
La Resilienza: Claire si ribella, nel suo modo silenzioso ma potente, denunciando Micheline e scegliendo di rischiare un cambiamento pur di liberarsi da un rapporto tossico. Questo gesto è un atto di coraggio che sottolinea la sua forza interiore.
Tutte le sopra menzionate tematiche sono valorizzate da una narrazione che si distingue per il suo stile diretto, quasi cinematografico: le descrizioni appaiono vive, dettagliate e spesso disturbanti, come nella rappresentazione del corpo di Claire o degli scontri con Micheline.
Questa scelta stilistica immerge il lettore nella realtà brutale della storia, senza filtri. Tuttavia, non mancano momenti di dolcezza e poesia, come la danza tra Alan e Claire, che contrastano con la crudezza sopra descritta ed offrono un equilibrio emotivo alla narrazione.
Questo racconto, dunque, è un’opera che colpisce al cuore.
La sua forza risiede nella capacità di rappresentare la condizione umana in tutta la sua complessità – fisica, emotiva e relazionale.
Claire è una protagonista che rimane impressa, non solo per la sua disabilità, ma per la sua umanità, il suo coraggio e la sua capacità di amare.
Il racconto vuole, pertanto essere, uno spunto di riflessione profonda sull’amore, sulla violenza e sulla resilienza, capace di lasciare un segno duraturo nel lettore.
Entrambi i racconti, quindi, affrontano temi universali con una sensibilità rara: l’ascolto, il bisogno di connessione, e la capacità di accogliere l’altro sono al centro delle narrazioni. Cendon non si limita a descrivere le fragilità dei suoi personaggi; le abbraccia, le celebra e invita il lettore a fare altrettanto.
La scrittura è densa ma mai opprimente, ricca di dettagli che rendono le storie palpabili, dimostrando un’attenzione particolare dell’autore alle emozioni umane, alle sfumature del dolore e alla resilienza che emerge anche nelle situazioni più difficili.
“Visita nel pomeriggio” e “Suona il campanello” sono due racconti che, pur nella loro brevità, lasciano un segno profondo: Paolo Cendon ci regala non solo storie, ma esperienze che risuonano nel cuore e nella mente del lettore.
La sua capacità di trattare con delicatezza temi complessi come la solitudine, la vulnerabilità e la ricerca di comprensione fa di queste opere un invito a riflettere su cosa significhi essere umani.
In un mondo sempre più rumoroso e distante, queste storie ricordano l'importanza del silenzio, dell'ascolto e della vicinanza.
“Insieme per sempre”, n. 11, racconta la storia di Sergio e Silvia. I ragazzi si conoscono alla palestra dell’Unione Ciechi, Sergio è affetto da sclerosi multipla e Silvia è una volontaria, una giovane ragazza che ha devoluto la sua vita agli altri. I due scoprono subito di avere una grande intesa, sono molti i profili che li accomunano, tra cui il vuoto affettivo delle rispettive famiglie, l’essere irrisolti ed anche un po’ irrequieti entrambi. Si crea un rapporto di confidenza, i due si incastrano perfettamente nei loro bisogni e nella reciproca capacità di ‘‘colmare i vuoti’’ l’uno dell’altra. In ragione della patologia di Sergio – e del suo peggiorare – gli viene assegnato un alloggio, Silvia decide di trasferirsi con lui, coinquilini certamente atipici, ma nel loro spazio sicuro i due stanno bene. Elemento di apparente turbolenza è l’arrivo di Luca, un ragazzo che Silvia conosce per caso, un giovane soldato di leva dotato delle qualità che a Sergio mancano, capacità che Sergio non ha, probabilmente, a causa della malattia. Tra Silvia e Luca nasce una frequentazione, lei inizialmente si sente in difetto nei confronti di Sergio, e lo stesso Sergio ha delle resistenze che, nonostante tutto, riuscirà a vincere dopo una attenta riflessione. Siamo ora nel 2004 e, finalmente, entra in vigore la legge sulla protezione dei soggetti fragili e Silvia viene nominata Amministratore di Sostegno di Sergio e così potrà acquistargli una casa per soddisfare le esigenze della sua malattia.
