Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  09/01/2023

Presupposti per il calcolo dell’indennizzo per un’ “equa riparazione” - Cecilia De Luca

“Conditions for calculating compensation for a “fair reparation””

Abstract (italiano): In questa sede ci si è posti l´obiettivo di trarre spunto dalla recente pronuncia della quarta sezione penale della suprema corte di cassazione, la numero 43097 del 2022 - la quale, attraverso il principio di diritto statuito, ha fatto chiarezza sulle modalità di determinazione dell´indenizzo liquidabile nell´ipotesi in cui si accerti l´insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela - per analizzare l´istituto di cui agli artt. 314 e ss. c.p.p., partendo dal concetto di "riparazione", poi tracciandone le linee evolutive, seguendo nell´illustrazione della sua disciplina codicistica, per poi, infine, osservarne i suoi risvolti applicativi.

Abstract (inglese): The aim here was to draw inspiration from the recent decision of the Fourth Criminal Chamber of the Supreme Court of Cassation, number 43097 of 2022 - which, through the rule of law principle, has clarified the procedures for determining the indemnity payable if it is established that the conditions of applicability of the custodial measure did not exist ab origine, on the basis of the same precise elements available to the court of cautiousness to analyze the institution referred to in article 314 and following of the Code of Criminal Procedure, starting from the concept of "repair", then tracing the evolutionary lines, following in the illustration of its codicystic discipline, and then, finally, observing its concrete implications.

Sommario: 1. Premessa: il concetto di riparazione;  (1.1. Riparazione e risarcimento del danno; 1.2. Riparazione e indennizzo; 1.3. Riparazione: tertium genus tra risarcimento e indennizzo; 1.4. L’errore quale presupposto della riparazione; 2. Le linee evolutive dell’istituto: le origini dell’istituto; 2.1. La riparazione nell’impostazione originaria del codice del 1930; 2.2. La riparazione nel sistema costituzionale; 2.3. La riparazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo; 2.4. La riparazione nel codice del 1930 dopo la l. 23 maggio 1960, n. 504; 2.5. La riparazione nella legge delega del 1974 e nel progetto preliminare del 1978; 2.6. La riparazione nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici; 2.7. La riparazione nella legge delega del 1987 e nel progetto preliminare del 1988; 2.8. La riparazione nello Statuto della Corte penale internazionale; 3. Considerazioni preliminari sulle impugnazioni contro le misure cautelari personali: la “riparazione per l’ingiusta custodia cautelare”; 4. Ratio e principi fondamentali sottesi all’istituto alla luce della più rilevante giurisprudenza di legittimità; 5. Differenze con l’istituto del “risarcimento del danno”  alla luce del temperamento del principio dispositivo tipico del processo penale; 6. La “riparazione per ingiusta detenzione” nell’ultima pronuncia della Corte di Cassazione n. 43097 del 2022: i presupposti di fatto; 6.1. Il necessario intervento nomofilattico delle Sezioni Unite quale ineludibile “paletto” sul punto della rilevanza o meno della “colpa lieve” nel caso di specie; 6.1.1. I due diversi orientamenti in merito nella giurisprudenza di legittimità; 7. Conclusioni.

1. Premessa: il concetto di riparazione

Prima di addivenire alla trattazione della pronuncia oggetto del presente contributo, si rende necessario ricostruire, sotto il profilo storico, nonché giuridico, l'istituto della "riparazione", nel processo penale, partendo dalle sue fondamenta, e, sinteticamente, tracciandone le sue linee evolutive, per meglio cogliere il retroterra culturale da cui ci si muove nel "tentare" di offrire soluzioni alle problematicità che in sede applicativa, come si vedrà, emergono.

Osserva autorevole dottrina che delicata è la quaestio attinente all’individuazione del fondamento giuridico del diritto riparatorio va preliminarmente definito il concetto di “riparazione”, verificando se si tratti di un istituto autonomo o se, ex adverso, possa prospettarsi una identificazione con categorie dogmatiche affini, proprie del diritto civile e amministrativo, quali il risarcimento del danno e l’indennizzo. Dall’eventuale adesione a quest’ultima impostazione conseguirebbe la possibilità di utilizzare i parametri normativi di quantificazione del danno propri degli istituti di riferimento. In caso contrario, il giudice chiamato a decidere sull’errore giudiziario in senso stretto dovrebbe limitarsi ad utilizzare i criteri fissati dal legislatore nel vigente art. 643, primo comma, c.p.p., mentre il giudice chiamato a decidere sull’ingiusta custodia cautelare dovrebbe individuare i criteri su cui articolare il giudizio quantificatorio: nessun aiuto, infatti, perviene dal legislatore che, anziché riempire di significato l’enigmatica espressione “equa riparazione” di cui all’art. 314, primo comma, c.p.p., si è limitato ad una mera enunciazione del diritto.

1.1. Riparazione e risarcimento del danno

All’indomani della costituzionalizzazione del diritto riparatorio nell’art. 24, primo comma, Cost., la dottrina inquadrava l’istituto della riparazione dell’errore giudiziario entro gli schemi della responsabilità per atto illecito. In particolare, attribuiva all’ingiusta condanna la veste di provvedimento illegittimo, dal quale nasceva, a carico dello Stato, l’obbligo di risarcire il danno ingiustamente arrecato. Si determinava, in tal modo, una rottura nei confronti di un passato che considerava immune da errori l’esercizio del potere punitivo.

In una posizione diversa da quella della dottrina, era schierata la giurisprudenza di legittimità, la quale, in più occasioni, aveva ribadito come il concetto di riparazione pecuniaria fosse più esteso rispetto a quello di risarcimento, postulando non solo la rifusione dei danni materiali, bensì, soprattutto, la compensazione delle sofferenze morali patite da chi fosse stato condannato per errore.

In effetti, l’identificazione della riparazione con l’istituto civilistico del risarcimento del danno e il conseguente inquadramento dogmatico del meccanismo in esame nell’ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. porge il fianco a più di una critica.

In primo luogo, va evidenziato che l’assimilazione tra le due categorie dogmatiche condurrebbe fuori dal paradigma applicativo dell’art. 643 c.p.p., ed analogamente dell’art. 314 c.p.p., tutte le ipotesi di errore dovute al caso fortuito, indipendenti, cioè, dal dolo o dalla colpa del giudice, posto che l’imputabilità soggettiva della lesione è un elemento essenziale per la configurabilità dell’illecito civile.

In secondo luogo, detta impostazione dovrebbe condurre a prospettare, per coerenza sistematica, un onere probatorio, a carico del danneggiato, esteso non solo all’elemento soggettivo, dolo o colpa, ma anche all’entità dei danni subiti.

A ben vedere, mentre nel risarcimento il danno va accertato, nella riparazione la prova è in re ipsa, risultando, il relativo diritto, ancorato alla constatazione della mera esistenza dell’errore.

Sotto un profilo più strettamente tecnico, a mettere in crisi l’identità tra i due istituti è la difficoltà di configurare un fatto illecito quale fonte del diritto riparatorio. Invero, sia l’ingiusta custodia cautelare ex art. 314, primo e secondo comma, c.p.p. che l’errore giudiziario consacrato nella sentenza di proscioglimento emessa a seguito del giudizio di revisione non sono, né divengono, un “fatto illecito”, costituendo esclusivamente il necessario presupposto per l’insorgere del diritto.

A sostegno della diversità fra i due istituti va, altresì, evidenziato come la fissazione di un tetto massimo, previsto esclusivamente in materia di ingiusta detenzione, ex art. 315, secondo comma, c.p.p., appare assolutamente inconciliabile con il meccanismo risarcitorio, posto che, quest’ultimo, avendo come finalità il totale ripristino del pregiudizio economico subito, non potrebbe tollerare dei limiti di sbarramento imposti a priori dal legislatore.

Infine, può essere utile sottolineare come l’art. 647 c.p.p., nel disciplinare i rapporti tra l’azione per la riparazione, in materia di giudicato erroneo, e quella per il risarcimento del danno, nel caso in cui la condanna sia stata pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato, ex art. 630, lett. d), c.p.p., sottende, anche nella stessa formulazione della rubrica “risarcimento del danno e riparazione”, una chiara differenziazione tra i due istituti.

Dall’esame del pensiero della giurisprudenza di legittimità formatasi negli ultimi anni emerge con evidenza una impostazione consolidata circa la separazione concettuale tra la riparazione ed il risarcimento del danno in senso civilistico.

In concreto, riconosciuto in capo al cittadino privato ingiustamente della libertà personale un vero e proprio diritto soggettivo pubblico alla riparazione cui corrisponde l’obbligo dello Stato di eseguire una prestazione corrispondente al pagamento di una somma di denaro, il Supremo collegio, sotto un profilo più squisitamente teleologico, ha evidenziato la differente caratterizzazione finalistica delle due categorie dogmatiche: mentre alla base della disciplina risarcitoria vi è il principio secondo cui la vittima ha diritto ad una somma di denaro corrispondente alle perdite economiche subite, che comprendono sia la diminuzione del patrimonio, danno emergente, che l’eventuale mancato guadagno conseguente al fatto lesivo, ossia il lucro cessante, la riparazione, lungi dal perseguire lo scopo di ammortizzare, attraverso il pagamento di una somma di denaro, le conseguenze immediate e dirette causate al soggetto nel procedimento penale, è volta a compensare quest’ultimo dalle sofferenze personali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica, ingiustamente patite.

Seguendo l’impostazione profilata, il fine e la natura della riparazione apparirebbero legato ad una valutazione maggiormente attenta agli aspetti umani rispetto alle questioni strettamente giuridiche della vicenda, e, pertanto, si profilerebbero più ambiziosi e meno tecnici rispetto a quelli del risarcimento.

1.2. Riparazione e indennizzo 

Abbandonato il parallelismo con la categoria dogmatica del risarcimento dei danni, il Giudice di legittimità ha ricondotto il fondamento giuridico dell’istituto riparatorio alla figura dell’indennità o indennizzo.

Alcune pronunce, poi, sfruttando i risultati della dottrina più risalente, hanno individuato una sorta di responsabilità statale, che non nascerebbe ex illecito, bensì da un atto legittimO, di natura autoritativa, che si sostanzia nel provvedimento restrittivo della libertà personale: l’indennizzo soddisferebbe una pretesa di diritto soggettivo nei confronti dell’ente pubblico per eccellenza, lo Stato, nell’articolazione dell’amministrazione del Tesoro, sulla base di una causale eziologicamente riferita al legale esercizio di una pubblica funzione, quale è l’applicazione della legge penale.

La ricostruzione dell’itinerario giurisprudenziale relativo alla definizione della natura giuridica dell’obbligo statale induce ad alcune considerazioni.

Sebbene vada condiviso il ricorrente topos del Giudice di legittimità secondo il quale il “danno” patito dalla vittima della detenzione ingiusta prescinderebbe dalla commissione di un fatto illecito, generatore di responsabilità aquiliana, qualche riserva deve essere sollevata in ordine alla assimilazione dell’istituto della riparazione con quello dell’ “indennità” o “indennizzo”.

Va preliminarmente rilevato in proposito che, per quanto detto termine ricorra frequentemente nel linguaggio legislativo in situazioni diversificate tra loro, tali da far dubitare che ad esso possa corrispondere un significato univoco e costante, è possibile scorgere un denominatore comune: l’indennità presuppone l’esercizio legittimo di un potere da parte della pubblica autorità, e, pertanto, è indipendente dal contegno illecito e dalla colpevolezza del soggetto agente, e determina un preciso obbligo di versare un corrispettivo in considerazione del sacrificio, diminuzione o lesione, che un interesse individuale subisce a vantaggio di un superiore interesse, di natura pubblicistica; fondandosi su un’esigenza di equità, prescinde da un preciso adeguamento all’entità del pregiudizio patito.

Più in specifico, può essere definita una prestazione in denaro con funzione compensativa dovuta in presenza di un danno non antigiuridico.

Ebbene, per quanto la riparazione presupponga un sacrificio del diritto del singolo, in termini di privazione della libertà personale, detto sacrificio non sempre risulta determinato da un atto legittimo della pubblica autorità, posto che la fattispecie generatrice ex art. 314, comma secondo, c.p.p. sottende, al contrario, una custodia cautelare disposta o mantenuta in forza di un titolo illegittimo, per carenza dei presupposti applicativi ex artt. 273 e 280 c.p.p. 

