Stranieri, immigrati  -  Redazione P&D  -  15/09/2021

Il principio del “beneficio del dubbio” nella valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di un richiedente asilo - Cristiano Ditonno

Ricorrenza del diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. c) D.lgs. 251/2007 di un cittadino del Burkina Faso.

Commento a Tribunale di Lecce, Sez. Specializzata Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’unione europea, ordinanza 30/10/2020

Massima:

“Qualora all’esito del vaglio di credibilità, eseguito secondo i criteri di cui innanzi, dovessero permanere dubbi e margini di incertezza rispetto ad alcuni dettagli della narrazione, può trovare applicazione il principio del beneficio del dubbio, rammentando che la funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale è quella - del tutto autonoma dalla precedente fase amministrativa - di accertare la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle forme di asilo previste dalla legge (cfr. Cass., n. 7599/2020) e oggetto del giudizio è pur sempre la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua dignità di essere umano” (cfr. Cass., n.8819/2020) (Tribunale di Lecce, Sez. Specializzata Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’unione europea, ordinanza 30/10/2020).

“Per quanto concerne il diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14 lett. c) D.lgs. n. 251/2007, si evidenza che in Burkina Faso, Paese di provenienza del ricorrente, si rilevano conflittualità tali da giustificare la concessione della misura richiesta, potendo rilevare che la zona interessata sia caratterizzata da una violenza indiscriminata e diffusa ed, in generale, che nel paese d’origine vi sia un livello di violenza così elevato da comportare per i civili, per la sola presenza nell’area in questione, il concreto rischio della vita, alla stregua delle informazioni acquisite e suesposte” (Tribunale di Lecce, Sez. Specializzata Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’unione europea, ordinanza 30/10/2020).

I. Il caso.

Con ricorso dell’11/09/2018, il sig. omissis, cittadino straniero, di nazionalità del Burkina Faso, impugnava, innanzi al Tribunale Civile di Lecce, il provvedimento di diniego della protezione internazionale, emesso dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione internazionale di Bari, chiedendone l’annullamento ed il consequenziale riconoscimento dello status di rifugiato ovvero, in via gradata, della protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c) del D.Lgs. 251/2007 o della protezione umanitaria ai sensi dell’art. 5, comma 6 del D.Lgs. 286/98.

Egli aveva dichiarato di essere orfano di entrambi i genitori e di aver lasciato in patria due figli, attualmente con la madre. Il ricorrente affermò di aver vissuto per la maggior parte della propria vita in Costa d’Avorio insieme allo zio. Dopo l’uccisione dello zio, il ricorrente tornò in Burkina Faso, ospite dei parenti del padre. Questi ultimi cercarono di coinvolgerlo in riti magici, ma lui rifiutò, poiché musulmano, e decise di andare via da casa e di prendere un piccolo appartamento per conto suo. Lì rimase sino a quando un suo amico, di professione militare, gli propose di seguirlo ad Ouagadougou dove, secondo lui, avrebbero avuto migliori opportunità di vita e di lavoro. Nel Paese scoppiò una rivolta popolare contro la dittatura e l’amico, richiamato alle armi, partì senza più tornare. La situazione in Burkina Faso apparse sin da subito drammatica come in Costa d’Avorio e, pertanto, il richiedente decise di fuggire per evitare di fare la stessa fine dello zio. Quindi, con l’aiuto di un amico, raggiunse il Niger e, successivamente, attraversò il deserto ed entrò in Libia e, successivamente, in Italia, dove presentò domanda di protezione internazionale.

Nel ricorso, il richiedente eccepiva la ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c) del D.Lgs. 251/2007, riportando le C.O.I. relative al Burkina Faso, dalle quali v’era prova degli scontri e delle violenze conseguenti al colpo di Stato occorso nel 2015, impugnando il provvedimento della Commissione Territoriale nella parte in cui lo escludeva dall’onere agevolato della prova per inattendibilità delle dichiarazioni rese durante l’audizione personale.

Il Ministero restava contumace e, con ordinanza camerale del 30/10/2020, il Tribunale di Lecce accoglieva il ricorso e riconosceva al richiedente la protezione sussidiaria.

II. La decisione. Premessa metodologica.

Nel decidere sulla domanda, il Tribunale propone un’interessante premessa metodologica, attraverso la quale viene a ribadire alcuni principi già cristallizzati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di cooperazione istruttoria del giudice, di onere agevolato della prova, e coerentemente con essi, del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo.

A mente degli artt. 3 del D.lgs. n. 251/2007, 8 comma 3 e 27 comma 1 bis del D.lgs. n. 25/2008, attuativi delle Direttive 2005/85/CE (direttiva procedure) e 2004/83/CE (direttiva qualifiche), nei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale assumono preminente rilievo i due connessi temi dell’onere probatorio del richiedente e del potere-dovere di cooperazione istruttoria del giudicante.

Se da un lato, infatti, “il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessaria a motivare la medesima domanda” (art. 3, comma 1 D.lgs. n.251/2007), dall’altro, il giudicante è tenuto ad esaminare “ciascuna domanda…alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art.38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative” (art. 8 comma 3 D.lgs. N. 25/2008).

L’esame di “tutti gli elementi significativi della domanda” (art. 3 comma 1 cpv. D.lgs. n.251/2007) deve avvenire in cooperazione con il richiedente (art. 4 direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011), giacché questi è tenuto a produrre “tutti gli elementi necessari a motivare la domanda”, spettando, allo Stato membro interessato cooperare con lui nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. 

Secondo il giudice, detto obbligo di cooperazione implica che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente non risultino esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente, rivestendo una posizione più adeguata all’accesso a determinati documenti e informazioni (Corte Giust. UE 22 novembre 2012 n. 277/11). 

Ciò, peraltro, non vuol dire, come ampiamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (da ultimo cfr. Cass., n. 15797/2019 e n.16028/2019), che la domanda di protezione internazionale resti sottratta all’applicazione del principio dispositivo di cui all’art. 115 C.P.C.

Tale principio, tuttavia, subisce una sensibile attenuazione, nel senso che, pur incombendo al richiedente asilo l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto alla richiesta protezione, resta potere-dovere del giudice colmare le lacune informative della domanda in modo coerente e pertinente con essa, avvalendosi in ciò dei poteri di indagine e di informazione di cui al comma 3 dell’art. 8 cit.