“Incontri dal vivo”, n. 13, descrivono i primi passi dell’Autore, ancora bambino, nel mondo della disabilità. Siamo a Venezia intorno agli anni ’50: col padre dirigente dell’economato pubblico, visita gli istituti in cui erano ricoverati matti, sordomuti e convalescenti. ciascuna ‘‘categoria’’ era dislocata in un diverso luogo. In una di queste visite, l’Autore (bambino), accompagna in mezzo ai frutteti ospiti sordo muti. Qui il la mente porta a Eugenio Perucatti, figura importantissima per la storia del diritto penale e penitenziario; egli realizzò e fu direttore di un innovativo carcere per gli ergastolani sull’isola di Santo Stefano, luogo sperduto, isola quasi disabitata al largo di Ventotene, dove sperimentò un nuovo modo di vivere e concepire il carcere per gli ergastolani: avere compiti ben precisi da portare a termine, attività ludiche e di aggregazione periodiche e responsabilità ben precise. Ad uno di questi ergastolani, Pasquale – assassino reo confesso – Perucatti affidò le cure del più piccolo dei suoi figli e nonostante quell’uomo avesse ucciso in modo efferato, si dimostrò un perfetto ed attento baby-sitter, come lo definiremmo oggi. Il parallelismo può sembrare – a giusta ragione – un po' azzardato ma, a modo di vedere di chi scrive, più che doveroso perché come direbbe Don Andrea Gallo, entrambi si sono occupati degli Ultimi, quelli veri, i quali sono considerati solo per i ruoli marginali, senza rilevanza, e soprattutto senza responsabilità. Affidare il proprio figlio ad un soggetto fragile, ad un reietto, è un gesto che nasconde una enorme manifestazione di fiducia, è un modo per dimostrare di riuscire a ‘‘vedere’’ realmente l’Altro, riconoscergli un ruolo di cura e riconoscerne le capacità di poterlo portare a termine.
“Sotto gli oleandri”, n. 14, descrive la storia dell’amicizia tra Marcus e Dorian che viene sinteticamente descritta dall’Autore: “Fermare il diavolo e i suoi intrighi era possibile. Sotto il cielo della giustizia avevamo un compito da svolgere”.
Conosciutisi grazie ad un libro di storia della musica preso in prestito, i due entrano subito in sintonia.
Per Dorian parlare della propria omosessualità in famiglia non è mai stato un problema, non così all’esterno. “Era stato incapace di difendersi, specie i primi tempi, ne era uscito con rabbie profonde, aspettava l’occasione per far pagare il filo a chi di dovere…sarebbe sceso un giorno o l’altro in campo” scrive l’autore del giovane Dorian.
“L’occasione per scendere in campo” arriva prima nella vita di Marcus, che un giorno, dopo avere acquistato una caffettiera, viene travolto in strada da un giovane scippatore in fuga. Marcus cade a terra confuso, inconsapevole di aver appena compiuto un vero e proprio placcaggio da perfetto giocatore di rugby.
Tra il clamore generale, le congratulazioni, gli applausi e gli articoli di giornale, Marcus viene improvvisamente innalzato ad eroe in quanto ha permesso di recuperare la borsetta della povera signora anziana derubata e traumatizzata, e così, un giovanotto che non ha mai avuto grande fiducia in sé stesso, che si è sempre visto esile e “bruttino”, viene inaspettatamente illuminato dalle luci della ribalta.
Marcus condivide la sua esperienza con Dorian, il quale entusiasta annuncia la nascita di un formidabile duo, che si sarebbe potuto chiamare “La gang buona” o “Gli angeli misteriosi” o “La coppia di Trieste”. Da questo momento, proprio loro due, si sentono in dovere di combattere il crimine, in modo gratuito e altruistico, traendone in cambio solo un grande senso di soddisfazione personale.
L’occasione per entrare in azione si presenta poco tempo dopo: il bersaglio viene identificato in un uomo, Amelio, il quale era solito compiere atti osceni in luoghi pubblici terrorizzando i bambini.
Marcus e Dorian riescono a sventare l’ennesimo attacco di Amelio nascosto sotto dei bellissimi oleandri, i quali diventano lo sfondo perfetto per questo atto di giustizia.