A ciò si aggiunga che sia per le fattispecie di ingiustizia sostanziale e formale disciplinate dall’art. 314, primo e secondo comma, c.p.p., sia per l’errore giudiziario in senso stretto di cui all’art. 643 c.p.p., non è ravvisabile alcuna corrispondenza tra la lesione del diritto del singolo, che deriva dalla indebita restrizione della libertà personale, e la tutela di un superiore interesse della collettività, non essendo certo interesse dello Stato che l’innocente venga ingiustamente perseguito o che la limitazione della libertà dell’individuo rifugga da concreti e definiti profili di reità.

In definitiva, l’errore, nella particolare prospettiva della riparazione, non presuppone due interessi contrapposti, bensì convergenti e sovrapponibili: l’interesse della persona e l’interesse dell’ordinamento alla giustizia delle decisioni giurisdizionali.

1.3. Riparazione: tertium genus tra risarcimento e indennizzo

Le rilevate aporie delle ricostruzioni dogmatiche passate in rassegna sono superate da chi, scorgendo una dimensione autonoma del concetto di riparazione rispetto alle categorie del risarcimento e dell’indennizzo, fonda l’istituto in esame su una istanza basilare dei sistemi giuridici contemporanei: quella della conformità alle forme e ai limiti costituzionali di ogni attività statale.

In tale ottica, l’obbligo dello Stato di riparare gli errori giudiziari non si fonderebbe su una ipotizzabile responsabilità, affondando, al contrario, le sue radici nella necessità di salvaguardare l’equilibrio dell’intero ordinamento giuridico, il quale postula una serie di controlli al fine di rendere le sue attività conformi al dettato costituzionale ed eliminare, eventualmente, gli effetti deleteri scaturenti da un non corretto esercizio delle stesse.

Peraltro, sebbene sia apprezzabile il tentativo di abbracciare una diversa prospettiva aderente quanto più possibile alle direttive costituzionali ed appaia ineccepibile premessa di fondo da cui essa muove, che, cioè, l’individuo ingiustamente privato della libertà personale, a prescindere da una responsabilità ascrivibile, per dolo o per colpa, all’organo che ha emesso il provvedimento restrittivo, ha diritto ad una riparazione, è evidente come quest’ultima postuli un atto giurisdizionale viziato nel solo caso di ordinanza coercitiva pronunciata in assenza dei presupposti applicativi ex artt. 273 e 280 c.p.p. (ingiustizia formale ex art. 314, secondo comma, c.p.p.); al contrario, dal momento che i presupposti del provvedimento restrittivo vanno valutati ex ante e in concreto, con riferimento al quadro indiziario esistente al momento dell’emissione dell’atto, nel caso di custodia cautelare legittima seguita da una pronuncia di proscioglimento pieno (ingiustizia sostanziale, ex art. 314, comma primo, c.p.p.), dettata dalle nuove risultante acquisite, e, dunque, fondata su una valutazione operata ex post, la riparazione non appare affatto diretta ad eliminare gli effetti dell’atto giurisdizionale viziato, definito ed assunto come errore giudiziario.

Fatta questa precisazione, va senz’altro affermato il carattere autonomo dell’istituto della riparazione rispetto a categorie dogmatiche affini quali il risarcimento o l’indennità; nel contempo, però, non può dirsi che il meccanismo riparatorio sia estraneo alla responsabilità statale, poiché, «se la società impone a tutti i cittadini come legge generale che chiunque (abbia) cagionato ad altri un danno ne debba la refezione, non può negare questo precetto di universale giustizia rispetto a sé medesima».

E come l’accertamento della responsabilità che sta alla base del meccanismo civilistico ex art. 2043 c.c. postula un giudizio di disvalore con riferimento al concreto evento lesivo rispetto al quale si invoca la tutela risarcitoria, danno “ingiusto”, analogamente, il giudizio di responsabilità esprime, nell’istituto riparatorio, la reazione ad un fatto che si qualifichi come “ingiusto”.

Se non che, nel primo caso, l’interprete, per stabilire se il danno assuma simile caratterizzazione, deve compiere una complessa operazione, che, generalmente, si svolge lungo una sequenza diretta ad accertare, in primo luogo, se l’interesse leso in sé considerato sia giuridicamente rilevante e, in secondo luogo, se quest’ultimo prevalga, in un giudizio di comparazione, rispetto a quello sottostante all’attività lesiva; comparazione da effettuare sulla base degli indici desumibile dalla Carta costituzionale, nonché dalla normativa che regola gli interessi coinvolti nella fattispecie dannosa.

Per contro, nell’istituto della riparazione, non si richiede all’interprete una diagnosi di siffatto tenore, dal momento che la valutazione circa l’ingiustizia del danno è operata direttamente dal legislatore.

Più precisamente, il giudice si deve limitare ad accertare l’integrazione delle fattispecie teorizzate dal legislatore nell’art. 314, commi primo e secondo, c.p.p., o l’adozione di una pronuncia di proscioglimento in sede di revisione e l’assenza delle cause ostative specificamente delineate, rispettivamente, dai commi primo, quarto e quinto, dell’art. 314 c.p.p. e dai commi primo e terzo dell’art. 643 c.p.p.: in entrambi i casi sorge, in capo allo Stato, l’obbligo di intervenire, prima ancora che sia accertato, in concreto, la responsabilità dell’autore del provvedimento, e a prescindere dall’esito di tale accertamento.

Un ultimo rilievo si impone. Che la riparazione integri gli estremi di un tertium genus rispetto a risarcimento del danno ed indennità non significa che non possa cogliersi un punto di contatto di tale istituto con le citate categorie dogmatiche.

In particolare, si è già avuto modo di sottolineare come l’indennità, analogamente alla riparazione, determini un preciso obbligo di versare un corrispettivo in considerazione del sacrificio che un interesse individuale subisce; ma non può sfuggire come anche la finalità del risarcimento non è più così lontana da quella della riparazione alla luce dei nuovi modelli che sono venuti ad affacciarsi recentemente nel settore del danno alla persona.

Il riferimento è tanto al “danno biologico” definito quale lesione dell’integrità psicofisica della persona, che non si identifica necessariamente col danno di natura patrimoniale, comprendendo ogni pregiudizio, diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito, che la lesione del bene alla salute abbia provocato alla vittima, quanto al “danno esistenziale”, collegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato, che si traduce in un mutamento radicale delle proprie abitudini e dei propri rapporti interpersonali e familiari, una compromissione di una o più attività realizzatrici della persona, salvaguardate dall’art. 2 Cost. .

Ebbene, non può obliterarsi come l’entrata in scena di tali diverse categorie di danno, fondate su una nuova nomenclatura di pregiudizi, alla serenità familiare, alla vita sessuale, alla dignità, etc., abbia determinato una dilatazione dei confini semantici della nozione di “danno non patrimoniale risarcibile”, non più riduttivamente ricondotto al c.d. danno morale soggettivo, attinente alla mera sofferenza psicologica, al patema d’animo, al turbamento contingente, ma esteso a tutte le conseguenze dell’illecito inerenti alla persona che non siano suscettibili di una valutazione pecuniaria, per la cui determinazione il giudice è ancorato ad un criterio equitativo, secondo quanto previsto dall’art. 1226 c.c.

In questa nuova realtà di “danni risarcibili” si affievolisce notevolmente la vecchia contrapposizione tra “risarcimento”, quale forma prevista per dare un giusto corrispettivo a fatti lesivi ricadenti soltanto sul patrimonio, e “riparazione”, quale istituto afferente ai diritti fondamentali della persona; quest’ultima, al pari del risarcimento del danno non patrimoniale, assolve, infatti, ad una funzione solidaristica nei confronti della vittima: assicurarle una utilità sostitutiva che possa compensarla, per quanto sia possibile, delle sofferenze morali e psichiche o dei drastici cambiamenti peggiorativi della propria vita, subiti a causa dell’ingiusta detenzione/condanna.

1.4. L’errore quale presupposto della riparazione

Individuata la dimensione autonoma del concetto di riparazione rispetto alle categorie dogmatiche affini del risarcimento e dell’indennità, per comprendere appieno la reale portata del relativo diritto, occorre collegare quest’ultimo, per un verso, ai diritti fondamentali della persona, quali l’inviolabilità della libertà personale e la dignità della persona lese dell’errore che sta a fondamento della ingiusta detenzione/condanna, per altro verso, al soggetto del fatto costitutivo dell’errore, lo Stato-ordinamento, entità giuridica che, in tanto si giustifica, in quanto, nel riconoscimento di preesistenti diritti fondamentali della persona, si pone a loro difesa, promovendone la piena realizzazione, per altro ancora, alla tipologia dell’attività costitutiva dell’errore, che si identifica nella giurisdizione, funzione peculiare e coessenziale all’ordinamento stesso.

Più specificatamente, assumendo che i diritti fondamentali della persona, accompagnati da un tutela particolarmente intensa, divengono principio di legittimazione dell’ordine democratico, costituisce percorso argomentativo obbligato ritenere che lo Stato-ordinamento, a pena di sconfessare sé stesso, debba giocoforza assumere su di sé l’impegno di restaurare, ripristinare quelli conculcati dalla sua stessa giurisdizione e attutire, per quanto possibile, le conseguenze dell’errore commesso, anche laddove non sia ravvisabile una responsabilità ascrivibile all’organo che ha adottato il provvedimento: lo Stato in tanto è ed esiste in quanto l’ordinamento che lo costituisce è osservato, fatto osservare e, in caso di inosservanza di sé stesso da sé stesso, provveda alla “riparazione”.

L’obbligo statale è connaturato, quindi, all’«ineliminabile pericolo dell’errore (…) che si accompagna all’amministrazione della ingiustizia, sin dai tempi antichi e presso tutti i popoli»; errore che denota l’ingiustizia, di carattere “obiettivo”, del provvedimento adottato dal giudice.

In definitiva, l’errore va riparato perché tutti devono essere in grado di ottenere non solo una decisione giurisdizionale, ma anche una decisione giusta, e il relativo meccanismo costituisce la necessaria reazione, prima ancora del soggetto coinvolto, dell’ordinamento alla ingiusta compressione dei fondamentali diritti alla libertà e dignità personale.

Alla luce dei rilievi sinora esposti appare evidente l’improprietà linguistica delle formule contenute negli artt. 643 e 314 c.p.p.: per un verso, la locuzione “errore giudiziario”, che il legislatore àncora alla sentenza definitiva di condanna revocata all’esito del giudizio di revisione, ex art. 643 c.p.p., ben si attaglia anche alle fattispecie legittimanti la pretesa riparatoria ex art. 314 c.p.p.: la custodia cautelare seguita dall’adozione di un provvedimento che attesti l’innocenza dell’indagato/imputato o disposta in violazione della legge presuppone, infatti, sempre e comunque, il realizzarsi di un errore; per altro verso, la qualificazione in termini di “ingiustizia”, a quest’ultima riservata dall’art. 314 c.p.p., si addice perfettamente, altresì, alla sentenza definitiva di condanna rimossa, proprio in quanto ingiusta, in sede di revisione.

2. Le linee evolutive dell’istituto: le origini dell’istituto

È la dottrina illuministica che, per prima, si è fatta portavoce dell’esigenza di tutelare la vittima di ingiuste carcerazioni attraverso la predisposizione, da parte dello Stato, di una serie di meccanismi riparatori.

Pur ripudiando ogni forma di assimilazione processuale tra indagato/imputato e condannato, gli Illuministi non hanno omesso di rilevare l’identità tra gli effetti determinati dal carcere preventivo e quelli prodotti dalla pena detentiva propriamente detta: pertanto, sia dall’uno che dall’altra sarebbe dovuto scaturire il medesimo diritto della vittima a vedersi risarcito il pregiudizio da esse ingiustamente arrecato; risarcimento che, pur privo della pretesa di eliminare le sofferenze patite dall’innocente, avrebbe assolto, comunque, la funzione civile di alleviare le inevitabili conseguenze negative determinate dall’ingiusta carcerazione che, con forza dirompente, mortificano la sfera morale e materiale del danno.

Le teorizzazioni illuministico-liberali del principio riparatorio sono state, per la prima volta, normativizzate nella Nuova legislazione criminale da osservarsi nella Toscana, promulgata, nel 1786, dal Granduca Pietro Leopoldo.