Va sottolineato, invero, che il dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudicante non è correlato a fatti e circostanze non dedotti o allegati dal ricorrente (cfr. Cass., 2355/2020) perché detto dovere viene ad incidere esclusivamente sull’onere probatorio e non su quello dell’allegazione (cfr. Cass., n. 19197/15; Cass., n. 11103/2019; Cass., n. 21275/19; Cass., n. 7541/2020), di talché non va confuso l’onere probatorio attenuato con un inesistente onere di allegazione attenuato (cfr. Cass., n.13088/2019).

Il richiedente sarà, infatti, sempre tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto azionato, essendo l’unico soggetto, ovviamente, ad essere in possesso di tutte le notizie relative alla propria storia personale, quali quelle “in merito alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti se rilevante ai fini del riconoscimento, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande di asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di identità e di viaggio, nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (art. 3, comma 2 D. lgs n.251/2007).

Ciò implica che il giudice non potrà “supplire attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi alle decisioni probatorie del ricorrente” (cfr. Cass. n. 3016/2019; n.30969/2019; n. 27336/2018; Cristiano Ditonno, “Il principio di cooperazione istruttoria nel processo in materia di protezione internazionale”, in Altelex.com, 28/11/2020).

Nell’esame della domanda, il giudice sarà, pertanto, tenuto ad una rigorosa valutazione, su base individuale di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine al momento dell’adozione della decisione; delle dichiarazioni e della documentazione pertinente presentata dal richiedente, che deve almeno dedurre in relazione alle due domande di protezione maggiore se ha subito o rischia di subire persecuzione o danni gravi (ad es. in relazione alla fattispecie di cui all’art. 14, lett. c) D.lgs n. 251/2007, deve quanto meno allegare l’esistenza di un conflitto armato o di violenza indiscriminata cfr. Cass. n. 3016/2019); della situazione individuale e le circostanze personali del richiedente; dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente, dopo aver lasciato il Paese d’origine, abbiano mirato, esclusivamente o principalmente, a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; dell’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino (art. 3, comma 3 del D.lgs n.251/2007).

In difetto di prova, la valutazione della credibilità delle dichiarazioni del richiedente dovrà avvenire alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva previsti dall’art. 3 comma 5 del D.lgs. n. 251/2007, secondo il quale, “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente siano da ritenersi coerenti, plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è in generale attendibile…”.

Ebbene, il giudizio sull’attendibilità del richiedente si esaurisce in un apprezzamento di fatto attraverso il quale il giudice sottopone le dichiarazioni del richiedente sia ad un controllo di coerenza interna (sufficienza di dettagli e specificità del racconto, plausibilità) che esterna (coerenza con le informazioni fornite da altri testimoni, da documenti offerti o altre prove acquisite) ma, soprattutto, ad una “verifica di credibilità razionale” della vicenda posta a base della domanda (cfr. Cass.., n. 1195/2020), vale a dire della sua coerenza e plausibilità (cfr. Cass., n. 6897/2020).

Detta valutazione di credibilità deve inerire tutti gli elementi complessivamente considerati e non in maniera atomistica (cfr. Cass., n. 10908/2020; n. 7546/2020, n. 7599/2020; n. 8819/2020), in quanto “la valutazione di credibilità non può essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari…quando invece viene trascurato un profilo decisivo e centrale del racconto” (cfr. Cass., n. 10908/2020).

Peraltro, secondo il Tribunale, il dovere di cooperazione istruttoria dovrà, in linea generale, precedere e non seguire la valutazione di attendibilità, dovendo esso ritenersi sussistente “anche in presenza di una narrazione dei fatti attinente alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile” (cfr. Cass., n. 2954/2020; Cass., n. 3016/2019, in relazione alla fattispecie di cui all’art. 14 lett. c) D.lgs n. 251/2007).

La cooperazione istruttoria officiosa serve, infatti, proprio per giudicare la credibilità del racconto che il giudice, evidentemente, non può valutare se non a posteriori, all’esito degli accertamenti disposti. Tanto è vero che, secondo la Cassazione, tale incombente potrebbe essere eluso solo nel caso di manifesta falsità delle dichiarazioni rese dal richiedente (cfr. Cass., n. 8819/2020).

Ciò non di meno, qualora all’esito del vaglio di credibilità, eseguito secondo i criteri di cui innanzi, dovessero permanere dubbi e margini di incertezza rispetto ad alcuni dettagli della narrazione, dovrà trovare applicazione il principio del beneficio del dubbio. 

Invero, “la funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale è quella - del tutto autonoma dalla precedente fase amministrativa - di accertare la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle forme di asilo previste dalla legge” (cfr. Cass., n. 7599/2020) e “oggetto del giudizio è pur sempre la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua dignità di essere umano” (cfr. Cass., n. 8819/2020).

Ciò implica, secondo l’interessante motivazione del giudice di Lecce, che la regola probatoria nei procedimenti per la protezione internazionale non può essere quella tipica del processo ordinario, per cui “actore non probante reus absolvitur”, ma piuttosto quella, “in dubio pro actore”.

In tal modo, il giudice potrà dare piena attuazione ai principi dell’onere agevolato della prova e della cooperazione istruttoria, che, altrimenti, non risulterebbero funzionali e consoni al giudizio valutativo da compiere.

Tale criterio, unitamente agli altri previsti dal Legislatore nell’esame della domanda, tiene conto della peculiare fragilità di un richiedente asilo che presumibilmente fugge dal proprio Paese per questioni di vita o di morte, della consequenziale difficoltà di munirsi di opportuni mezzi probatori delle ragioni poste a supporto della domanda di protezione internazionale, delle differenze linguistiche e culturali, della generale vulnerabilità del richiedente protezione internazionale.

L’interpretazione metodologica offerta dal giudice di Lecce si palesa, quindi, funzionale a tutto il sistema normativo su cui le valutazioni di credibilità e di fondatezza della domanda devono fondarsi e sulla concretezza cui tali valutazioni devono tendere, in vista della tutela di un bene fondamentale della persona, quale la vita stessa.

In tale prospettiva, risulterebbe incostituzionale e del tutto irricevibile anteporre un’applicazione radicale dell’onere probatorio ad una valutazione tesa alla salvaguardia di un bene assoluto, quale la sicurezza del migrante.

III. La decisione. Il merito.

In attuazione del suddetto principio di cooperazione istruttoria, il Tribunale di Lecce ha posto alla base della propria decisione di merito le C.O.I. sul Burkina Faso personalmente acquisite, giungendo ad affermare il diritto del richiedente alla protezione sussidiaria, ai sensi della lettera c) dell’art. 14 del D.Lgs. 251/2007.

Ebbene, l’art. 2, lett. g) ed h) del D.lgs. n. 251/2007, definisce quale “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” qualsivoglia “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese d’origine (o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale), correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto ed il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

A mente dell’art. 14, “sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese d'origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

La disposizione prevede ipotesi soggettive di pericolo ed ipotesi oggettive.