Il racconto porta a riflettere sul concetto di giustizia e sul suo complesso significato, che in questa storia si concretizza nell’aiuto gratuito e disinteressato, offerto nell’ombra ed infatti la narrazione termina con queste parole “nessuno dei passanti intorno sembrava essersi accorto di nulla”. In secondo spunto di riflessione si rinviene nel fatto che non sempre le ferite personali guariscono col tempo ma che si possono trasformare in nuove consapevolezze, proprio come accade a Dorian.
“Tentazioni”, racconto n. 15, tratta di desideri reconditi, bisogni insopprimibili ma anche di solitudine, angoscia e morte.
Cendon attraverso la sua voce e quella di una vecchia conoscente, la Professoressa Marcella Lendici, racconta il tragico epilogo della vita di un suo caro amico e collaboratore editoriale, il Giudice Furio Felici.
Felici era un magistrato del sud Italia giunto all’apice della sua carriera attraverso l’assegnazione all’ufficio delle esecuzioni civili ed era anche un instancabile scrittore, tanto che Cendon di lui dice: “una qualità che apprezzavo molto in Felici era che non mi diceva mai di no, editorialmente”.
Cendon e Felici col passare del tempo, tra la scrittura di un codice commentato e l’altro, stringono una solida amicizia, al punto che Felici racconta della propria vita privata, della crisi coniugale culminata con la separazione dalla moglie Daria, la quale viene descritta come una donna consumata dalla gelosia, diventata del tutto paranoica.
Cendon, con il suo peculiare approccio curioso e brillante, mai inquisitorio, ascoltando l’amico, si interroga su quale sia la verità: la moglie di Felici non gli è mai parsa una visionaria, ma al contempo il suo rapporto quasi ventennale col magistrato gli impedisce di assumere un atteggiamento di sospetto nei suoi confronti.
Siamo all’inizio di giugno e il telegiornale di Rai Uno annuncia l’arresto di Felici.
Le accuse nei confronti del magistrato sono pesanti, si parla di rapporti tra Felici e la malavita, si parla di versamenti di somme di denaro, di escort dell’Est europeo, tutte “ricompense” gentilmente elargite dalla camorra al giudice in cambio di azioni concrete da parte di questo ultimo, tra le quali “nomine di psichiatri compiacenti, aste di vendita e processi di esecuzione orientati in un certo modo”.
Il materiale probatorio è solido, l’accusa è in possesso di un diario personale di Felici e di innumerevoli intercettazioni, in particolare tra il magistrato e il capo clan Carmine Marabita, il quale aveva coinvolto Felici in quello che viene definito “un progetto di evasione emotiva”, fatto di viaggi veloci Napoli-Milano, di suites eleganti in alberghi a sette stelle, di cene da rivista e di ragazze dell’Est Europa così belle da non sembrare nemmeno vere. Ovviamente tutto ciò ha un prezzo per il magistrato che, ben presto, sarà costretto a “ricambiare” tali favori.
A questo punto il lettore, sbigottito, già simpatizzando per l’ex moglie Daria, che forse in fin dei conti non era così visionaria e paranoica, attende il giudizio di Cendon, quasi con timore.
Cosa dirà il Professore di tutto ciò? Attraverso quali duri aggettivi appellerà il magistrato amico?
Nessuno.
Cendon non cede alla tentazione di giudicare, non lo fa, chiunque al posto suo lo farebbe, ma lui si astiene, anzi, si domanda cosa possa fare per Felici, per ripulire un po' la sua immagine.
A questo punto Cendon decide di scrivere in favore dell’amico, sulla propria rivista on-line, e lo fa in modo magistrale, la storia di come si sono conosciuti, di come fossero soliti scrivere a quattro mani, evidenziando di Felici “l’istinto per la giustizia vera, senza salamelecchi, una qualità preziosa”.
Passano ben ventiquattro mesi dall’articolo, che, come un seme, germoglia e germoglia in gratitudine da parte del magistrato, che definisce Cendon “coraggioso”, coraggioso per aver parlato in suo favore, di fatto portando un po' di sole in una vera e propria tempesta.
Il lettore a questo punto è commosso, è rassicurato, sente che l’angoscia di un uomo condannato più dall’opinione pubblica che dalla magistratura è stata in parte risanata, sente un po' di calore in una gelida solitudine e avverte la speranza di una società migliore, meno giustizialista, più comprensiva e incline al perdono.