Essa, ricordata come «uno dei più splendidi monumenti legislativi del secolo XVIII», prevedeva, nell’art. XLVI, un indennizzo a favore dei soggetti che, dopo essere stati processati e incarcerati, fossero stati riconosciuti innocenti.

Le somme all’uopo necessarie sarebbero state prelevate da un’apposita Cassa, alimentata dalle multe e dalle pene pecuniarie inflitte dagli organi giurisdizionali.

I forti ideali di giustizia ed umanità che sorreggevano la norma in questione si scontrarono, tuttavia, con una insufficiente chiarezza percettiva ed una totale assenza di precise norme attuative, che, inesorabilmente, comportarono una disapplicazione dell’istituto.

Essa, costituì, comunque, un modello per gli ulteriori interventi in suddetta materia.

Significativamente, la citata normativa leopoldina influenzò, nella sua portata innovativa, tanto l’art. 35 del codice penale del Regno delle due Sicilie, quanto i vari progetti precedenti all’emanazione del primo codice penale del Regno.

Nonostante gli orientamenti legislativi nella materia fossero univocamente indirizzati verso l’impostazione volta alla previsione di meccanismi riparatori, il Progetto Zanardelli del codice penale del 1887 deluse le aspettative, tacendo completamente in merito alla previsione di un obbligo dello Stato alla riparazione.

In particolare, il Ministero di Grazia e Giustizia, pur rilevando la necessità di una disciplina normativa diretta al “santo e nobile scopo” di indennizzare le vittime degli errori giudiziari, ed in specie del carcere preventivo, ritenne opportuno rinviare la regolamentazione dello stesso a “migliori condizioni delle finanze e più maturi studi sull’argomento”. In tal modo, si impegnò a presentare a breve termine un disegno di legge che consentisse di destinare, almeno in parte, il ricavato delle pene pecuniarie al fine “riparatorio” e ritenne che dovesse essere il codice di rito penale e non quello sostanziale la sede naturale della normativa de qua.

Tale risposta, meramente interlocutoria per chi auspicava una pronta e adeguata disciplina, segnò il preludio ad una progressiva caduta di interesse verso la tematica in esame.

È, infatti, solo con i lavori preparatori del codice di procedura penale per il Regno d’Italia che ritornò in auge la problematica e si acquisì una consapevolezza critica sul tema.

Questa volta nessun ostacolo poteva più impedire una regolamentazione specifica della disciplina.

A ben vedere, come emerge chiaramente dall’iter dei suddetti lavori preparatori il riconoscimento legislativo del principio riparatori non ha avuto affatto una genesi esente da contrasti ermeneutici.

In particolare, andò sviluppandosi, da un lato, la tendenza ad identificare la “riparazione” con una mera “elargizione plastica”, connessa allo stato di bisogno dell’interessato, dall’altro, l’impostazione volta ad ancorare il diritto alle sole ipotesi di revisione e non anche a quelle concernenti l’ingiusta carcerazione preventiva subita.

La ricostruzione dogmatica profilata apparve la più opportuna sullo sfondo di argomentazioni “d’indole razionale”: il danno sempre minore, la natura provvisoria, e l’inevitabile incertezza delle indagini toglierebbero all’arresto dell’innocente il carattere di errore e di vera a propria ingiustizia.

Quest’ultimo dato ha trovato specifica conferma nel progetto del codice di procedura penale Finocchiaro – aprile del 1905 che, all’art. 600, stabiliva una riparazione pecuniaria a carico dello Stato per coloro i quali avessero espiato una pena restrittiva della libertà personale per oltre tre anni e si fossero trovati in condizioni economiche bisognevoli di soccorso, nonché nel progetto Orlando del 1909 – il cui art. 625 riproduceva integralmente suddetto principio –, in quello del 1911 e nel testo definitivo del codice di rito Finocchiaro – aprile del 1913, il quale, ignorando, altresì, gli esempi offerti da alcune legislazioni straniere, si limitava a prevedere, negli artt. 551-553, forme di indennizzo, a titolo di soccorso, nei confronti del soggetto prosciolto a seguito di revisione della sentenza di condanna. In concreto, si assegnava una soma a titolo di riparazione dei danni patrimoniali ai soggetti “in condizioni economiche bisognevoli di soccorso”, che avessero espiato “una pena restrittiva della libertà personale per oltre tre anni”, e si prevedeva, quali condizioni di ammissibilità della domanda, che fosse intervenuta assoluzione con formula piena in seguito a revisione, che non fossero state portate altre due condanne con pena detentiva, che non si avesse dato causa, per dolo o colpa grave, all’errore giudiziario.

Potrebbe lasciare perplessi che proprio un codice ispirato alle ideologie liberali, come quello del 1913, non avesse esteso a dismisura la tutela riparatoria; ma non va sottaciuto come l’influsso esercitato su di esso da antitetici principi e confliggenti matrici culturali in tema di libertà personale poteva catalizzare soluzioni normative di compromesso. Ciò che si era verificato, per l’appunto, in materia di riparazione per ingiusta detenzione.

2.1. La riparazione nell’impostazione originaria del codice del 1930

Se già un codice liberale come quello del 1913 si era rivelato assolutamente deludente in merito alla tematica inerente al riconoscimento di forme di riparazione a favore di chi avesse subito una ingiusta restrizione della libertà personale ante iudicatum, di sicuro, non si pretendere alcun progresso da quello successivo del 1930, il quale, risentendo del mutato contesto politico instauratosi nel Paese, ha respinto in toto la tesi della sussistenza di una responsabilità statale nelle ipotesi di ingiusta detenzione.

Nella cornice ritagliata dal nuovo regime a stampo autoritario sembrava accettabile esclusivamente la previsione di una riparazione delimitata all’ambito del giudicato riconosciuto erroneo in sede di revisione, a mero titolo assistenziale: secondo il Guardasigilli Rocco, infatti, qualora il compenso pecuniario non avesse trovato giustificazione nello stato di bisogno, avrebbe assunto “il carattere odioso di una speculazione economica”.

Muovendo da tale impostazione, si riconosceva, a carico dello Stato, un obbligo estremamente elastico posto che non solo “l’assistenza” poteva essere giuridicamente ristretta entro i confini ritenuti opportuni, ma poteva, altresì, estendersi ad ogni ipotesi di proscioglimento, indipendentemente dalla formula adottata.

L’approdo ermeneutico cui testé si è fatto cenno ha trovato un esplicito addentellato positivo nell’art. 571 c.p.p. del 1930, in base al quale chi, a seguito di revisione, fosse stato assolto per effetto della pronuncia della Corte di cassazione o del giudice di rinvio, qualora in conseguenza della sentenza annullata, avesse espiato una pena detentiva di almeno tre mesi o fosse stato sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva di durata non minore, avrebbe potuto domandare una riparazione pecuniaria a titolo di soccorso, in presenza di uno stato di bisogno di per sé o per la famiglia collegato alla precarietà della condizioni economiche. La domanda non era, comunque, ammessa qualora: fosse stata proposta dopo un anno dalla pronuncia della sentenza di annullamento senza rinvio o assoluzione; il ricorrente avesse riportato un’altra condanna per delitto, in tempo anteriore o posteriore alla pronuncia della sentenza di condanna annullata; il ricorrente, per dolo o colpa grave, avesse dato o concorso a dare causa all’errore del giudice.

Così, la soglia di durata della restrizione della libertà personale che legittimava la richiesta si riduceva fortemente, rispetto a quella fissata dal codice del 1913, da tre anni a tre mesi; il perimetro applicativo del diritto de quo si estendeva anche alle misure di sicurezza detentive di eguale durata; il termine per proporre la relativa istanza veniva elevato da tre mesi ad un anno e la causa ostativa della recidiva si inaspriva notevolmente, essendo sufficiente anche una sola condanna, precedente o successiva alla sentenza annullata, per rendere inammissibile la domanda.

Permaneva, quale ulteriore condizione per l’ammissibilità della istanza, il non aver dato o concorso a dare, per dolo o colpa grave, all’errore giudiziario, con stretto rapporto di causalità tra tali comportamenti e la condanna successivamente riconosciuta ingiusta; in proposito, secondo alcune opinioni dottrinali, nella valutazione della gravità della colpa, doveva tenersi contro delle condizioni personali e della levatura intellettuale dell’imputato.

Nel caso in cui l’assolto fosse deceduto, ai sensi dell’art. 572 c.p.p., “le persone che secondo le leggi civili avrebbero avuto diritto agli alimenti” potevano proporre, nel rispetto del termine indicato dall’art. 571 c.p.p., l’istanza per la riparazione pecuniaria o giovarsi di quella proposta, fermo restando che esse non avrebbero potuto beneficiare di “una somma complessiva maggiore di quella che, tenuto conto delle condizioni economiche e familiari del prosciolto, avrebbe potuto essere a costui liquidata”.

Quanto alle formalità di presentazione della domanda, ad essa andavano allegati, a pena di inammissibilità, “i documenti idonei a comprovare le disagiate condizioni economiche dell’interessato, il suo stato di famiglia” e, in caso di avvenuto decesso, le ulteriori condizioni previste dall’art. 572 c.p.p. .

La competenza a decidere apparteneva alla Corte di cassazione qualora la sentenza di condanna fosse stata annullata senza rinvio o al giudice del rinvio nel caso opposto.

Come è stato autorevolmente rilevato, l’impostazione accolta dal codice del 1930, “cinica e beffarda”, intrisa di una statolatria sostanzialmente ostile a considerare la carcerazione dal punto di vista della persona che la subisce, muoveva da un teorema fuorviante in base al quale, poiché il “prodotto giudiziario finito” si ha solo con la cosa giudicata, il concetto di errore in senso stretto andrebbe ancorato unicamente alle ipotesi di sentenza passata in giudicato, non rilevando, per contro, ai fini della riparazione, i danni e le sofferenze inflitte all’individuo in base a un titolo – come il mandato di cattura o il fermo o l’arresto – che esaurisce i suoi effetti all’interno del processo.

È agevole notare come una soluzione di tale portata si presentasse foriera di stridenti ed inaccettabili incongruenze: un soggetto privato della libertà personale a qualunque titolo e, successivamente, assolto all’esito del giudizio ha, senz’altro, patito danni e sofferenze che non possono essere ritenuti dissimili da quelli subiti da chi sia stato condannato irrevocabilmente ed abbia visto riconosciuta la propria innocenza solo all’esito del giudizio di revisione.

A ben vedere, il mancato accoglimento del principio riparatorio a favore della vittima di ingiusta carcerazione preventiva si attagliava perfettamente al nuovo assetto processuale disegnato dal regime di stampo fascista in corso, il quale, tendendo a privilegiare gli interessi collettivi impersonati nello Stato, su quelli eventualmente in contrasto dei singoli individui, non poteva sostenere principi di matrice liberale se non al rischio di un indebolimento dell’autorità statale e dei suoi organi.

2.2. La riparazione nel sistema costituzionale

In una cornice di garantismo, posta a salvaguardia della libertà personale nel processo, si è collocata la disposizione costituzionale secondo cui “La legge determina le condizioni e i modi della riparazione degli errori giudiziari, ex art. 24, quarto comma, Cost., che, ponendosi quale “norma manifesto”, si è sovrapposta alle disposizioni contenute negli artt. 571 e 574 del codice di rito del 1930.

In essa, sviluppandosi le enunciazione dell’art. 2 Cost., è stata proposta una specifica tutela dei diritti inviolabili della persona che risultassero aggrediti dall’errata attività giudiziaria, la quale si è affiancata a quella generale, conseguente ad un non corretto esercizio di qualsiasi altra pubblica funzione, prevista dall’art. 28 Cost. .

A quanto è dato cogliere dai lavori preparatori della Carta costituzionale, l’art. 24, quarto comma, Cost. non è stato elaborato in sottocommissione, ma direttamente formulato dal Comitato di redazione che lo ha approvato, su proposta dal suo presidente, senza contestazioni e senza dichiarazioni espressa da parte della Commissione.

Sebbene la costituzionalizzazione del meccanismo riparatorio mirasse a soddisfare “una esigenza di giustizia sostanziale”, la disposizione de qua è rimasta una sorta di “baco normativo” poiché il lapidario ed indiretto enunciato, nonché l’atecnicismo che avvolge le espressioni in esso contenute – quali “errore” e “riparazione” – non riempite, in alcun modo, di significato, non hanno consentito, sul piano applicativo, l’estensione della riparazione ai provvedimenti de libertate.