In particolare, con riferimento alle ipotesi di rischio di condanna a morte (lett. a) o trattamento inumano o degradante (lett. b), affinché al richiedente possa essere accordata la protezione sussidiaria, i termini “condanna a morte” o “l’esecuzione”, nonché “la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente” devono riguardare un rischio di danno riferito alla particolare (individuale) posizione del richiedente, essendovi un’evidente differenziazione tra questo rischio di danno e quello derivante da situazioni di violenza generalizzata.

Risulterebbe, quindi necessario che, dal complesso della vicenda posta a base della domanda, emergesse l’esistenza di un fondato rischio per il richiedente di essere esposto a simili sanzioni a causa della propria situazione specifica, non risultando, di contro, rilevante l’eventuale rischio di “trattamenti inumani o degradanti” derivante da una situazione di violenza generalizzata alla quale potrebbe essere esposta tutta la popolazione di una determinata zona.

Su tale valutazione non inciderebbe neppure l’eventuale mancata o inadeguata tutela nel Paese d’origine per la risoluzione di controversie tra privati, non potendo assurgere di per sé sola a causa idonea ad integrare la fattispecie del danno grave ed essendo in contrasto col principio secondo il quale “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (consid. 26 della direttiva n.2004/83/CE).

Peraltro, le due forme di protezione maggiori, costituendo diretta attuazione del diritto costituzionale d’asilo (cfr. Cass., n. 11110/2019), sono riconoscibili allo straniero al quale sia pur sempre “impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche” (art. 10 comma 3, Cost.); ipotesi questa estranea in vicende non di carattere generale ma di carattere privato (cfr. Cass., n. 9043/2019).

L’ipotesi prevista dall’art. 14, lettera c) assume, di converso, carattere oggettivo e, come tale, è tutelabile indipendentemente dalle specifiche allegazioni del ricorrente. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, “in tema di protezione sussidiaria dello straniero prevista dall’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno od internazionale, non è subordinata alla condizione che lo straniero fornisca la prova di essere interessato in modo specifico a motivo di elementi che riguardino la sua persona, ma sussiste anche qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti, raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che il rientro dello straniero lo sottoponga, per la sola presenza sul territorio, al rischio di subire concretamente gli effetti della minaccia” (Cass., ord. n. 18130/2017).

Nel caso di specie, il Collegio, pur ritenendo credibili le dichiarazioni fornite dal ricorrente in ordine alla propria nazionalità ed al luogo di provenienza, aveva espresso un giudizio di non credibilità quanto alle ragioni che lo avrebbero indotto a lasciare il proprio Paese.

Ciò non di meno, nell’esercizio del proprio dovere di cooperazione istruttoria – pienamente applicabile nelle ipotesi di cui all’art. 14, lett. c) D.Lgs. n. 251/2007 (si veda Cristiano Ditonno, “il principio di cooperazione istruttoria nel processo in materia di protezione internazionale”, in Altalex.com, 28/11/2020) – il Tribunale di Lecce ha riscontrato in Burkina Faso “conflittualità tali da giustificare la concessione della misura richiesta, potendo rilevare che la zona interessata sia caratterizzata da una violenza indiscriminata e diffusa ed, in generale, che nel paese d’origine vi sia un livello di violenza così elevato da comportare per i civili, per la sola presenza nell’area in questione, il concreto rischio della vita, alla stregua delle informazioni acquisite e suesposte” (si vedano, quanto alle ragioni specifiche, le C.O.I. riportate nell’ordinanza sotto allegata).

N. omissis/2018 R.G.

TRIBUNALE DI LECCE

Sezione Specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’unione europea

Il Tribunale di Lecce, in composizione collegiale, riunito in camera di consiglio nelle persone dei magistrati:

dr.ssa Piera Portaluri Presidente Rel.

dr. Antonio Barbetta Giudice

dr.ssa Eleonora Guido Giudice

nella procedura iscritta al n. 8766/2018 R.G. promossa

DA

Omissis (Vestanet N. Omissis, C.F. Omissis) nato a Koudougou, Regione del Centro-Ovest (Burkina Faso) in data 01/10/1994, rappresentato e difeso dall’avv. Cristiano Ditonno, presso il cui studio ha eletto domicilio.

RICORRENTE

nei confronti di

MINISTERO DELL’INTERNO in giudizio col Presidente della Commissione territoriale per il riconoscimento della Protezione internazionale di Bari

RESISTENTE

con l’intervento del PUBBLICO MINISTERO

ha pronunziato il presente

DECRETO

avente ad oggetto: ricorso ex artt. 35 e 35 bis D.lgs. n. 25/2008 e 737 e ss. cpc

PREMESSE IN FATTO

Con ricorso depositato il giorno 11/09/2018, il ricorrente come sopra identificato ha proposto ricorso avverso la decisione emessa il 02/07/2018 e notificata il 24/08/2018, con la quale la Commissione territoriale di Bari ha rigettato la domanda di protezione internazionale, concludendo in via principale per il riconoscimento dello status di rifugiato ed in subordine per la protezione sussidiaria ovvero per la trasmissione degli atti al Questore per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5 comma 6 d.lgs. 286/98.

Non si è costituito il Ministero dell’Interno – Commissione territoriale di Bari, e se ne dichiara pertanto la contumacia.

È intervenuto il Pubblico Ministero il quale ha reso il parere di rito.

Dal certificato del casellario giudiziale non risultano precedenti penali; non risultano inoltre carichi pendenti presso la Procura della Repubblica di Lecce; dall’informativa pervenuta dalla Questura non si evincono precedenti di polizia a carico del ricorrente.

All’udienza del 30/10/2020, previa discussione delle parti presenti in aula, il Giudice Onorario delegato ha rimesso il fascicolo alla Presidente Relatrice per riferire al Collegio per la decisione.

RAGIONI DELLA DECISIONE

PREMESSA METODOLOGICA: Sull’esame della domanda e sui criteri di valutazione degli elementi

In virtù delle norme di cui all’art. 3 del D.lgs. n. 251/2007 ed agli artt. 8 comma 3 e 27 comma 1 bis D.lgs. n.25/2008, attuative delle Direttive 2005/85/CE (direttiva procedure) e 2004/83/CE (direttiva qualifiche), nei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale assumono preminente rilievo i due connessi temi dell’onere probatorio del richiedente e del potere-dovere di cooperazione istruttoria del giudicante.