Arriviamo all’ultima pagina del racconto, Felici viene trovato morto suicida all’interno della casa della sorella, dopo essere stato condannato a quattro anni di reclusione per collusione con la mafia.
Il lettore, quindi, torna a leggere l’incipit del racconto “La verità nascosta si farà strada pian piano, poi quel finale inaspettato”. A quale verità si fa riferimento? A mio parere non a quella giudiziaria, bensì a quella della vita umana, fatta di molte debolezze, di fragilità, di bisogni, tanto facilmente condannabili quanto indispensabili, di paure, di sconfitte e di logoranti solitudini.
Questo racconto ci porta a compiere un viaggio all’interno di quello che potremmo definire “il ventre molle dell’umanità” e si presenta straordinariamente umano come lo è l’approccio di Cendon, dal quale non possiamo che trarre un fondamentale insegnamento: quello di sviluppare un personalissimo senso critico e di agire di conseguenza.
Il racconto “Tutti per uno”, n. 16, è la storia di Cettina; una narrazione cruda ma profondamente umana che esplora la vulnerabilità, l'inganno, il trauma e la resilienza. L'autore sembra voler mettere in luce la fragilità delle persone con disabilità di fronte alla manipolazione, sottolineando al contempo l'importanza cruciale del supporto familiare nel percorso di guarigione. Attraverso la vicenda di Cettina, si affrontano temi delicati come l'abuso, la giustizia e la difficile strada verso il superamento del trauma, offrendo uno spunto di riflessione sulla necessità di una maggiore consapevolezza e di una società più inclusiva e protettiva.
La storia è ambientata in una cittadina siciliana durante un'estate di circa vent'anni fa e ruota attorno alla famiglia Amato, composta da Cettina, diciassettenne con un ritardo mentale causato da un errore medico alla nascita, i suoi genitori Gaetano e Lucia e la sorella minore Miriam. Cettina, nonostante le sue difficoltà, frequenta un laboratorio di sartoria e vive una vita relativamente serena grazie al costante supporto della sua famiglia.
Un pomeriggio, mentre i suoi genitori riposano e Miriam è al doposcuola, Cettina, incuriosita da un rumore proveniente dall'esterno, si affaccia al terrazzino e incontra due operai, Vincenzo e Luigi, che stanno lavorando alla casa vicina. I due uomini, con modi gentili e lusinghieri, iniziano a conversare con Cettina, mostrandosi interessati alla sua vita e complimentandosi con lei. Questa interazione, nuova per Cettina, la diverte e la fa sentire al centro dell'attenzione.
Nei giorni successivi, gli incontri tra Cettina e i due operai si ripetono. Durante uno di questi incontri, Vincenzo e Luigi invitano Cettina a una gita in campagna per il sabato successivo, giorno in cui i suoi genitori e Miriam sarebbero stati fuori città per un intervento chirurgico alla sorella. Cettina, dopo un'iniziale esitazione, accetta l'invito.
Il sabato, Cettina si prepara con cura e, dopo l'arrivo e la partenza della zia che doveva controllare andasse tutto bene, esce di casa per incontrare i due uomini. I tre si recano in auto in un luogo appartato in campagna. Qui, dopo aver bevuto dello spumante, Vincenzo e Luigi abusano sessualmente di Cettina. La ragazza, confusa e spaventata, subisce passivamente l'abuso, sentendosi ingannata e tradita. Dopo l'accaduto, Cettina viene riaccompagnata a casa e ammonita circa
Tornata a casa, a causa dello shock subito, ha un mancamento e si addormenta senza prima togliere l'abito che ha indossato durante la gita. Al ritorno della famiglia, Miriam nota una macchia di sangue sull'abito di Cettina, e altri dettagli, come l'odore di alcol e i segni di baci sul collo, insospettiscono i genitori. Messa alle strette, Cettina confessa l'accaduto.
Il padre di Cettina, Gaetano, reagisce immediatamente, denunciando l'accaduto alla polizia e portando la figlia in ospedale per accertamenti. Inizia così un percorso legale e psicologico per Cettina e la sua famiglia. I due colpevoli vengono arrestati e processati, e la famiglia riceve un risarcimento.