La assoluta mancanza di indicazioni circa la fisionomia funzionale dell’istituto ha condotto i primi commentatori a circoscrivere il perimetro applicativo della “riparazione” entro i soli confini del giudicato riconosciuto erroneo in sede di revisione, in perfetta armonia con il modello ricavabile dalla legislazione ordinaria.

A ben vedere si trattava di una impostazione che rivelava tutta la sua debolezza, sorda come era al complesso dei principi giuridici, politici e sociali affermati nella Costituzione, che avevano sovvertito lo Stato nelle sue strutture e nei suoi fondamentali ideologico-politici, restituendogli un regime democratico

In particolare, non sembra credibile che un sistema costituzionale, che ha ribaltato la scala dei principi recepiti dal legislatore del 1930, ha individuato “nella persona il valore-base del sistema” ed ha previsto una fitta rete di garanzie a tutela della libertà personale – che, muovendo dalla proclamata inviolabilità, ex art. 13, primo comma, Cost., si chiude con l’affermazione del principio di presunzione di non colpevolezza, ex art. 27, secondo comma, Cost. – possa disconoscere la tutela riparatoria alla vittima di ingiusta carcerazione preventiva.

L’avvertita necessità di estendere la portata del precetto costituzionale in questa direzione ha giustificato il promuovimento di una questione di legittimità del disposto dell’art. 571 c.p.p. del 1930, per contrasto con l’art. 24, quarto comma, Cost. .

In particolare, i giudici a quibus,  sull’assunto che la dizione “errore giudiziario” contenuta nell’art. 24, quarto comma, Cost. andasse riferita a qualsiasi atto restrittivo della libertà personale che, successivamente, fosse stato riconosciuto erroneo da altro e definitivo provvedimento giurisdizionale, hanno rivelato le ingiuste discriminazioni derivanti dal disposto dell’art. 571 c.p.p. 1930 laddove detta norma escludeva la possibilità di ottenere la riparazione dell’ingiusta carcerazione preventiva.

Il Giudice delle leggi, pur riconoscendo il carattere di altissimo valore etico e sociale al principio espresso dall’art. 24, quarto comma, Cost. – che rappresenta un coerente sviluppo del dettame generale volto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo –, ha dichiarato infondata la questione sollevata, osservando che «per la sua formulazione in termini estremamente generali, il principio della riparazione degli errori giudiziari postula l’esigenza di appropriati interventi legislativi, indispensabili per conferirgli concretezza e determinatezza di contorni».

In definitiva, la Consulta, preoccupata del fatto che una pronuncia di incostituzionalità dell’art. 571 c.p.p. 1930 che si fondasse sulla “parzialità” della disciplina avrebbe finito per condurre ad «un regresso della situazione normativa, riaprendo un vuoto che non sarebbe (stato) colmabile in sede d’interpretazione», ha optato per un atteggiamento prettamente “abdicativo” – che rifletteva una posizione ermeneutica scarsamente sensibile alla tutela dei valori che si intravedono sullo sfondo della norma in esame – l’art. 24, quarto comma, Cost. una disposizione programmatica, una sorte di rinvio in bianco del legislatore.

Erano, in tal modo, poste le premesse di un intervento normativo volto a chiarire definitivamente l’esatta portata del discusso precetto costituzionale.

2.3. La riparazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo

Un intervento chiarificatore del legislatore ordinario nel senso di estendere la tutela riparatoria nei casi di ingiusta detenzione non scaturita da una sentenza passata in giudicato era, altresì, atteso al fine di porre rimedio alle macroscopiche elusione degli obblighi internazionali, tra i quali compariva proprio quello di provvedere alla riparazione nelle ipotesi di illegittima custodia cautelare.

In particolare, ai sensi dell’art. 5, paragrafo quinto, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – firmata a Roma il quattro novembre 1950, resa esecutiva in Italia con la l. 4 agosto 1955, n. 848, ed entrata in vigore il 26 ottobre del 1955 – “Ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione”.

Limitando il campo di indagine alla custodia cautelare, risulta palese come la clausola contenuta in detto documento risponda all’esigenza di assicurare la riparazione ogni qual volta la restrizione della libertà personale, in base ad un giudizio ex ante, risulti disposta contra legem, ossia in violazione di uno dei diritti fondamentali garantiti dallo stesso art. 5.

In altri termini, la normativa europea, per un verso, ha escluso dal novero delle situazioni riparabili le ipotesi di restrizioni della libertà personale adottate e mantenute in modo legittimo, ma rivelatesi ex post oggettivamente ingiuste, per l’altro, ha esteso la tutela alle ipotesi non riconducibili all’errore giudiziario in senso stretto.

Di quest’ultimo si occupa l’art. 3 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea, rubricato “Droit d’indemnisation en cas d’erreur judiciarie”, nella lingua ufficiale francese e “Compensation for wrongful conviction” nella lingua ufficiale inglese, secondo il quale: «Allorché una condanna penale definitiva viene annullata o la grazia viene accordata poiché nuovi elementi o nuove rivelazioni comprovano un errore giudiziario, la persona che ha subito una pena in ragione di tale condanna verrà indemnisée (compensated) conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato, a meno che non venga provato che il fatto di non aver rivelato in tempo utile gli elementi non conosciuti sia totalmente o parzialmente imputabile alla stessa».

Nonostante la Convenzione di Roma sottendesse un indiscusso valore politico e ideale, il legislatore italiano non ha provveduto, in tempi ragionevoli, ad adeguare la disciplina allora vigente, contenuta negli artt. 571-574 c.p.p. del 1930, a quella europea, sebbene non fossero mancate le occasioni per uniformarsi ad essa.

L’atteggiamento agnostico assunto dal legislatore interno nei confronti delle indicazioni offerte dalla normativa continentale ha indotto la dottrina a interrogarsi sul rango da attribuire, nell’ambito del sistema delle fonti nazionali, alle norme di origine pattizia e sulla idoneità del mero ordine di esecuzione della Convenzione europea ad adeguare l’ordinamento italiano ai menzionati obblighi internazionali in materia di riparazione.

Sebbene l’opinione prevalente, correttamente la forza di legge ordinaria delle norme interne di adattamento della Convenzione, fosse orientata a negare il carattere self-executing, non va trascurato che la disciplina contenuta nella Carta europea si è rivelata affatto sterile, posto che, da un lato, ha fornito al legislatore statale significativi parametri alla cui stregua plasmare il meccanismo riparatorio, dall’altro, ha consentito di attenuare i pregiudizi conseguenti alla lacuna legislativa interna grazie alla predisposizione di appositi strumenti di tutela.

Sotto quest’ultimo profilo, va, infatti, messo in luce che gli artt. 13 e 14 della Convenzione di Roma conferiscono ad ogni persona vittima di illegittime violazioni della propria libertà la legittimazione, rispettivamente, al recours effectiv devante une istance nationalex ed al ricorso individuale alla Corte europea dei diritti dell’uomo; organo internazionale, quest’ultimo, che pronuncia sentenze alle quali è riconosciuta forza vincolante, ex art. 46 C.E.D.U. e che può essere adito da chi abbia esaurito, con esito negativo, le vie di ricorso interne, entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva, ex art. 35 C.E.D.U. .

Va detto, però, che il numero dei ricorsi individuali alla Corte europea, contro ogni aspettativa, non è stato rilevante, non solo a causa del ritardo circa vent’anni con il quale il governo italiano ha accolto le clausole facoltative del ricorso individuale e della giurisdizione obbligatoria della Corte, ma anche per la lunghezza ed il costo del procedimento.

Sulla stessa lunghezza d’onda delle disposizioni richiamate si colloca, poi, quella contenuta nell’art. 41, in forza del quale, se la Corte europea dei diritti dell’uomo “dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte Contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa” con sentenza avente natura dichiarativa, forza obbligatoria e carattere definitivo.

È di tutta evidenza come le condizioni richieste dalla citata norma fossero facilmente realizzabili nella materia in esame posto che il codice del 1930, includendo, come più volte sottolineato, nell’alveo del diritto alla riparazione le sole ipotesi riconducibili all’errore giudiziario in senso stretto, non permetteva, se non “in modo incompleto di riparare le conseguenze” di una violazione della Convenzione.

2.4. La riparazione nel codice del 1930 dopo la l. 23 maggio 1960, n. 504

Per quanto fosse chiaramente avvertita la necessità di coordinare con la nuova normativa europea la disciplina processuale interna della materia de libertate, la riparazione per l’ingiusta detenzione cautelare, fino alla stesura della prima legge-delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, rimaneva relegata tra gli angusti confini dell’errore giudiziario in senso stretto.

La stessa l. 23 maggio 1960, n. 504 – che aveva riformulato i vecchi artt. 571-574 c.p.p. 1930 e introdotto un nuovo art. 574-bis – cui andava attribuito il merito di aver configurato la riparazione quale diritto soggettivo vantato nei confronti dello Stato, anziché quale ristoro elargito pietatis causa, a mero titolo di soccorso, condizionato dall’esistenza di disagiate condizioni economiche, si rivelava alquanto deludente, coinvolgendo, unicamente, l’area dell’errore giudiziario nella sua accezione tradizionale: il nuovo testo dell’art. 571 c.p.p. 1930, infatti, riconosceva il “diritto (…) ad una equa riparazione commisurata alla durata dell’eventuale carcerazione preventiva o internamento ed alle conseguenze personali e famigliari derivanti dalla condanna, soltanto a chi fosse stato assolto in sede di revisione, per effetto della sentenza della Corte di Cassazione o del giudice di rinvio (…), se per dolo o colpa grave non (avesse) dato o concorso a dare causa all’errore giudiziario”.

Restava, dunque, determinante, anche nella nuova disciplina, la pronuncia di una sentenza di assoluzione in sede di revisione e il non “aver dato o concorso a dare causa, per dolo o colpa grave”, all’errore giudiziario.

Riguardo alla determinazione del pregiudizio – che doveva essere commisurato alla durata della carcerazione o internamento subito e alle conseguenze personali e famigliari – mancando la possibilità di ricorrere ad un coefficiente certo che consentisse di stabilire il valore della sofferenza prodotta dalle lesioni di interessi non strettamente patrimoniali, si stabiliva che la riparazione dovesse essere informata ad un essenziale criterio di equità, che, in quanto tale, prescindeva da accertamenti fondati su precise prove; la liquidazione dei danni andava, pertanto, affidata al prudente apprezzamento del giudice.

È significativo notare come l’insufficienza della soluzione normativa prospettata è stata immediatamente percepita; tant’è che già a pochi mesi di distanza dall’emanazione della citata novella, veniva presentato, ad iniziativa dei parlamentari Chabod e Lami Starnuti, un nuovo disegno di legge volto ad estendere il confine applicativo del diritto alla riparazione anche alle ipotesi di ingiusta detenzione protrattasi per almeno sei mesi; esso, però, nonostante le lodevoli intenzioni da cui risultava ispirato, rimase lettera morta.

Come è stato osservato da autorevole dottrina, le notevoli difficoltà cui andava incontro il riconoscimento, alla persona vittima di ingiusta limitazione della libertà personale subito nel corso del procedimento penale, del diritto di «vedersi offrire, da parte della collettività, un tangibile riconoscimento del torto e una adeguata riparazione del danno sofferto» era indice «delle presunte difficoltà dogmatiche, preoccupazioni politiche e tecnico-finanziarie, che venivano talvolta, privilegiate rispetto alle istanze di giustizia»; ma era proprio in nome di questo alto e supremo valore che andava stigmatizzata come “improvvida” ed “insensibile” la legislazione che non si faceva carico delle gravose, talvolta inesorabili, ripercussioni sul piano morale, familiare, sociale, professionale, di una ingiusta detenzione, accentuate dalla indifferenza della società, poco incline a ragionare in termini di presunzione di non colpevolezza

2.5. La riparazione nella legge delega del 1974 e nel progetto preliminare del 1978

Solo la l. 3 aprile 1974, n. 108, contenente la delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, ha consentito di superare definitivamente l’impostazione restrittiva del passato prevedendo, al punto n. 81 dell’art. 2, la “riparazione dell’errore giudiziario o per ingiusta detenzione”.