Se da un lato, infatti, “Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessaria a motivare la medesima domanda” (art. 3, comma 1 D.lgs. n.251/2007), dall’altro, il giudicante è tenuto ad esaminare “ciascuna domanda…alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art.38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative” (art. 8 comma 3 D.lgs. N.25/2008).

Indubbio dunque che l’esame di “tutti gli elementi significativi della domanda” (art. 3 comma 1 cpv. D.lgs. n.251/2007) debba avvenire, in cooperazione con il richiedente (art. 4 direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011), in quanto, benché quest’ultimo sia tenuto a produrre “tutti gli elementi necessari a motivare la domanda” “spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica pertanto concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente una protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente con il richiedente […]. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a certi documenti” (Corte Giust. UE 22 novembre 2012 n.277/11). 

Ciò, peraltro, non vuol dire, come ampiamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (da ultimo cfr. Cass., n.15797/2019 e n.16028/2019), che la domanda di protezione internazionale resti sottratta all'applicazione del principio dispositivo, codificato nel nostro ordinamento dall’art. 115 del codice di rito.

Tale principio, tuttavia, subisce una sensibile attenuazione, nel senso che, pur incombendo al richiedente asilo l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto alla richiesta protezione, resta potere-dovere del giudice colmare le lacune informative della domanda in modo coerente e pertinente con essa, avvalendosi in ciò dei poteri di indagine e di informazione di cui al comma 3 art. 8 come innanzi richiamato.

Va sottolineato, invero, che il dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudicante non è correlato a fatti e circostanze non dedotti o allegati dal ricorrente (cfr. Cass., 2355/2020) perché detto dovere viene ad incidere esclusivamente sull’onere probatorio e non su quello dell’allegazione (cfr. Cass., 19197/15; Cass., n11103/2019; Cass., n.21275/19; Cass., n.7541/2020), di talché non va confuso l’onere probatorio attenuato con un inesistente onere di allegazione attenuato (cfr. Cass., n.13088/2019).

I fatti costitutivi del diritto azionato - si ripete - devono necessariamente essere indicati dal richiedente perché anche su di lui grava il dovere di cooperazione di cui al citato decreto del 2007, essendo l’unico soggetto, ovviamente, ad essere in possesso di tutte le notizie relative alla sua storia personale: “in merito alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti se rilevante ai fini del riconoscimento, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande di asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di identità e di viaggio, nonché i motivi della sua domanda di protezione internaziOonale” (art. 3, comma 2 D. lgs n.251/2007).

Il giudice, in altri termini, non può “supplire attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi alle decisioni probatorie del ricorrente” (cfr. Cassaz. n.3016/2019; n.30969/2019; n.27336/2018).

Nell’esame della domanda il giudice è, quindi, tenuto alla valutazione rigorosa, su base individuale di:

a) tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine al momento dell’adozione della decisione;

b) le dichiarazioni e la documentazione pertinente presentata dal richiedente, che deve almeno dedurre in relazione alle due domande di protezione maggiore se ha subito o rischia di subire persecuzione o danni gravi; ad es. in relazione alla fattispecie di cui all’art. 14, let.c D.lgs n251/2007 deve quanto meno allegare l’esistenza di un conflitto armato o di violenza indiscriminata (cfr. Cassaz. n.3016/2019);

c) la situazione individuale e le circostanze personali del richiedente;

d) l’eventualità che le attività svolte dal richiedente, dopo aver lasciato il Paese d’origine, abbiano mirato, esclusivamente o principalmente, a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese;

e) l’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino (art. 3, comma 3 D.lgs n.251/2007).

La valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, in difetto di prova, deve avvenire alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva previsti dal dall’art. 3 comma 5 del D.lgs. n.251/2007, il quale, in parziale deroga all’art. 2697 cod. civ., così stabilisce:

“Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che:

a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda;

b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

c) le dichiarazioni del richiedente siano da ritenersi coerenti, plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;

d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla;

e) dai riscontri effettuati il richiedente è in generale attendibile…”.

Il giudizio sull’attendibilità del richiedente si esaurisce in un apprezzamento di fatto attraverso il quale il giudice sottopone le dichiarazioni del richiedente non solo ad un controllo di coerenza interna (sufficienza di dettagli e specificità del racconto, plausibilità) ed esterna (coerenza con le informazioni fornite da altri testimoni, da documenti offerti o altre prove acquisite) ma, soprattutto, ad una “verifica di credibilità razionale” della vicenda posta a base della domanda (cfr. Cass., n. 1195/2020), vale a dire della sua coerenza e plausibilità (cfr. Cass., n.6897/2020).

Con la precisazione, stando agli orientamenti più recenti della Suprema Corte, che “la valutazione di credibilità” deve riguardare tutti gli elementi complessivamente considerati e non in maniera atomistica (cfr. Cass., n.10908/2020; n.7546/2020, n. 7599/2020; n.8819/2020), perché “la valutazione di credibilità non può essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari…quando invece viene trascurato un profilo decisivo e centrale del racconto” (cfr. Cass.,10908/2020).

Non solo: il dovere di cooperazione istruttoria deve, in linea generale, precedere e non seguire la valutazione di attendibilità perché esso deve ritenersi sussistente “anche in presenza di una narrazione dei fatti attinente alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile” (cfr. Cass., n.2954/2020; Cass., 3016/2019 in relazione alla fattispecie di cui all’art. 14 lett. c) D.lgs n.251/2007).

Difatti, la cooperazione istruttoria officiosa serve proprio per valutare la credibilità del racconto che il giudice, evidentemente, non può valutare se non ex post, all’esito degli accertamenti disposti, e detto obbligo può essere eluso dal giudicante solo in ipotesi di manifesta falsità delle dichiarazioni rese dal richiedente (cfr. Cass., n.8819/2020),

Va rilevato, infine, che, qualora all’esito del vaglio di credibilità, eseguito secondo i criteri di cui innanzi, dovessero permanere dubbi e margini di incertezza rispetto ad alcuni dettagli della narrazione, “può trovare applicazione il principio del beneficio del dubbio” rammentando che “la funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale è quella - del tutto autonoma dalla precedente fase amministrativa - di accertare la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle forme di asilo previste dalla legge” (cfr. Cass., n. 7599/2020) e “oggetto del giudizio è pur sempre la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua dignità di essere umano” (cfr. Cass., n.8819/2020).

La regola probatoria nei procedimenti per la protezione internazionale non può dunque essere quella tipica del processo ordinario per cui “actore non probante reus absolvitur”, bensì quella, “in dubio pro actore”.