La storia si concentra, poi, sul difficile percorso di guarigione di Cettina, supportata dall'amore e dalla dedizione della sua famiglia. Ognuno dei suoi membri si assume un ruolo specifico: Lucia cerca di creare un ambiente sereno e di distrarre Cettina con attività e ricordi positivi; Gaetano si impegna a mostrarle che non tutti gli uomini sono come i suoi aggressori; Miriam, infine, si rivela una confidente preziosa, capace di comprendere i silenzi e le paure della sorella. Nonostante il supporto familiare, Cettina vive momenti di ricaduta e di profonda tristezza, segno indelebile del trauma subito. Il processo si conclude con la condanna dei due uomini, ma il percorso di Cettina verso la guarigione è ancora lungo e complesso.
La storia di Cettina non è solo un racconto di violenza e di abuso, ma anche una testimonianza di resilienza e di amore familiare. L'autore, pur descrivendo una realtà dolorosa, sembra voler trasmettere un messaggio di speranza, sottolineando l'importanza del supporto affettivo e della giustizia nel percorso di superamento del trauma. La storia invita a riflettere sulla necessità di proteggere le persone vulnerabili, di condannare ogni forma di abuso e di costruire una società più attenta e inclusiva. La macchia sull'abito di Cettina, dettaglio potente e simbolico, rimane una traccia indelebile di una ferita profonda, ma anche un monito per non dimenticare e per continuare a lottare per la giustizia e la dignità di ogni individuo.
Il racconto “La chiave nascosta”, n. 24, è la storia di Alessio Zardik e di sua figlia Bianca; è una tragedia complessa che affonda le radici in un passato di abusi e violenze. L'autore sembra voler esplorare le dinamiche distorte che possono instaurarsi all'interno di una famiglia, le conseguenze devastanti dell'incesto e la difficoltà di spezzare un ciclo di violenza e dipendenza. Attraverso la ricostruzione di questa vicenda, emerge un quadro inquietante di manipolazione, ricatto e disperazione, che porta a riflettere sulla responsabilità individuale, sul ruolo delle istituzioni e sulla necessità di una maggiore comprensione delle dinamiche psicologiche che sottendono a tali drammi.
La vicenda narrata riguarda un omicidio avvenuto in una città del Nord Italia diversi decenni prima. Alessio Zardik, un uomo di cinquantotto anni affetto da grave schizofrenia e con un passato di omicidi, uccide la figlia trentaduenne, Bianca, con novanta coltellate. Il tribunale, riconoscendo la mancata sorveglianza da parte dei servizi psichiatrici, condanna questi ultimi a risarcire il figlio di Bianca, nipote dell'assassino.
Un punto oscuro della vicenda rimane a lungo irrisolto: il movente dell'omicidio. Bianca era una donna di grande bellezza, ma la sua vita era stata segnata da abusi incestuosi perpetrati dal padre fin dall'adolescenza. Dopo il primo omicidio di Zardik, avvenuto a metà degli anni Settanta, l'uomo era stato internato in un manicomio giudiziario. In seguito, Bianca si era sposata e aveva avuto un figlio, Juan, ma aveva anche intrapreso la strada della prostituzione per necessità economiche.
Cinque anni dopo, Zardik viene rilasciato e torna a casa. Due anni dopo avviene l'omicidio di Bianca. La versione ufficiale che circolava inizialmente ipotizzava una ripresa della relazione incestuosa, con Bianca che si ribella al padre e viene per questo uccisa. Tuttavia, il narratore, interessato al caso per motivi di studio, nutre dei dubbi su questa ricostruzione.
La verità emerge grazie a una confidenza fatta al narratore da T., la psichiatra che aveva in cura Zardik dopo il suo rilascio. Zardik, tornato in libertà, si era impegnato a mostrarsi "guarito" e affidabile, collaborando con il Centro di Salute Mentale e cercando di rifarsi una reputazione. Parallelamente, si era dedicato a trovare fonti di guadagno, frequentando case da gioco e dedicandosi ad attività illecite. Aveva anche ripreso i rapporti con la moglie, madre di Bianca.