Il senso della specificazione contenuta nella disposizione portava, in concreto, ad estendere l’ambito della riparabilità ai casi, più usuali e frequenti, di erronea restrizione della libertà personale disposta dal magistrato procedente fino dalle primissime fasi delle indagini.

Dall’uso della congiunzione disgiuntiva “o” era possibile, infatti, desumere, da un lato, «l’intento di tagliar corto rispetto alle precedenti dispute interpretative in ordine al testo costituzionale», dall’altro, la volontà di ampliare, quanto alla riparazione, «i confini tradizionali dell’ “errore giudiziario”, cioè da giudicato».

Se non che, la scarsità e genericità delle indicazioni contenute nella delega – soprattutto se rapportate alle novità della materia e alle contraddizioni cui da sempre essa aveva dato origine – imponevano al legislatore delegato di misurarsi con un compito tutt’altro che agevole.

D’altro canto, anche laddove la delega, usando una formula alquanto ampia – “ingiusta detenzione” – consentiva di estendere la tutela riparatoria tanto alle ipotesi di carcerazioni risultate ingiustificate ex post, in base alle risultanze processuali e alla sentenza finale, quanto alle ipotesi di carcerazioni illegali ex ante – contestabili alla luce di elementi noti al momento della loro adozione – la mancanza di specificazioni al riguardo incoraggiava interpretazioni divergenti e applicazioni potenzialmente riduttive.

Il disposto della direttiva trovò attuazione nell’art. 300, primo comma, prog. prel. 1978 che riconobbe a chi fosse «stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, o per non aver commesso il fatto» la facoltà di «chiedere una riparazione per la custodia provvisoria trascorsa in carcere, qualora non vi (avesse) dato o concorso a dare causa con dolo o colpa grave». In tal caso, il giudice, ai sensi del comma secondo di tale articolo, avrebbe deciso “secondo equità”.

Simmetricamente, l’art. 606 comma primo prog. prel. 1978 attribuì al «prosciolto in sede di revisione, se per dolo o colpa grave non (avesse) dato causa all’errore giudiziario», il «diritto ad una equa riparazione commisurata alla durata dell’eventuale carcerazione o internamento ed alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna».

La disposizione da ultimo richiamata non apportava sostanziali variazioni al previgente art. 571 c.p.p. 1930: le uniche divergenze concernevano il riferimento alla pronuncia di una sentenza di proscioglimento anziché di assoluzione in sede di revisione, quale presupposto del diritto alla riparazione – con inevitabile dilatazione del perimetro applicativo dell’istituto, rilevando non solo la situazione di chi fosse stato assolto ex art. 502 prog. prel. 1978, ma anche quella di chi avesse ottenuto uno degli altri esiti favorevoli del giudizio di cui agli artt. 501, sentenza di non doversi procedere, e 503, dichiarazione di estinzione del reato, del medesimo progetto –, e la non menzione del “concorso a dare causa” all’erronea condanna quale fattore ostativo al sorgere del diritto de quo.

Riguardo all’istituto previsto dall’art. 300 prog. prel., innanzi tutto, appariva evidente come il legislatore delegato avesse sganciato – fraintendendo, probabilmente, il disposto della delega – le ipotesi di ingiusta detenzione da quelle di errore giudiziario: l’autonoma regolamentazione dei due meccanismi si esponeva a fondate critiche se non altro perché «relegava semplicisticamente l’errore giudiziario nell’area tradizionale della revisione».

In secondo luogo, il legislatore delegato forniva una interpretazione alquanto riduttiva della formula cui si era richiamato il legislatore delegante: la disposizione progettuale, infatti, circoscriveva il campo applicativo del meccanismo in esame alle ipotesi di carcerazioni rivelatesi ingiuste ex post – alla stregua cioè dei risultati probatori confluiti nella sentenza di proscioglimento – estromettendovi quelle che, a prescindere dall’esito del processo, risultassero illegittime in forza di valutazioni ex ante. Oltretutto, la considerazione che «soltanto i proscioglimenti con formule particolarmente qualificate nel senso dell’innocenza» fossero meritevoli di riparazione, in linea con l’esigenza pratica di «assicurare un efficace contenimento delle ipotesi di riparazione», aveva indotto il legislatore delegato a collegare l’inammissibilità della pretesa riparatoria alle sole formule proscioglitive in facto – “per non aver commesso il fatto” o “perché il fatto non sussiste” –, escludendo quelle in iure.

Il progetto, inoltre, prendendo alla lettera la delega, indicava come suscettibile di riparazione la sola custodia provvisoria in carcere rivelatasi ingiusta, con la conseguenza che le misure di coercizione personali detentive ad esse alternative acquistavano il connotato intrinseco, d’ordine negativo, della “non riparabilità””.

Sottolinea, ragionevolmente, un'attenta dottrina, che suscitava, tuttavia, maggiori perplessità la previsione, a favore dell’innocente detenuto, di una mera “legittimazione a chiedere” in luogo di un vero e proprio “diritto ad ottenere” la riparazione: si rilevava che la qualificazione in detti termini non solo produceva disarmonie nel sistema rispetto alla configurazione data sul punto alla riparazione conseguente ad errore giudiziario in senso stretto, ma finiva per eludere totalmente le sollecitazioni provenienti tanto a livello costituzionale quanto a livello internazionale.

2.6. La riparazione nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici

Sotto quest’ultimo aspetto va evidenziato che indicazioni nel senso di adottare un approccio di più ampio respiro, attraverso un esplicito riconoscimento di un vero e proprio “diritto ad ottenere” la riparazione, provenivano non solo dall’art. 5, paragrafo quinto, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche dall’art. 9, paragrafo quinto, del Patto Internazionale sui diritti civili e politici – adottato a New York dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con la l. 25 ottobre 1977, n. 881 ed entrato in vigore il 15 dicembre 1978, prima cioè, del completamento dei lavori sul progetto preliminare – ai sensi del quale «Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzioni illegali ha diritto ad una riparazione».

Risulta palese come, analogamente alla Convenzione di Roma, anche il Patto di New York imponga agli Stati membri di provvedere alla riparazione nelle ipotesi di restrizione della libertà personale qualificabili ex ante illegittime, differenziandole da quelle di “errore giudiziario in senso stretto”, disciplinate dall’art. 14, paragrafo sesto.

Se, da un lato, sono da segnalare le evidenti assonanze tra la disposizione da ultimo richiamata  - ai sensi della quale «Quando un individuo è stato condannato con sentenza definitiva e successivamente tale condanna viene annullata, ovvero viene accordata grazia, in quanto un fatto nuovo o scoperto dopo la condanna dimostra che era stato commesso un errore giudiziario, l’individuo che ha scontato una pena in virtù di detta condanna deve essere indeminsée (compensated), in conformità della legge, a meno che non venga provato che la mancata scoperta in tempo utile del fatto ignoto è a lui imputabile in tutto o in parte» – e l’art. 3 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea, dall’altro lato, sembrerebbe, in materia di ingiusta detenzione, che il raggio d’azione dell’art. 9, paragrafo quinto, del Patto internazionale sia più ampio rispetto a quello della norma gemella della Convenzione europea: parlando di arresto o detenzione “illegali”, anziché di arresto o detenzione “eseguiti in violazione delle disposizioni di questo articolo”, la norma pattizia sembra riferirsi ad ogni tipo di arresto o detenzione “illegale”, e non a quelle sole “illegalità” che discendono da violazioni delle “garanzie minime” fondamentali fissate nei commi precedenti.

Se non che, rispetto all’Italia, l’ampiezza del diritto de quo è stata considerevolmente delimitata da una riserva apposta all’atto di deposito della ratifica del Patto internazionale. In essa si è precisato: «La Repubblica italiana, considerando che l’espressione “arrestation ou détention illégales” contenuta nel paragrafo quinto dell’art. 9 potrebbe dar luogo a divergenze di interpretazione, dichiara d’interpretare l’espressione summenzionata come riferentesi esclusivamente agli arresti o detenzioni contrarie alle disposizioni del paragrafo primo del medesimo articolo 9».

Alla luce di quanto appena esposto, la Turco deduce, in conclusione, che la dichiarazione del legislatore italiano ha, così, impedito di collegare il diritto riparatorio alle limitazioni di libertà contrarie a norme di legge interna che risulti più “liberale”.

In particolare, ella rileva - nell' opera sopra citata - che se a ciò si aggiunge che la tecnica normativa seguita dall’art. 9 del Patto di New York – indiretta e sintetica, limitandosi, la norma de qua, a contenere mere enunciazioni di principio, diversamente dalla corrispondente disposizione convenzionale, che elenca tassativamente i casi in cui è consentito adottare e mantenere una misura limitativa della libertà personale dell’imputato – non agevola affatto il compito dell’interprete quanto all’individuazione delle situazioni in concreto riparabili, risulta evidente come la tutela predisposta, in materia, del Patto internazionale finisce per rivelarsi meno incisa rispetto a quella della Convenzione europea.

2.7. La riparazione nella legge delega del 1987 e nel progetto preliminare del 1988

Il profondo mutare delle condizioni socio-politiche e il diffondersi di forme di criminalità di  dimensioni esorbitanti compromisero le sorti della delega del 1974 impedirono alla disciplina della riparazione contenuta nel progetto preliminare di porre rimedio alle macroscopiche inadempienze degli obblighi che l’ordinamento italiano aveva assunto tanto a livello costituzionale (art. 24, quarto comma), quanto a livello internazionale, con la Convezione di Roma e il Patto di New York.

Nonostante l'accantonamento del progetto preliminare non seguì una perdita di interesse per la tematica della riparazione per l’ingiusta detenzione, poiché furono numerosi i disegni e le proposte di legge che, pur non trovando traduzione legislativa, contribuirono all’evoluzione dell’istituto, rivelandosi un prezioso materiale facilmente fruibile dal successivo legislatore.

D’altro canto - osserva l'autorevole dottrina sopra menzionata - i rilievi critici mossi da più versanti alla configurazione del meccanismo della riparazione per l’ingiusta detenzione contenuta nell’art. 300 prog. prel. 1978 si sono mostrati decisivi in sede di attuazione della seconda e definitiva legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81: nonostante, infatti, il legislatore delegante avesse perpetuato l’errore del suo predecessore, emanando una direttiva alquanto generica, priva di specifiche indicazioni anche sui punti in precedenza al centro dei più vivaci contrasti de lege ferenda – quale significato da attribuire ai concetti di detenzione e di ingiustizia –, e apportato, sul piano testuale, alcune “discutibili” variazioni alla precedente direttiva – la sostituzione della disgiuntiva “o” con la congiunzione “e”, nonché la anteposizione del riferimento alla riparazione per l’ “ingiusta detenzione” rispetto a quello relativo all’ “errore giudiziario” che, all’apparenza di poco conto, esprimono, a livello lessicale, la definitiva separazione, iniziata con il progetto preliminare del 1978 e, in seguito, non più ricomposta, tra il concetto di “ingiusta detenzione” e quello di “errore giudiziario”, relegato all’area della revisione; separazione che potrebbe addirittura ostacolare la riconducibilità del meccanismo riparatorio cautelare alla tutela predisposta dall’art. 24, quarto comma, Cost., riservata, appunto, all’ “errore giudiziario” – la maturazione di una spiccata sensibilità politica e sociale sul tema ha condotto il legislatore delegato ad una nuova elaborazione dell’istituto, particolarmente attenta alle esigenze garantistiche, sempre più avvertite.

Riguardo alla riparazione dell’errore giudiziario, il contenuto dell’art. 606, primo comma prog. prel. 1978 è stato integralmente recepito nel testo dell’art. 634 prog. prel. 1988, al quale, su suggerimento della Commissione parlamentare, è stata apportata una sola variante in sede di stesura del progetto definitivo: l’eliminazione, avanti al sostantivo “riparazione”, dell’aggettivo “equa”, ritenuto in contrasto con i parametri di valutazione indicati nel comma primo del medesimo articolo.

2.8. La riparazione nello Statuto della Corte penale internazionale

Un'ulteriore fonte del diritto di chi abbia patito una illegittima misura restrittiva ad ottenere una riparazione è rappresentata dal trattato contenente lo Statuto della Corte penale internazionale, adottato a Roma il 7 luglio 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002.