Le dichiarazioni del ricorrente

Il ricorrente, in sede di audizione personale dinanzi alla Commissione, premesso di essere cittadino del Burkina Faso, nato a Kombassere, Regione Centro-Orientale, di religione musulmana ed etnia mossi, di aver frequentato la scuola per 3 anni, di aver lavorato come venditore ambulante e aiuto muratore, di essere figlio unico e orfano di entrambi i genitori, di essere di stato di famiglia celibe pur essendo padre di due gemelli; ha dichiarato di aver lasciato il proprio Paese a causa dell’incerta situazione di sicurezza.

In particolare, in sede di audizione presso la Commissione ha dichiarato di essersi trasferito all’età di 9 anni in Costa d’Avorio, assieme allo zio materno. Nel 2011, alla morte dello zio durante lo scoppio della guerra, il ricorrente sarebbe tornato in Burkina Faso, dove sarebbe stato ospite dei parenti del padre. Non trovandosi d’accordo con i riti magici praticati dai familiari, il ricorrente avrebbe deciso di andare a vivere da solo affittandosi una stanza, e provvedendo per se stesso con la vendita di Cola.

A distanza di poco tempo, avrebbe conosciuto un militare che gli avrebbe proposto di trasferirsi nella capitale, Ouagadougou, dove avrebbe trovato migliori opportunità di lavoro. A distanza di due settimane, con lo scoppio di una rivolta del popolo contro il Governo, in un tentativo di colpo di Stato da parte del generale Diendere contro il Presidente Blaise, l’amico militare sarebbe stato chiamato in servizio, mentre il ricorrente, temendo che la situazione potesse degenerare come in Costa d’Avorio, si sarebbe trasferito a Kankiari, su consiglio dell’autista dell’amico. Due giorni dopo, a settembre 2015, il ricorrente avrebbe deciso di recarsi ad Agades, unendosi nel viaggio all’autista dell’amico. Non trovando alcuna occupazione lavorativa in Niger, il ricorrente avrebbe deciso di proseguire il viaggio fino in Libia da dove si sarebbe imbarcato arrivando infine in Italia il 18/11/2016.

Gli elementi acquisiti d’ufficio – Le informazioni sul Paese di origine

Storia recente

Il Burkina Faso, noto fino al 1984 come Alto Volta, è uno Stato dell'Africa occidentale privo di sbocchi

sul mare, confinante con il Mali a nord, il Niger a est, il Benin a sud-est, il Togo e il Ghana a sud e la Costa d'Avorio a sud-ovest.

Dopo l’indipendenza dalla Francia raggiunta nel 1960, la vita politica del Paese è stata caratterizzata da una serie di colpi di stato fino all’arrivo, nel 1987, di Blaise Compaoré, che ha continuato a governare per ventisette anni prima di essere rovesciato da una rivolta popolare nel 2014. Roch Marc Christian Kaboré, che è stato primo ministro e presidente del Parlamento sotto il Presidente Blaise Compaoré, ha vinto le elezioni presidenziali del novembre 2015 e la rielezione presidenziale del 22 novembre 2020, con il 57,87

per cento dei voti.

Fino a qualche anno fa, il Burkina Faso aveva la reputazione di essere un Paese relativamente pacifico e stabile in una regione caratterizzata da una situazione di sicurezza volatile. L'estremismo violento aveva infatti avuto un impatto ben più significativo in altri Stati del Sahel e dell'Africa occidentale, soprattutto alla luce del conflitto in Mali e dell'aumento della violenza terroristica nel nord della Nigeria. La relativa stabilità del Burkina Faso ha fatto sì che il Paese abbia attirato meno attenzione dei suoi vicini nei dibattiti internazionali e regionali sulla sicurezza.

A partire dal 2015, anno in cui Kaboré ha assunto la presidenza del Paese, il Burkina Faso ha conosciuto però un’esponenziale crescita del proselitismo jihadista e delle attività terroristiche, agevolate nel loro incremento e nel loro sviluppo dalla vicinanza dei fronti jihadisti in Mali e Niger, nonché dalla precarietà della situazione economica e politica nazionale. Al pari degli altri Paesi del Sahel, anche il Burkina si è trasformato nel teatro delle operazioni di Jama'a Nusrat ul-Islam wa al- Muslimin' (JNIM) o Gruppo per la Salvaguardia dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), il cartello jihadista nato nel 2017 e che riunisce i gruppi armati salafiti attivi nella regione e precisamente: la brigata sahariana di al- Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), al-Morabitoun, Ansar al-Din, il Fronte di Liberazione di Macina (FLM) e Ansarul Islam. Quest’ultimo è un movimento jihadista squisitamente burkinabè, fondato nel novembre 2016 da Malam Ibrahim Dicko, un predicatore attivo nella regione di Soum e allievo di Amadou Kouffa, fondatore del Fronte di Liberazione di (BBC, Burkina Faso Country Profile, url France24, “Burkina Faso’s Kaboré wins re-election, according to full preliminary results”, 26/11/2020, url Macina (Macina Liberation Front), oggi noto come Macina of Jama'a Nusrat ul-Islam wa al- Muslimin3).

Come gli osservatori hanno riportato anche alla luce degli eventi degli ultimi anni, il Burkina Faso vulnerabile alla minaccia dell'estremismo violento a cagione della prevalenza nel Paese di condizioni strutturali, o "fattori di spinta", che aumentano il rischio di estremismo violento. I push factors cui si fa riferimento comprendono fattori politici come la corruzione endemica e l'impunità per le élite, ma anche fattori socioeconomici come le aspettative frustrate dei cittadini, le privazioni relative e i bisogni economici e sociali insoddisfatti, e infine i fattori culturali, compresi quelli religiosi. In aggiunta ai già citati "fattori di spinta", si rileva poi la presenza di "fattori di attrazione" o pull factors, derivanti dalle ricadute della violenza estremista nella regione, dalla radicalizzazione tra individui o gruppi a livello nazionale e dalla presenza di estremisti stranieri, cioè provenienti da altre aree geografiche. Il Burkina Faso risulta quindi particolarmente vulnerabile all'estremismo violento e già nel 2014 il governo del Paese ha messo in

atto, spesso con il supporto di partner regionali e internazionali, alcune misure antiterrorismo appositamente disegnate per compensare questa vulnerabilità. Il mantenimento della pace e della sicurezza in Burkina Faso è di capitale importanza anche in un’ottica regionale, dal momento che una crisi nel Paese è destinata ad avere un impatto tangibile sulle dinamiche geopolitiche e di sicurezza dell’intera regione.4 Le elezioni presidenziali e parlamentari si sono tenute il 22 novembre 2020. Il presidente in carica Roch Marc Kaboré (Mouvement du peuple pour le progrès, MPP), si è assicurato il 57,87% dei voti. Apparentemente Kaboré ha ricevuto 13.000 voti in meno rispetto a cinque anni fa. Va notato, tuttavia, che l'affluenza alle urne questa volta è stata solo del 50% circa (2015: 60%). I resoconti dei media indicano che più di 1.300 seggi elettorali sono rimasti chiusi a causa di problemi di sicurezza. La commissione elettorale ha persino parlato di un massimo di 3.000 seggi elettorali che non sono stati aperti. Il capo della commissione elettorale ha riferito di chiusure anticipate di seggi elettorali nell'est del Paese dove i jihadisti avevano minacciato di tagliare le dita a chi aveva intinto un dito nell'inchiostro, segno di partecipazione alle elezioni.