Il colpo di scena arriva con la rivelazione che non è Zardik a cercare Bianca, ma è lei a cercarlo. Bianca accusa il padre di averle rovinato la vita con gli abusi subiti durante l'adolescenza e gli chiede di prendersi cura di lei economicamente. Gli propone di riprendere la loro relazione, ma questa volta dietro compenso: un pagamento per ogni incontro o una somma fissa mensile. Zardik, inizialmente riluttante per timore di compromettere la sua nuova immagine e per un senso di colpa verso la figlia, alla fine accetta.
La relazione tra padre e figlia prosegue quindi in segreto, con Bianca che dipende sempre più economicamente da Zardik. Tuttavia, le esigenze economiche di Bianca aumentano e la donna chiede al padre un aumento della "tariffa", proponendogli anche pratiche sessuali più spinte. Zardik rifiuta, sentendosi intrappolato. Bianca lo minaccia, allora, di rivelare tutto ai suoi psichiatri, rovinando la sua reputazione.
A questo punto, la situazione precipita. Durante una lite, Zardik, sopraffatto dalla rabbia e dalla disperazione, uccide Bianca con novantadue coltellate.
La storia di Zardik e Bianca è una tragedia che mette in luce la complessità delle dinamiche familiari e le conseguenze devastanti degli abusi. L'autore non offre facili giudizi morali, ma invita a riflettere sulle responsabilità individuali e sociali di fronte a situazioni di violenza e disagio mentale. Il racconto sottolinea la difficoltà di interrompere un ciclo di abusi e la necessità di un supporto psicologico e sociale adeguato tanto per le vittime quanto per i carnefici. La figura di Zardik, un uomo tormentato dalla sua malattia e dal suo passato, e quella di Bianca, vittima di abusi e costretta a scelte disperate, rappresentano un monito sulla fragilità umana e sulla necessità di una maggiore comprensione e compassione di fronte al dolore e alla sofferenza.
“Sorprese”, n. 17, descrive alcune situazioni che affondano le radici nel periodo più effervescente e rivoluzionario della storia dei diritti dell’uomo: il ’68. Un momento storico che costituirà lo spartiacque tra la società dell’autoritarismo e i movimenti sociali di massa. Da qui in avanti al centro dell’opinione pubblica vi sono i diritti di tutti e, in particolar modo, i diritti di coloro nei confronti dei quali la società, fino a quel momento, si era mostrata cieca e sorda, i più deboli. Tali racconti, cui chiave sia di stesura che di lettura sono emozioni e forti sentimenti, mostrano come avvennero i grandi cambiamenti della nostra società per quanto concerne le sfere dell’istruzione e della sanità pubblica. Più specificatamente, il cambiamento permea nel ruolo stesso delle istituzioni e del loro rapporto con i portatori di malattie mentali, coloro che incarnano gli emarginati sociali in quanto riconosciuti “pericolosi” da parte della società. L’Autore elabora questi temi attraverso lo sviluppo di tre racconti, che svolgono il ruolo di esempio pratico dell’evoluzione sociale sovra esaminata, il tutto mantenendo come protagonista principale l’emotività dell’essere umano in quanto tale, nelle sue forme e nelle sue fragilità.