In particolare, l’art. 85, rubricato “Compensation to an arrested or convicted person”, inserito nel Capitolo VIII dello Statuto, dedicato ad “Appello e revisione”, stabilisce, al primo paragrafo, che «Anyone who has been the victim of unlawful arrest or detention shall have an enforceable right to compensation».

La previsione, che segue alla lettera il contenuto dell’art. 9 paragrafo quinto del Patto di New York, precede le disposizioni che attengono all’errore giudiziario in senso stretto.

Specificamente, ai sensi del paragrafo secondo, «Se una condanna definitiva e in seguito annullata, in quanto un fatto nuovo, o recentemente rivelato, dimostra che è stato commesso un errore giudiziario, la persona che è compensated in conformità delle leggi, a meno che non sia provato che il non aver rivelato il fatto in tempo utile è imputabile alla stessa persona, in tutto o in parte». Prosegue il paragrafo terzo: «In circostanze eccezionali, qualora la Corte scopra sulla base di elementi affidabili che è stato commesso un errore giudiziario grave e manifesto essa può, a sua discrezione, concedere una compensation, secondo i criteri enunciati nelle Regole Procedurali e di Ammissibilità delle Prove, alla persona che sia stata liberata a seguito di un proscioglimento definitivo o in quanto il procedimento giudiziario abbia cessato per via di questo fatto».

Emerge plasticamente la diversità tra la sistematica dello Statuto e quella della Convenzione di Roma e del Patto di New York: questi ultimi disciplinano le ipotesi riconducibili alla più ampia nozione di “errore giudiziario in senso stretto” in articoli distinti.

Inoltre, alla solennità del principio affermato nella Convezione europea e nel Patto internazionale si accompagna un palese difetto di specificità, mancando idonee indicazioni di carattere procedurale, le rules 173 e 174 del Regolamento di procedura e prova, varato ai sensi dell’art. 51 dello Statuto, delineano una procedura standard comune alle tre ipotesi di riparazione.

In particolare, il soggetto interessato – al quale viene garantita l’assistenza di un difensore – deve rivolgere una domanda scritta alla Presidenza della Corte, che ha il compito di nominare un’apposita Camera, costituita da tre giudici, incaricata di esaminare la richiesta.

Quest’ultima deve essere presentata nel rispetto del termine perentorio di sei mesi dalla data in cui gli sia stata notificata: la pronuncia della Corte concernente l’illegittimità dell’arresto o della detenzione subiti, nel caso previsto dal paragrafo primo; la decisione concernente l’annullamento della precedente sentenza di condanna, nel caso previsto dal paragrafo secondo; la decisione concernente il riconoscimento di un grave e manifesto errore giudiziario, nel caso previsto dal paragrafo terzo.

La domanda, recante causa petendi e decisum, unitamente ad ogni altra osservazione in forma scritta proveniente dall’interessato, va comunicata al pubblico ministero che può replicare, a sua volta, sempre in forma scritta. Le eventuali osservazioni di quest’ultimo devono essere comunicate all’instante.

Due possibili epiloghi della procedura: la Camera designata può fissare un’udienza di discussione, sempre se vi sia una richiesta in tal senso da parte dell’interessato o del pubblico ministero, o in alternativa, verosimilmente quando ha avuto luogo il contraddittorio cartolare anticipato, definire la questione unicamente sulla base della domanda e delle osservazioni provenienti dalle parti.

In entrambi i casi, la decisione, adottata a maggioranza dei componenti del collegio giudicante, deve essere comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato.

Per quanto concerne la determinazione del pregiudizio, la Rule 175 – “Amount of compensation” – dispone che l’ammontare della compensation venga determinato facendo riferimento alle conseguenze del grave e manifesto errore giudiziario sulla situazione personale, familiare, sociale, e professionale dell’interessato, ma riconduce detta previsione alla sola ipotesi di riparazione prevista dal paragrafo terzo dell’art. 85 dello Statuto.

Osserva la Turco che tale ultima precisazione rende legittima tale domanda: "Se quegli stessi parametri possano o meno essere utilizzati per il calcolo della somma da liquidare come riparazione dell’ingiusta detenzione di cui al primo paragrafo e dell’errore giudiziario di cui al paragrafo secondo dell’articolo in esame".

Sebbene la lettera della Rule 175 sembrerebbe condurre verso una soluzione negativa, l’identità di ratio che sta a fondamento dei tre istituti agevola una interpretazione estensiva della disposizione.

Riguardo alle situazioni che legittimano alla richiesta di riparazione, ai sensi del paragrafo primo dell’art. 85 dello Statuto, la qualifica di “unlawful arrest or detention” compete ai provvedimenti in materia di libertà personale contrari alle norme dello Statuto e, verosimilmente, ad “other applicable rules of international law”.

Non è chiaro «se le violazioni dello Statuto che consentono la riparazione derivino unicamente da provvedimenti restrittivi “unlawful” adottati dai funzionari della Corte o anche dalle autorità degli Stati Parte in connessione con procedimenti in corso di svolgimento davanti alla Corte stessa». In quest’ultima prospettiva sarebbe da verificare se sia la Corte l’organo competente a stabilire l’illegittimità delle misure restrittive disposte nell’ambito delle singole giurisdizioni nazionali, o se, invece, l’art. 85 dello Statuto si rivolga agli Stati Parte, imponendo loro di predisporre, nei rispettivi sistemi interni, idonei meccanismi riparatori per le vittime delle “unlawful” restrizioni della libertà personale.

Al di là delle lacune e dei dubbi ermeneutici che la norma in esame può suscitare, va comunque positivamente valutata nello Statuto del diritto alla riparazione, in grado di orientare gli ordinamenti nazionali dei diversi Paesi, chiamati a garantire, nella configurazione dell’istituto in esame, quantomeno, lo standard di garanzia ivi riconosciuto.

3. Considerazioni preliminari sulle impugnazioni contro le misure cautelari personali: la “riparazione per l’ingiusta custodia cautelare”

Si rendono necessarie alcune considerazioni preliminari circa le impugnazioni contro le misure cautelari personali, prima di procedere all’analisi, di natura teorico-dogmatica, dell’istituto oggetto della recente pronuncia della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione, e ai suoi risvolti applicativi.

Da ricordarsi è che i provvedimenti che applicano, modificano o revocano le misure cautelari sono impugnabili nei casi previsti dalla legge. Il codice prevede tre mezzi di impugnazione: il riesame, l’appello ed il ricorso per cassazione. Il procedimento relativo al singolo mezzo di impugnazione si svolge in modo autonomo rispetto al procedimento penale, che segue il suo corso; ciò significa che l’impugnazione contro una misura cautelare costituisce un procedimento incidentale, che si sviluppa parallelamente allo svolgersi del procedimento principale.

Il riesame è ammesso di regola soltanto contro le ordinanze che applicano per la prima volta ab initio una misura coercitiva; la richiesta può essere proposta esclusivamente dall’imputato o dal suo difensore, non dal pubblico ministero.

L’appello è ammesso nei confronti di tutti gli altri provvedimenti in tema di misure cautelari personali. Esso può essere proposto dall’imputato, dal suo difensore e dal pubblico ministero.

Competente a decidere sia sul riesame, sia sull’appello è il tribunale, in composizione collegiale, del capoluogo del distretto della corte d’appello nel quale ha sede il giudice che ha disposto la misura, ex art. 309, settimo comma, c.p.p.; nella prassi, tale organo è denominato “tribunale della libertà”.

La caratteristica comune ai mezzi di impugnazione delle misure cautelari sta nel fatto che essi non hanno efficacia sospensiva sul provvedimento che limita la libertà personale, ex art. 588, secondo comma, c.p.p. . Ciò vuol dire che la misura cautelare continua ad avere effetto, nonostante che sia stata presentata impugnazione.

Il procedimento relativo ai tre mezzi di impugnazione delle misure cautelari è stato oggetto di profonda revisione ad opera della legge n. 47 del 2015.

Per quanto concerne ciò che rileva in questa sedes materiae, all’imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto ad ottenere un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, ex art. 314 c.p.p. . Si tratta di una novità introdotta dal codice del 1988 in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ex art. 5, comma quinto. La domanda di riparazione è presentata dall’imputato dopo che la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile; sulla richiesta decide la corte d’appello con un procedimento in camera di consiglio.

Il presupposto del diritto ad ottenere l’equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale e formale della custodia cautelare subita, ad esempio la custodia in carcere o l’arresto domiciliare. Se si fosse dovuto accertare che la custodia cautelare sofferta era stata cagionata da un atto illecito, ciò avrebbe comportato per il richiedente l’onere di dimostrare l’ingiustizia del danno; e cioè, un onere della prova molto pesante. Il Legislatore ha consentito al richiedente di limitarsi a dimostrare che la sua situazione rientra in una delle due ipotesi di ingiustizia, formale e sostanziale, previste espressamente dall’art. 314. Per tale motivo la somma di denaro, che gli può essere attribuita, è denominata “riparazione” e non “risarcimento”.

La prima ipotesi di ingiustizia, prevista dall’art. 314, primo comma, c.p.p., è di tipo sostanziale. Il diritto all’equa riparazione spetta all’imputato che sia stato assolto per motivi completamente liberatori in punto di responsabilità, e cioè perché era innocente. È richiesta una sentenza irrevocabile di assoluzione con uno dei seguenti dispositivi: perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a proceder pronunciata al termine dell’udienza preliminare ed il provvedimento di archiviazione emesso all’esito delle indagini preliminari, ex art. 314, terzo comma, c.p.p.

La seconda ipotesi di ingiustizia, prevista dall’art. 314, secondo comma, c.p.p. è di tipo formale. Ciò avviene quando si accerta, con decisione irrevocabile, ad esempio, del tribunale della libertà, che la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che esistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 del codice. Ad esempio, quando mancavano i gravi indizi; o quando il delitto era punito con una pena che non consentiva la custodia cautelare; o, infine, quando la custodia subita sia stata superiore alla pena irrogata con la sentenza di condanna. Quando ricorre una di queste ipotesi il diritto all’equa riparazione spetta sia all’imputato prosciolto per qualsiasi causa, sia all’imputato condannato. È sufficiente che la custodia sia stata illegittima “formalmente”; non rileva che essa fosse giustificata dal punto di vista sostanziale.

Occorre segnalare che il codice pone al diritto alla riparazione alcuni ostacoli, che di fatto tengono conto di esigenze di giustizia sostanziale.

Il primo ostacolo è previsto dall’art. 314, comma quarto. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte di custodia cautelare che è stata comunque computata ai fini della determinazione della quantità di pena detentiva che avrebbe dovuto essere scontata dall’imputato, che è stato condannato, ex art. 657 c.p.p. .

Il secondo ostacolo è posto dall’art. 314, primo comma. L’imputato non ha diritto alla riparazione se ha “dato causa” o ha “concorso a dare causa” all’ingiusta custodia cautelare per dolo o colpa grave. Si tratta di un punto molto delicato, che dà luogo a un contemperamento tra due diritti spettanti all’imputato, quello di difendersi e quello di ottenere la riparazione dell’ingiusta custodia cautelare. La possibilità di rimanere silenzioso costituisce un vero e proprio diritto per l’imputato, ex art. 64 c.p.p.; la decisione sul “se” e “quando” esercitarlo attiene a scelte difensive non sindacabili.

Diverso è il caso di dichiarazioni false; infatti, tale condotta, pur non essendo punibile ex art. 384 c.p., costituisce un comportamento che integra gli estremi civilistici degli artifizi che inducono in errore.

Le considerazioni appena svolte si rispecchiano nelle scelte effettuate in attuazione della delega per il recepimento della Direttiva sulla presunzione di innocenza (2016/343/UE del 9 marzo 2016, adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio). Nella logica della Direttiva, infatti, la presunzione di innocenza ha un riflesso immediato nella tutela del diritto al silenzio dell’indagato e del diritto a non autoincriminarsi; tali diritti sono espressi dall’art. 7, paragrafi 1 e 2 della Direttiva. Ai fini della corretta attuazione delle indicazioni europee, le Commissioni giustizia della Camera e del Senato avevano condizionato il parere positivo sullo schema di decreto legislativo proprio all’eliminazione delle conseguenze negative derivanti dall’esercizio del diritto al silenzio e avevano chiesto che la condotta silenziosa, tenuta dall’imputato o dall’indagato, non costituisse un ostacolo al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione.