Secondo quanto riportato dall’emittente Al Jazeera, più di 400.000 persone nel 17,4% delle unità elettorali – sfollate a causa del conflitto armato tra le milizie governative e i militanti islamisti – non hanno potuto votare perché hanno perso i documenti d'identità o non hanno potuto effettuare la registrazione. Le autorità del Paese, impegnate a bilanciare la sfida della sicurezza con la necessità di elezioni democratiche, hanno infatti ammesso che non è stato possibile registrare gli elettori nelle zone del Paese invase da gruppi armati.

La commissione elettorale ha comunicato che il partito al governo ha ottenuto solo 56 seggi e quindi non raggiunge la maggioranza assoluta di 64 seggi, su un totale di 127. Il partito di Kabore può comunque ottenere questa maggioranza attraverso una coalizione con altri partiti alleati minori.

Le elezioni presidenziali e parlamentari del 22 novembre si sono svolte all'ombra della violenza jihadista, con un'ondata di attacchi da parte di gruppi legati ad al-Qaeda e al gruppo dello Stato Islamico che solo quest'anno hanno causato più di 2.000 vittime.

Una volta percepito come una nazione stabile dell'Africa occidentale, il destino del Burkina Faso è ora strettamente legato a quello della più ampia regione del Sahel, dove 5.000 soldati francesi sono schierati nell'ambito dell'operazione Barkhane, cooperando con una neonata forza europea nell'operazione Takuba.

Sebbene non ci siano state segnalazioni di gravi attacchi il giorno delle elezioni, le minacce diviolenza hanno impedito alle persone di votare in parti molto insicure del paese. Secondo la commissione elettorale, quasi 3.000 seggi elettorali che avrebbero dovuto aprire non lo fecero, impedendo a 350.000 persone di votare.

Molte delle comunità che non hanno potuto votare erano già emarginate e le organizzazioni della società civile affermano che il presidente dovrà lavorare di più nel suo secondo mandato per unire un paese sempre più diviso.

"Dovrebbe assicurarsi che le promesse non mantenute negli ultimi cinque anni siano rispettate al fine di alleviare il malcontento sociale, presente non solo nelle grandi città, ma sempre di più anche nelle campagne", ha detto Chrysogone Zougmore, presidente del Burkinabé Movement for Human Rights, un gruppo di difesa locale.

I cittadini nelle regioni colpite dalla violenza dicono che il governo deve migliorare la sicurezza in modo che possa concentrarsi sullo sviluppo, "per tenere occupati i giovani in modo che non si abbandonino più al terrorismo", ha detto l'emiro di Liptako, Ousmane Amirou Dicko, che vive nel Città di Dori nella regione del Sahel (BBC, Burkina Faso's war against militant Islamist, 30 maggio 2019, url Augustin Loada e Peter Romaniuk, Preventing Violent Extremism in Burkina Faso: Toward National Resilience Amid Regional Insecurity, 12 giugno 2014, url BAMF Federal Office for Migration and Refugees (Germany) Briefing Notes, 23 November 2020, url Al Jazeera, Surrounded by war, Burkinabe civilians have votes taken away, 6 ottobre 2020, url Sahel).

Diritti umani

Secondo l’ultimo report di Amnesty International facente riferimento al 2020, i gruppi armati hanno commesso violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni e rapimenti. Anche le forze di sicurezza hanno condotto esecuzioni extragiudiziali e tortura. L’impunità resta dilagante. Il diritto all’educazione, alla libertà di espressione e di assemblea sono estremamente limitati. In 7 delle 13 regioni del Paese vige lo stato di emergenza, che concede alle autorità maggiori poteri per arrestare e trattenere i cittadini.8

Abusi dei gruppi armati

I gruppi islamisti hanno attaccato chiese, moschee, scuole e camion degli aiuti umanitari, giustificando tali azioni con la presunta relazione tra le vittime e il governo e i suoi alleati, l’Occidente, o il cristianesimo.

Questi attacchi, che hanno incluso molti massacri, hanno come obiettivi principali i gruppi etnici dei Fulse (o Foulse) e dei Mossi, oltre ai leader e agli anziani delle comunità, e hanno esposto donne e bambine ad un rischio maggiore di subire violenze sessuali. Molti civili, tra cui bambini, sono stati uccisi dagli IED (ordigni esplosivi improvvisati), spesso nascosti lungo le strade.

Abusi commessi dalle forze di sicurezza

Secondo quanto riportato da USDoS, numerosi report denunciano le uccisioni arbitrarie ed extragiudiziali commesse dalle forze di sicurezza, anche ai danni di civili, come parte della strategia impiegata dal governo nel contrasto al terrorismo. Spesso i Fulani diventano obiettivo di uccisioni extragiudiziali, a causa delle simpatie nei confronti dei gruppi estremisti, che vengono loro attribuite dai militari. Il report sottolinea anche come le forze di sicurezza si siano macchiate di presunte esecuzioni arbitrarie condotte sul territorio maliano a maggio 2020.

Gruppi di volontari per la difesa della patria (VDH)

A gennaio 2020, l’Assemblea Nazionale ha emanato una legge che istituisce la creazione di gruppi di autodifesa a supporto del governo, e da questi addestrati. Le disposizioni generali in materia di responsabilità sono quanto mai ambigue: all’interno di questo nuovo gruppo sono stati assorbiti membri del gruppo anticrimine Koglweogo, implicato in passato in gravi violazioni, tra le quali il massacro di 40 uomini.

Violenza sessuale e di genere

Secondo quanto riportato da UNHCR nel report relativo al periodo gennaio-febbraio 2021, gli episodi di violenza di genere sono quelli più diffusi tra la popolazione assistista dall’Agenzia. Nella zona centrosettentrionale, le donne (82.61%) e gli sfollati interni (91.30%) sono quelli che più hanno subito questo genere di violenza. Il conflitto ha esacerbato il livello di incidenza di casi di violenza di genere, inclusi lo stupro, il matrimonio forzato e precoce, prostituzione, oltre ad altre situazioni di abuso e sfruttamento.