Il primo racconto ha come protagonista un giovane professore di diritto privato, X. Un pomeriggio del 1972, la sua lezione è interrotta da tre studenti della contestazione universitaria, tali Garbarino, Mollici e Zebelli. Reduci del movimento del ’68 e forti dell’appoggio della direttrice di dipartimento, vogliono imporsi sul giovane docente, prendendosi gioco di lui, con il pretesto di ottenere l’adozione di nuove modalità di svolgimento dell’esame di diritto privato, più confacenti alle esigenze dei nuovi studenti. La vicenda assume un epilogo diverso rispetto a quanto si aspetta il lettore, perché il protagonista, che inizialmente prova timore e sgomento di fronte a quell’incursione in classe, nel volgere lo sguardo verso i suoi studenti, trova appoggio e riesce a gestire la situazione con arte diplomatica, mettendo a tacere i tre manifestanti, mostrandogli le nuove soluzioni introdotte con la classe per alleggerire la mole di studio del temutissimo esame di diritto privato. Il Professor Cendon, attraverso questo episodio, porta alla definizione di un modello di istruzione più egualitario e democratico, ben lontano dal paradigma di una società autoritaria in cui la scuola e l’università appartiene agli insegnanti e non agli studenti. Proprio come quanto reclamano questi ultimi, sostenendo che l’apprendimento di tal materia deriva dall’atto pratico dell’esperienza e dalla sua conseguente analisi, alla stessa maniera Cendon riempie di così tanto significato i fatti da diventare l’incarnazione del cambiamento che la società sta subendo. Lo fa raccontando un episodio di vita quotidiana, mostrando al lettore come le tensioni possono essere vinte attraverso semplici gesti di comprensione ed ascolto per il prossimo. L’Autore mostra l’animo fragile ed estremamente umano di una figura autoritaria come il professore. Egli, come i suoi studenti, prova emozioni: paura, sgomento, insicurezza. È attraverso questi stessi sentimenti che l’insegnante riesce a rispecchiarsi nell’animo dei ragazzi ed a comprendere le loro esigenze di cambiamento, di nuovo adattamento, di necessità di comprensione e rivoluzione. La chiave di lettura diviene così chiara al lettore: abbandonare i rigidi schemi di un’istituzione accademica verticale per abbracciare valori più egualitari, solidaristici, che vedono l’essere umano in quanto tale, meritevole di tutela e di ascolto.
Il secondo racconto è ambientato in una piccola città del nord Italia, dove si sta tenendo un convegno sull’Amministrazione di sostegno. La vicenda mette in luce le fragilità delle persone affette da deficienze psichiche ed il profondo divario che spesso si erge tra i malati di mente e il resto della società che li giudica. Il protagonista Y, relatore dell’evento, viene più volte interrotto durante la sua esposizione dall’organizzatrice, donna affetta da problemi mentali che cerca in ogni modo di porre fine al suo intervento, addirittura strappandogli il microfono dalle mani. L’Autore pone l’accento sui mille volti che può assumere la malattia mentale. Il protagonista, infatti, si interroga sul motivo di quello strano comportamento, mostrando al lettore la profonda fragilità di questi soggetti, i cui comportamenti disfunzionali sono spesso scatenati da quel senso di vergogna e di impotenza dettati dall’incapacità di poter svolgere determinate attività della vita quotidiana in modo indipendente ed autonomo. Attraverso questo episodio, il lettore rivive la profonda tenerezza e compassione che il protagonista prova nei confronti della moderatrice di fronte alla necessità fino all’ultimo di voler nascondere la propria patologia spaventata dal giudizio dei presenti. I sentimenti scatenati dalla scena sovra descritta portano il protagonista ad esigere che il diritto delinei una figura a sostegno, un “curatore”, che possa coadiuvare l’interessato, che in questo caso risulta essere la donna affetta da malattia mentale.
Il terzo episodio parla di un professore che rivive il sentimento di angoscia nutrito nei confronti degli esami universitari in qualità di studente. Ora che è professore, è incredibile come il narratore racconti questa esperienza attraverso il punto di vista del protagonista nelle vesti di insegnante, senza che nulla in realtà sia cambiato se non la propria carica. Angoscia e paura persistono, a tratti insostenibili, se non compensati dalla gioia di dare ottimi voti a quegli studenti che si sono distinti non solo per il loro genio, ma soprattutto per il loro impegno e partecipazione durante le lezioni. In particolare, il professor Z ama premiare coloro che rappresentano l’umiltà intellettuale, coloro capaci di pensiero critico profondo e di capacità d’analisi unica seppure non se ne rendano conto. Sono studenti talvolta troppo ansiosi o titubanti, forme di insicurezza che tendono ad offuscare l’effettivo potenziale di questi soggetti. L’Autore mostra un profondo rispetto oltre che comprensione verso chi, seppur inconsapevole delle proprie potenzialità, si cimenta nelle sfide quotidiane, mettendosi alla prova e venendo perciò premiato per tal intraprendenza. Di nuovo l’Autore offre come esempio da cui trarre insegnamento una vicenda personale, spunto esperienziale essenziale per comprendere coloro che rispecchiano canoni diversi rispetto a quelli che impone la società. Il professore in quanto tale non brama la perfezione ed il prototipo modello di studente perfetto, ma bensì premia la diversità e l’impegno di ciascun individuo nell’unicità del suo pensiero critico, più che della forma. Una sostanza che ha tono personale non dato dall’audacia e scioltezza del timbro di voce, quanto dalla sostanza stessa del proprio argomento. Questo è l’insegnamento che offre il Professor Cendon: osservare al di là del proprio essere e dei comuni pregiudizi per comprendere le diversità altrui. Una vicenda che, ambientandosi nelle aule universitarie, stesso background del primo racconto, fornisce un modello di istruzione diverso da quello autoritario del secolo precedente, abbracciando principi diversi e riconoscendo la necessità della figura di un professore capace di ascoltare gli studenti per comprenderli pienamente.