In effetti, esisteva un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, «in tema di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, la condotta dell’indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave poiché è onere dell’interessato apportate immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’autorità giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare».

Il Governo ha recepito la condizione posta dalle Commissioni e, con il d.lgs. n. 188 del 2021, ha inserito nell’art. 314 c.p.p. una disposizione in base alla quale l’esercizio del diritto al silenzio non incide sul diritto alla riparazione per ingiusta detenzione.

La domanda di riparazione deve essere proposta alla Corte d’appello entro due anni dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, o è stato notificato il provvedimento di archiviazione. Ai sensi dell’art. 315, comma secondo, “l’entità della riparazione non può comunque eccedere euro 516.546". La corte d’appello decide in via equitativa in considerazione del fatto che si tratta di una somma indennitaria e non risarcitoria.

Per completezza, occorre segnalare che nessuna riparazione è prevista per l’ingiusta applicazione di misure coercitive non custodiali. In merito alle misure “precautelari”, la sentenza della Corte costituzionale n. 109 del 1999 ha esteso il diritto alla riparazione sia nel caso in cui sia stato disposto un arresto in flagranza o un fermo che non siano stati convalidati, sia nel caso di convalida della misura, non seguita da un provvedimento di custodia cautelare, qualora sia intervenuta una sentenza irrevocabile di assoluzione.

Un forma speciale di riparazione è il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto che occupava prima dell’applicazione della misura, quando sia stato licenziato soltanto perché in custodia cautelare, e non per altri motivi, quali, ad esempio, disciplinari, ex art. 102-bis disp. att. . Il diritto scatta nel momento in cui è stata pronunciata una decisione di proscioglimento, di non luogo a procedere o di archiviazione; la legge non richiede che tali provvedimenti siano irrevocabili.

4. Ratio e principi fondamentali sottesi all’istituto alla luce della più rilevante giurisprudenza di legittimità

Come ribadito anche di recente dalla suprema Corte, con le pronunce nn. 30405 e 30406 del 2022, l’istituto di cui agli artt. 314 e ss. c.p.p. è uno strumento indennitario da atto lecito e non risarcitorio, derivando il pregiudizio subito da una legittima attività dell’autorità giudiziaria.

L’equa riparazione, infatti, scaturisce da un rapporto di solidarietà civile diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli, patrimoniali e non, procurate dalla privazione della libertà attraverso un sistema di chiusura con il quale l’ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente, ma senza colpe, compressa, correlando, perciò, la quantificazione dell’indennizzo alla sola durata e intensità della privazione della libertà, salvi gli aggiustamenti resi necessari dall’evidenziazione di profili di pregiudizio più vasti rispetto al fisiologico danno da privazione della libertà.

I principi fondamentali cui aver riguardo nella determinazione dell’indennizzo dovuto a colui che abbia subito una detenzione ingiusta sono stati chiariti da due pronunce rese dalle Sezioni Unite della suprema Corte, ossia la n. 1 del 13/01/1995, Castellani, e la n. 24827 del 09/05/2001, Caridi, seguite dalla successiva giurisprudenza di legittimità, alla cui stregua la liquidazione deve essere effettuata con criteri equitativi che postulano, ai fini dell’entità della riparazione, la valutazione congiunta dei criteri della durata della custodia cautelare e/o degli arresti domiciliari sofferti e delle conseguenze derivanti dalla privazione della libertà. La liquidazione va effettuata tenendo conto del parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo fissato dall’art. 315, secondo comma, c.p.p. e il termine massimo della custodia cautelare pari a sei anni ex art. 303, quarto comma, lett. c), c.p.p., espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subita. Il quantum è suscettibile di essere opportunamente integrato dal giudice, innalzando o riducendo il risultato di tale calcolo numerico nei limiti dell’importo massimo indennizzabile, per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alla specificità, positiva o negativa, della situazione concreta.

Pertanto, il giudice della riparazione ha il potere di determinare, nel rispetto della cifra massima stabilita dalla legge, l’ammontare dell’indennizzo, valorizzando lo specifico pregiudizio, di natura patrimoniale e non patrimoniale derivante dalla restrizione della libertà dimostratasi ingiusta, discostandosi dall’ammontare giornaliero. Tuttavia, lo scostamento deve trovare giustificazione in particolari specifiche ripercussioni in termini negativi sotto il versante patrimoniale, familiare, della vita di relazione, della pubblica ripercussione dell’evento che altrimenti non risulterebbero adeguatamente soddisfatte, quantomeno in termini di equo ristoro. Affinché l’equità non tracimi, però, in arbitrio incontrollabile, è necessario che il giudice individui in maniera puntuale e corretta i parametri specifici di riferimento, la valorizzazione dei quali imponga di rilevare un surplus di effetto lesivo da atto legittimo rispetto alle gravi ma ricorrenti e, per così dire, fisiologiche conseguenze derivanti dalla privazione della libertà, sia quale atto limitativo della sfera più intima e garantita del soggetto che come alone di discredito sociale.

Tra le più recenti pronunce sul punto vi sono la n. 32891 del 2020, Sez. quarta, Di Domenico, e la n. 18361 del 2019, Piccolo, la quale ha annullato con rinvio il provvedimento che aveva liquidato l’indennità in misura lievemente superiore rispetto a quella derivante dall’applicazione del criterio aritmetico, in un caso in cui l’istante aveva allegato gravi danni non patrimoniali, consistiti nell’arresto di una procedura adottiva, nell’impossibilità di assistere la madre gravemente malata e di partecipare ai suoi funerali, e in danni psicofisici.

La prima delle due citate sentenze, invece, in applicazione del principio di cui innanzi, ha annullato l’ordinanza impugnata con la quale era stato liquidato l’indennizzo utilizzando, quale unico parametro idoneo a compensare tutti gli effetti derivanti dall’ingiusta detenzione, il solo criterio aritmetico, senza un adeguato approfondimento motivazionale in merito alla perdita di chances lavorative, sebbene adeguatamente provate. La suprema Corte ha, in particolare, sostenuto che una implementazione dell’indennizzo con riferimento anche alla perdita di chances di natura professionale è giustificata dal richiamo, ex art. 315, terzo comma, c.p.p., alle disposizioni in materia di errore giudiziario, ex artt. 643 e ss. c.p.p., quanto agli elementi, conseguenze personali quindi anche professionali, oltre che familiari, di cui il giudice deve tener conto ai fini della decisione in guisa da soddisfare, nel conteggio conclusivo, le diverse “voci di danno” elencate dall’art. 643 c.p.p.

5. Differenze con l’istituto del “risarcimento del danno”  alla luce del temperamento del principio dispositivo tipico del processo penale

La riparazione per ingiusta detenzione si differenzia dal risarcimento del danno da illecito sia per il profilo sostanziale della non necessaria integralità del ristoro, desumibile dalla fissazione di un tetto limite ai sensi dell’art. 315, comma secondo, c.p.p., sia per il correlato profilo processuale dell’esclusione dell’onere della prova in merito all’entità del danno, desumibile dall’aggettivo “equa” utilizzato dal legislatore, ex art. 314, comma primo, c.p.p. . A quanto innanzi si aggiunge però la costante affermazione della giurisprudenza di legittimità per la quale, nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, il principio dispositivo per cui la ricerca del materiale probatorio necessario per la decisione è riservata alle parti, tra le quali si distribuisce in base all’onere della prova, è temperato dai poteri istruttori del giudice, il cui esercizio di ufficio, eventualmente sollecitato dalle parti, si svolge non genericamente, ma in vista di un’indagine specifica secondo un apprezzamento della concreta rilevanza al fine della decisione, insindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della correttezza del procedimento logico.

Corollari di tale principio non possono che essere l’onere della parte di allegare l’esistenza del danno, la sua natura e i fattori che ne sono causa e, d’altro canto, il dovere del giudice di prendere in esame tutte le allegazioni della parte in merito alle conseguenze della privazione della libertà personale e, dunque, di esaminare se si tratti di danni causalmente correlati alla detenzione e se sia stata fornita la prova, anche sulla base del fatto notorio o di presunzioni, di dette conseguenze ancorché non della relativa entità, operando il sistema indennitario innanzi descritto.

Il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è, tuttavia, sottratto al giudice di legittimità, che può solo verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento senza sindacare la sufficienza o insufficienza della indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta.

Resta fermo, a tale ultimo fine, l’obbligo del giudice della riparazione di specificare tanto i parametri utilizzati per la liquidazione di alcune conseguenze dannose quanto i criteri logico-giuridici che hanno condotta a negare la liquidazione di altre conseguenze allegate dal richiedente, al fine di non ancorare a parametri in astratto o non verificabili l’esito decisorio. Potendo, peraltro, per orientamento di legittimità ormai consolidato, essere il quantum ridotto in ragione dell’accertata colpa lieve, sinergica rispetto all’intervento dell’Autorità e/o al suo mantenimento.

6. La “riparazione per ingiusta detenzione” nell’ultima pronuncia della Corte di Cassazione n. 43097 del 2022: i presupposto di fatto

Ricostruendo, sinteticamente, la fattispecie concreta, la Corte d’appello di Napoli, quale giudice della riparazione ex art. 314 c.p.p., è stata chiamata a pronunciarsi sull’istanza avente ad oggetto il riconoscimento di un equo indennizzo per l’ingiusta detenzione, agli arresti domiciliari, patita dall'interessato in forza di ordinanza cautelare emessa con riferimento al reato di cui agli artt. 110 e 321 c.p., in merito al quale lo stesso era stato assolto con sentenza irrevocabile.

La Corte territoriale ha sussunto la fattispecie nell’ambito della c.d. “ingiustizia formale”, di cui all’art. 314, secondo comma, c.p.p., ritenendo accertato con decisione irrevocabile – con ordinanza emessa in sede di riesame oltre che la sentenza assolutoria – che il provvedimento che ha disposto la misura sia stato emesso e mantenuto in assenza delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 c.p.p., in particolare dei gravi indizi di colpevolezza, e che ciò sia emerso sulla base di una diversa valutazione delle medesime circostanze fondanti la misura cautelare.

In particolare, ritenuto accertato l’an del diritto all’equa riparazione nei termini di cui innanzi con riferimento a tutto il periodo trascorso dal richiedente agli arresti domiciliari, la Corte territoriale, a fronte di una richiesta di incremento del quantum giornaliero liquidabile, ha liquidato un equo indennizzo in diminuzione del 50% rispetto a quello emergente dal mero criterio aritmetico in considerazione dell’accertata colpa lieve, ritenuta sinergica rispetto all’intervento dell’autorità, argomentata dai fatti emergenti dalla sentenza. Nel dettaglio, la diminuzione finale del 50% è stata operata, in ragione della colpa lieve, tenendo già conto dell’incremento riconosciuto in ragione dell’essere stata, quella in esame, la prima esperienza detentiva per un soggetto incensurato oltre che le conseguenze degli effetti mediatici della notizia dell’applicazione della misura cautelare, diffusa con riferimento allo specifico nominativo dell’indagato.

Non sono stati, per converso, riconosciuti aumenti dell’indennizzo ancorché richiesti mediante la prospettazione di ulteriori conseguenze derivanti dallo stato di restrizione domiciliare sulla salute del ricorrente ed in merito ai di lui redditi.

Avverso l’ordinanza emessa dal giudice della riparazione l'istante ha, poi, promosso ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, articolando un unico motivo complesso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ex art. 173, primo comma, disp. att. c.p.p.

Il ricorrente, sostanzialmente, ha dedotto violazioni degli artt. 314 e 315 c.p.p. e vizi motivazionali tanto con riferimento al mancato riconoscimento di un maggiore indennizzo, nonostante le allegate ripercussioni negative degli arresti domiciliari sulla salute del richiedente e sui suoi redditi, quanto circa l’operata riduzione dell’importo liquidabile argomentata con riferimento alla colpa lieve in rapporto di sinergia con l’intervento dell’autorità.

6.1. Il necessario intervento nomofilattico delle Sezioni Unite quale ineludibile “paletto” sul punto della rilevanza o meno della “colpa lieve” nel caso di specie

Si è rilevato, ad opera dei giudici di legittimità, che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi suesposti laddove ha ritenuto non provate le ulteriori conseguenze sulla salute e sui redditi del richiedente prospettate come derivanti dagli arresti domiciliari ai quali lo stesso è stato sottoposto.