Stato di diritto

Nonostante il potere giudiziario sia formalmente indipendente, storicamente è stato oggetto di forti pressioni e corruzione da parte dell’esecutivo. Anche le garanzie costituzionali di giusto processo sono minate dalla corruzione e dall’inefficacia delle forze giudiziarie e di polizia. Secondo quanto riportato da Freedom House, i militari sono stati accusati di detenere arbitrariamente grandi gruppi di uomini in prossimità dei luoghi degli attacchi terroristici. Nonostante poi la maggior parte dei detenuti sia stata liberata nel giro di pochi giorni, altri sono stati trattenuti per mesi e in alcuni casi giustiziati sommariamente. A marzo 2019, almeno 60 persone sono state giustiziate dai militari nel corso di operazioni antiterrorismo.14

Impatto sul sistema educativo

Le scuole sono un target abituale dei gruppi armati, ed in particolare le scuole governative o dove l’insegnamento è praticato in francese piuttosto che in arabo. A seguito delle minacce indirizzate agli insegnanti per costringerli ad adottare un’educazione islamica, molte scuole sono state chiuse. Secondo quanto riportato da UNICEF, più di 100.000 bambini che vivono in zone rese di difficile accesso a causa del conflitto, non hanno ancora accesso ad un sistema educativo formale. Al 10/11/2020, gli sfollati interni erano più di 1 milione, dei quali il 60% sono bambini, e il 43% bambini in età scolare. Al 15/12/2020, 2.169 scuole sono rimaste chiuse a causa dell’insicurezza, colpendo 306.946 bambini (France24, “Burkina Faso’s Kaboré wins re-election, according to full preliminary results”, 26/11/2020,url Amnesty International, Burkina Faso 2020, url Human Rights Watch, Burkina Faso, Events of 2020, url USDoS, 2020 Country Report on Human Rights Practices: Burkina Faso, url Human Rights Watch, Burkina Faso, Events of 2020, url UNHCR, Burkina Faso, Operational Update, 1 January-28 February, url Amnesty International, Burkina Faso 2020, url Freedom House, Freedom in the World 2020, url Freedom House, Freedom in the World 2020, url UNICEF, UNICEF Burkina Faso Humanitarian Situation Report No. 9 (Reporting Period: 1 to 31 October 2020), url)

Situazione sicurezza

Origine del conflitto

La diffusione della violenza nell’Africa occidentale è fortemente legata all’indebolimento di al-Qaeda e ISIS in Medioriente, oltre a trarre origine dai ribelli del Nordafrica. L’attuale prevalenza di gruppi miliziani nella regione trova le sue origini dal Mali settentrionale, zona in cui combattenti di al-Qaeda algerini si erano spostati per prendere parte alla ribellione nel nord del Paese. Inoltre, le radici del successo dell’estremismo violento in quest’area dell’Africa solo legate a fattori locali, e quindi alla povertà delle aree più rurali dimenticate dallo Stato, e alla disputa, sempre più aspra, per le risorse naturali quali terra e acqua, divenute via via più scarse a causa dell’aumento della pressione demografica e del cambiamento climatico.

Un esempio fra tutti quello riguardante la capacità di al-Qaeda e di ISIS di sfruttare a proprio vantaggio conflitti locali già esistenti fra pastori e contadini.

Gruppi terroristi

Gruppi affiliati o vicini a ISIS hanno fatto la loro comparsa nella regione nel 2015, tra i quali l’ISWAP (Islamic State West Africa Province) e l’ISGS (Islamic State in the Greater Sahara).Ci sono poi vari altri gruppi islamisti miliziani che operano in quest’area: nel 2017 vari di questi sono stati ricondotti sotto l’ombrello del gruppo affiliato ad al-Qaeda JNIM (Nusrah al-Islam wa a-.Muslimin), che, assieme al gruppo estremista nato in Burkina Faso, Ansaroul Islam, è tra i principali responsabili degli episodi di violenza accaduti nella regione.

ISGS e JNIM conducono attacchi indipendenti: mentre il primo gruppo si concentra soprattutto nell’Est

Mali, Est Burkina Faso e Ovest Niger; il secondo sul Mali occidentale e Burkina Faso settentrionale. Inoltre, nel corso del 2020 sono stati registrati episodi di scontri tra gli stessi gruppi terroristici, tra JNIM e ISWAP in Burkina, tra JNIM e ISIS in Mali e Niger. ISGS e ISWAP hanno invece iniziato a rivendicare attacchi condotti in comune, all’insegna di una nuova narrativa che mostri una presenza unitaria di ISIS nella regione.

Le risorse economiche di JNIM si basano sui rapimenti per riscatto, traffico di droga, armi ed esseri umani, furti, riscossione del pizzo, oltre che sulla vendita di bestiame rubato, estrazione artigianale dell’oro, bracconaggio e riscossione di tasse sui ricavi delle attività economiche locali. L’arruolamento nel gruppo (UNICEF, UNICEF Burkina Faso Humanitarian Situation Report No. 10 (Reporting Period: 1 November - 31 December 2020), url; SWP, Jihadism in Africa, June 2015, url, p. 11; CGP, ISIS in Africa: The Caliphate’s Next Fronteri, 26 maggio 2020,url; SWP, Jihadism in Africa, June 2015, url, pp. 11-12; Ibrahim, I. Y., The Wave of Jihadist Insurgency in West Africa: Global Ideology, Local Context, Individual Motivations, 2017, url, p. 6; SWP, Jihadism in Africa, giugno 2015, url, p. 12 Krause, D., How transnational jihadist groups are exploiting local conflict dynamics in Western Africa, 10 maggio 2020, url; SWP, Jihadism in Africa, giugno 2015, url, p. 7; Krause, D., How transnational jihadist groups are exploiting local conflict dynamics in Western Africa, 10 maggio 2020, url; ICCT, The Warning Signs are Flashing Red: The interplay between climate change and violent extremism in the Western Sahel, settembre 2019, url; United Nations Security Council, Security Council Briefing on the Shared Causes of Intercommunal Violence and Preventing Violent Extremism in West Africa, 16 dicembre 2019, url; CGP, ISIS in Africa: The end of the “Sahel Exception”, 2 giugno 2020, url; CTC at West Point, The Islamic State in Africa: Estimating Fighter Numbers in Cells Across the Continent, agosto 2018, url, p.; CTC at West Point, The Renewed Jihadi Terror Threat to Mauritania, agosto 2018, url, p. 16; CGP, ISIS in Africa: The end of the “Sahel Exception”, 2 giugno 2020, url; EER, Jihadist Competition and Cooperation in West Africa, 3 aprile 2020, url; Africa Center for Strategic Studies, The Complex and Growing Threat of Militant Islamist Groups in the Sahel, 15 febbraio 2019, url; CGP, ISIS in Africa: The end of the “Sahel Exception”, 2 giugno 2020, url; EER, Jihadist Competition and Cooperation in West Africa, 3 aprile 2020, url; ICG, Crisis Watch: Burkina Faso, maggio 2020, url; ICG, Crisis Watch: Mali, maggio 2020, url; United Nations Security Council, Letter dated 15 July 2019 from the Chair of the Security Council Committee pursuant to resolutions 1267 (1999), 1989 (2011) and 2253 (2015) concerning Islamic State in Iraq and the Levant ;Da͛eshͿ, Al Qaida and associated individuals, groups, undertakings and entities addressed to the President of the Security Council, 15 luglio 2019, url, p. 11; Stanford CISAC, Mapping militant organizations–Jamaat Nusrat al-Islam wal Muslimeen, last updated luglio 2018, url; Counter Extremism Project, Al-Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM), n.d., url Foreign Brief, Jaŵa͛at Nasr al-Islam wal Muslimin: a merger of al-Qaeda affiliates, 25 aprile 2020, url) avviene grazie agli stretti legami con la popolazione locale, ad es. tramite matrimoni, oltre che ad incentivi economici, e sfruttando a proprio vantaggio i conflitti interetnici e il risentimento nei confronti del governo.