L’Autore richiama anche la sua esperienza al fianco del Dottor Basaglia, artefice della riforma della psichiatria.
La scelta stilistica dell’Autore è sempre la medesima. Una narrazione semplice, in terza persona, i cui elementi descrittivi sono pochi, ma essenziali, per comprendere il contesto sociopolitico in cui sono ambientate le vicende. Attraverso un linguaggio diretto ed enfatico, il lettore viene calato nelle tre realtà sopra descritte.
Si tratta di racconti che prendono forma da un evento che si scatena a sorpresa: l’irruzione in classe dei tre studenti, la moderatrice che strappa il microfono di mano al relatore, un ottimo voto nonostante un’interrogazione con qualche errore.
Situazioni che suscitano nel protagonista una reazione diversa rispetto a quella che si aspetta il lettore. Occasioni che richiedono di comportarsi in modo diverso nei confronti di coloro che chiedono semplicemente di essere ascoltati. Soggetti le cui debolezze mettono da parte i protagonisti ma che con empatia e comprensione possono essere ascoltati, per ricevere, finalmente, luce che meritano.
Nel racconto n. 18, “Gli Impavidi”, vengono raccontate le avventure dei due giovani, Marcus e Dorian, personaggi già noti al lettore nei racconti n. 14 “Sotto gli Oleandri” e n. 19, “Crisi”, che qui risultano ancor più determinati a portare avanti la loro lotta contro il crimine a difesa dei più deboli. Dopo la “punizione” in “Sotto gli oleandri” (racconto 14) ad Amelio Galdesi, “Gli angeli misteriosi” decidono di incrementare la squadra, arruolando due amici di nome Flamingo e Vincent. Il protagonista non si accontenta più di piccoli episodi di “giustizia fai da te”. Marcus, l’io narrante, si sente ora un “vero militante della notte”. Ecco che quindi il lettore, di fronte alla necessità del protagonista di dar eco alla voce dei più deboli e quindi di esercitare giustizia, inizia ad interrogarsi su quale sia il confine tra giustizia ed arbitrio. Tal dilemma si fa via via più concreto ed irrisolvibile fino a materializzarsi come una sorta di macigno che pesa sugli occhi del protagonista.
Il lettore, perciò, scopre che la presenza dei due nuovi arrivati risponde alla conseguenza del voler creare un vero e proprio corpo parasociale, per scovare e denunciare coloro che prevaricano i più deboli. C’è Flamingo, fidanzato di Dorian, alto, moro, di bell’aspetto, dal passato difficile, legato alla malavita e a poliziotti poco raccomandabili. C’è Vincent, biondo, dai lineamenti puliti, amante della cultura e dei logaritmi, un vero e proprio genio dell’informatica. Ciascuno nell’associazione ricopre un compito preciso e definito, necessario per conseguire successo nella “missione”. I quattro, denominati “Gli Impavidi”, prontamente individuano i prossimi bersagli grazie ad una precisa rete di contatti, intercettazioni e indagini sul posto.
Marilena Grampus, insegnante di liceo che tormenta e deride i propri alunni, forte della sua posizione; Binicco e Giacchieri, due sanitari abitualmente soggetti a molestare le loro pazienti, collezionando foto di nudi per dar sfogo alle loro “turpitudini”, la Signora Goisis, oramai non più giovane, “avventuriera” che truffa pensionati e poveracci. Questi sono i prossimi bersagli per “Gli Impavidi”.
Il piano “giustizialista”, però, si ferm