Sul punto, difatti, il giudice di merito ha argomentato, quanto ai prospettati danni alla salute, dall’assenza di prova dell’allegazione del richiedente in quanto supportata da una relazione neuropsichiatrica con diagnosi di “depressione ansioso reattiva”, quale “disturbo post-traumatico da stress esterno”, fondata sul racconto in sintesi della vicenda vissuta ma redatta, nel 2018, a distanza di ben nove anni dagli applicati arresti domiciliari ed in assenza di elementi circa l’eventuale ricorso al sostegno di specialisti del settore o all’assunzione di specifici farmaci nel contesto di riferimento ed in relazione a 23 giorni di arresti domiciliari. Parimenti sfornita di prova è stata ritenuta l’allegata riduzione dei redditi, di per sé sola ritenuta nella specie non determinante circa il nesso causale con l’intervento dell’autorità sostanziatosi in 23 giorni di arresti domiciliari.

Tuttavia, si è considerato meritevole di accoglimento, ancorché nei limiti e per quanto di seguito verrà evidenziato, il profilo del motivo unico di ricorso con il quale si critica il punto dell’ordinanza impugnata inerente alla rilevanza, ai fini del quantum dell'indennità liquidabile, tra l'accertata sussistenza della c.d. "ingiustizia formale", di cui all'art. 314, secondo comma, c.p.p., e la ritenuta rilevanza della colpa, nella specie lieve.

Per comprendere le motivazioni, logico-giuridiche, che hanno condotto la Corte di Cassazione ad accogliere il profilo appena illustrato, occorre effettuare una premessa: mentre la c.d. “ingiustizia sostanziale”, di cui all’art. 314, secondo comma, c.p.p., presuppone l’affermazione dell’innocenza del richiedente, la c.d. “ingiustizia formale” prescinde da tale accertamento e richiede solamente l’accertamento della illegalità del provvedimento restrittivo, assunto in difetto delle condizioni previste dagli artt. 273 e 280 del codice di rito, quindi anche in assenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel risolvere il dubbio interpretativo sul punto -  alla luce degli orientamenti ermeneutici che di seguito verranno analizzati - hanno precisato che la circostanza di aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità.

Nel caso dell’insussistenza originaria delle condizioni per l’adozione o il mantenimento della misura custodiale, infatti, l’obiettiva ingiustizia della detenzione subita può trovare scaturigine in comportamenti dolosi o gravemente colposi del richiedente. Sicché, attribuire rilevanza ostativa a tali condotte ben si concilia con il fondamento solidaristico dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, alla cui stregua è ragionevole che il ristoro assicurato dall’ordinamento sia riconosciuto a chi abbia “patito”, e non concorso a determinare, l’applicazione del provvedimento restrittivo.

Il citato intervento nomofilattico delle Sezioni Unite ha però condivisibilmente posto un ineludibile “paletto”.

Nel caso in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, difatti, è preclusa la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato. Ciò, evidentemente, in quanto in tali casi il giudice era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura e, pertanto, nessuna efficienza causale nella sua determinazione può attribuirsi al soggetto passivo. Per converso, dovrà invece valutarsi la sinergia causale del dolo o della colpa grave nel caso in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale sia avvenuto alla stregua di un materiale probatorio contrassegnato da diversità rispetto a quello originariamente detenuto dal giudice della cautela.

Quanto poi al riferimento che l’art. 314, secondo comma, c.p.p. fa, ai fini dell’operatività della riparazione per l’ipotesi di ingiustizia formale, alla “decisione irrevocabile”, con la quale risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura sia stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità, l’attuale dominante orientamento esclude che esso sia limitato a una decisione irrevocabile in fase cautelare, o, comunque, come nel giudizio direttissimo, con valenza cautelare.

Si ritiene difatti il riferimento esteso anche alle ipotesi di accertamento con decisione irrevocabile assunta all’esito del giudizio di merito sempre che, naturalmente, da essa si evinca la mancanza, sin dall’origine, delle condizioni di applicabilità della misura.

È stato, in particolare, evidenziato che una diversa interpretazione cozzerebbe con i principi affermati dalle Sezioni Unite in punto di rilevanza, ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione, anche degli accertamenti risultanti ex post e risulterebbe distonica con il fondamento solidaristico dell’istituto ripetutamente evidenziato anche dal giudice delle leggi, in particolare dalla Corte cost. nn. 231 e 413 del 2004.

6.1.1. I due diversi orientamenti in merito nella giurisprudenza di legittimità 

Questa soluzione, a cui sono pervenute le Sezioni Unite, è stata il frutto di un ponderato processo valutativo alla luce di orientamenti ermeneutici che si sono sviluppati all’interno della medesima Corte, e che qui verranno illustrati.

Secondo una prima tesi, nell’ipotesi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, pur non rilevando la condotta del richiedente sotto il profilo dell’an della riparazione in quanto priva di efficienza causale circa l’intervento dell’autorità ed il suo mantenimento, il giudice della riparazione è tenuto a valutare, al diverso fine della eventuale riduzione dell’entità dell’indennizzo, anche la condotta colposa lieve. Il giudice di merito, dunque, ravvisata la colpa lieve, deve adeguatamente motivare in ordine alla riduzione dell’indennizzo, che non dovrà comunque risultare spropositata.

La tesi in argomento motiva dalla ratio dell’istituto argomentando dalla sua ritenuta natura civilistica e, dichiaratamente, affonda radici profonde nella giurisprudenza di legittimità ma, per quanto in questa sede rileva, formatasi con riferimento all’ipotesi di insussistenza ab origine dei presupposti applicativi della misura cautelare accertata sulla base di una mera diversa valutazione degli elementi già esistenti al momento della sua adozione.

Il riferimento deve intendersi alla risalente tesi per cui «Il giudice investito dell’istanza per l’attribuzione di una somma di denaro a titolo di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, ha il dovere di verificare se la condotta dell’istante nel procedimento pende, nel caso del quale la privazione della libertà si verificò, sia connotabile di dolo o di colpa. La condotta colposa concorsuale può assumere varie gradazioni, che vanno da quella lieve, perché apprezzabile, a quella grave, idonea ad escludere il diritto all’indennizzo; nelle altre gradazioni, rispetto a quest’ultima, la colpa sinergia, sotto entrambi i profili considerabili, ossia l’emissione del provvedimento restrittivo e il perdurare della detenzione, non rimane insignificante, dovendo essere valutata ai fini della taxatio sul quantum debeatur in applicazione del principio generale di autoresponsabilità estraibile dalla lettura degli artt. 1227 e 2056 c.c., per il quale non è da indennizzare il pregiudizio causato, quanto meno per colpa, seppure lieve, dello stesso danneggiato».

Deve in questa sede, infine, evidenziarsi che, stante il fondamento che l’orientamento in esame pone alla base della tesi interpretativa, il quantum liquidabile sarebbe suscettibile di essere ridotto non solo nel caso della condotta lievemente colposa ma, a fortiori, in ragione di una condotta gravemente colposa o dolosa, ferma restando l’irrilevanza di essa ai fini del diritto all’indennizzo.

Per l’indirizzo interpretativo contrario, sostenuto da un maggior numero di decisioni, invece, nell’ipotesi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, il giudice della riparazione non può valutare la condotta colposa lieve neppure al diverso fine della eventuale riduzione dell’entità dell’indennizzo trattandosi di condotta priva di efficienza causale circa l’intervento dell’autorità.

6.1.2. La posizione delle Sezioni Unite

Dei due orientamenti  appena illustrati il collegio condivide il secondo.

Nel caso in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela è preclusa la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dell’indagato/imputato, sia essa dolosa ovvero gravemente o lievemente colposa, anche ai fini della determinazione del quantum d’indennizzo liquidabile. Proprio argomentando dalle citate Sezioni Unite n. 32383 del 2010, D’Ambrosio, deve difatti evidenziarsi che, in tali casi, il giudice era oggettivamente nelle condizioni di negare o revocare la misura in quanto nessuna efficienza causale rispetto all’adozione di essa può attribuirsi alla condotta del soggetto e, di conseguenza, che il comportamento del richiedente può dirsi aver avuto efficienza causale nel “determinismo dell’evento”, l’intervento cautelare, con conseguente possibilità di considerarlo ai fini della riduzione del quantum.

La condivisa lettura è peraltro in linea con la natura eminentemente solidaristica dell’istituto, evidenziata peraltro anche dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 446 del 1997, quale misura riparatoria e riequilibratrice, e in parte compensatrice, dell’ineliminabile componente di alea per la persona propria della giurisdizione penale, cautelare. Ciò comporta l’accollo per lo Stato di un onere riparatorio nei confronti di chi, per effetto di quell’esercizio è non anche della propria condotta, abbia subito una lesione del bene fondamentale della libertà personale. In tale situazione, quindi, sarebbe irragionevole un istituto che, da un alto, per “diritto vivente”, contempli la riparazione in ragione dell’assenza di efficienza causale dell’altro, riduca il quantum liquidabile in forza della medesima condotta priva della descritta efficienza causale. Né può infine argomentarsi in senso inverso dalla natura equitativa della riparazione senza finire con l’attribuire, irragionevolmente, all’equità una funzione non propria, quella di sopperire ad una nesso eziologico insussistente.

In forza di quanto evidenziato, circa i riflessi anche in merito alla determinazione del quantum liquidabile, ai fini delle verifiche di pertinenza del giudice della riparazione, diviene, quindi, particolarmente importante appurare se l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura cautelare sia avvenuto, vuoi nel procedimento cautelare vuoi nel procedimento di merito, sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela.

7. Conclusioni

Per concludere, a seguito di una "dovuta" -  per il lettore, soprattutto - ricostruzione del concetto di "riparazione", adottando la prospettiva sia dello storico che del giurista -  per certi aspetti "necessariamente" sovrapponibili - affinché si potesse cogliere la natura dell'istituto oggetto della pronuncia summenzionata, "inseguendolo" nelle sue linee evolutive, si è individuata, e illustrata, attraverso il criterio topografico, la disciplina codicistica di tale strumento, riconducibile ai mezzi di impugnazione contro le misure cautelari personali.

In particolare, si è, in buona fede, utilizzata la recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, in materia di "equa riparazione" per ingiusta detenzione, per cogliere i risvolti applicativi, e le criticità, che questo istituto presenta nel concreto, ricostruendo come la giurisprudenza di legittimità, tra i diversi orientamenti ermeneutici, tutti indiscutibilmente "affascinanti" e persuasivi, da un punto di vista giuridico, sia riuscita ad addivenire ad una soluzione univoca, adottando pur sempre principi e categorie del diritto positum, ossia scritto.

Nel caso di specie, sono state statuite le modalità di determinazione dell'indennizzo liquidabile in presenza delle condizioni suesposte, e che qui verranno riassunte: al fine di valutare la sussistenza della c.d. “ingiustizia formale” di cui all’art. 314, secondo comma, c.p.p., il giudice non deve sostituirsi alla “decisione irrevocabile” nell’accertare l’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura ma deve evincere, dalla decisione di merito, l’intervenuto accertamento della detta insussistenza ab origine, in considerazione della ragioni fondanti e dei sottesi percorsi logico-giuridici. Il giudice della riparazione, poi, a cui compete la verifica, anche d’ufficio, dell’insussistenza della condotta ostativa del richiedente, in quanto elemento negativo del diritto all’indennizzo, in caso di ingiustizia formale, deve valutare se la decisione irrevocabile dalla quale risulti accertata l’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura sia avvenuta sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela ma in ragione unicamente di una loro diversa valutazione.

Orbene, alla luce del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione è emerso che la Corte territoriale ha commesso un errore nel ritenere rilevante, ai fini del quantum dell’indennizzo, l’accertata colpa lieve in fattispecie caratterizzata dalla c.d. “ingiustizia formale” per l’assenza, sin dall’inizio, della gravità indiziaria ma argomentata da una diversa valutazione dei medesimi elementi posti alla base dell’ordinanza cautelare, e, pertanto, l’ordinanza oggetto di ricorso, avendo errato nel dare rilievo al profilo della colpa lieve ai fini della determinazione del quantum liquidabile ex artt. 314 e 315 c.p.p., si considera da annullarsi con rinvio per nuovo giudizio perché il principio innanzi esplicitato venga applicato.

In allegato l'articolo integrale con note


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