Si stima che a febbraio 2020, l’ISWAP contasse tra le proprie fila circa 3.500-5.000 combattenti.

L’ISGS è basato in Mali e in Niger, e opera sul confine tra i due Paesi, oltre che in Burkina Faso. Dal 2018, il gruppo ha guadagnato supporto popolare nel Mali settentrionale, e contribuito al rafforzamento della ribellione salafita-jihadista in Burkina Faso. Nonostante conti solo tra i 200 e i 300 affiliati, il gruppo riesce a organizzare attacchi con un elevato numero di vittime cooptando i civili nel supporto agli attacchi, sia tramite l’uso dell’intimidazione che della corruzione. Il modus operandi del gruppo include i rapimenti, le esecuzioni e gli attacchi suicidi. ICG ha considerato l’ISGS come il pericolo più impellente alla sicurezza nigerina.

Impatto degli attacchi sui civili

I civili in tutto il Sahel centrale - Burkina Faso, Mali e Niger - stanno affrontando un aumento degli attacchi da parte di gruppi armati islamisti e forze di sicurezza statali, nonché violenze intercomunitarie perpetrate dalle milizie rivali. Secondo l'OCHA, più di 6.600 civili sono stati uccisi nei tre paesi dall'ottobre 2019, rendendo il 2020 l'anno più mortale per i civili nel Sahel centrale.

I gruppi armati islamisti hanno aumentato i loro attacchi alle infrastrutture civili, inclusi luoghi di culto, centri sanitari e scuole. Gruppi armati non statali hanno preso di mira l'istruzione statale in tutto il Sahel centrale, bruciando scuole e minacciando, rapendo e uccidendo gli insegnanti, accusati di aver utilizzato il programma di studi statale. Gli attacchi all'istruzione sono più che raddoppiati tra il 2018 e il 2019 in Burkina Faso e Niger. Più di 4.000 scuole sono state chiuse a causa di attacchi, mentre le restrizioni e il conflitto COVID-19 hanno costretto 12,8 milioni di bambini a lasciare la scuola.

In risposta agli attacchi dei gruppi armati islamisti, le operazioni di antiterrorismo delle forze di sicurezza saheliane hanno portato a gravi violazioni dei diritti umani perpetrate contro i civili. La Divisione per i diritti umani della MINUSMA ha riferito che quasi 150 civili sono stati uccisi in via extragiudiziale dalle forze di sicurezza maliane e burkinabè in Mali tra aprile-giugno 2020 e che le forze di sicurezza a volte hanno condotto "operazioni di rappresaglia contro popolazioni civili" accusate di sostenere gruppi armati islamici. Le forze di sicurezza dello Stato hanno anche utilizzato decine di scuole per scopi militari.

Nonostante il Burkina Faso sia sempre stato considerato uno Stato stabile inserito in una regione altamente volatile, a partire dal 2015 ha visto un aumento esponenziale nel numero di attacchi:40 dei 4.000 morti causati da attacchi terroristici in tutto il Sahel, 1.800 sono stati provocati nel solo Burkina Faso.

Gli attacchi sono proseguiti in Burkina Faso, prevalentemente nelle regioni Est, Sahel e Centro Nord, provocando un aumento della violenza contro i civili e sfollati, e della violenza da parte di gruppi terroristici, estremisti violenti e criminali che prendono il controllo del territorio. Nella regione Est, il 6 agosto 2020, uomini armati non identificati hanno ucciso almeno 20 persone in un attacco al villaggio di Namoungou e il 4 ottobre, almeno 25 sfollati interni sono stati uccisi da individui armati non identificati nella regione Centro-Nord. Il 15 ottobre, almeno 20 sfollati che stavano tornando alle proprie case nella regione del Sahel sarebbero stati uccisi da elementi armati non identificati. L'11 novembre, un altro attacco nella provincia di Oudalan, regione del Sahel, rivendicato dallo Stato Islamico dell’Africa Occidentale, ha provocato la morte di 14 soldati. Questi attacchi hanno intensificato la crisi umanitaria e la mancanza di fiducia nelle autorità, mentre i servizi di sicurezza hanno lottato per riportare la situazione sotto controllo. 42 In tre mesi (gennaio-marzo 2020), si sono verificati 85 attacchi nel Paese, che hanno provocato la morte di 438 persone, mentre (ICCT, The Shifting Sands of the Sahel’s Terrorism Landscape, 12 marzo 2020, url; Foreign Brief, Jaŵa͛at Nasr al-Islam wal Muslimin: a merger of al-Qaeda affiliates, 25 aprile 2020, url; CTC at West Point, The Islamic State in Africa: Estimating Fighter Numbers in Cells Across the Continent, agosto 2018, url, p. 22; United Nations Security Council, Islamic State West Africa Province (ISWAP), 23 febbraio 2020, url; CGP, ISIS in Africa: The end of the “Sahel Exception”, 2 giugno 2020, url; United Nations Security Council, Islamic State in the Greater Sahara (ISGS), 23 febbraio 2020, url; EER, Jihadist Competition and Cooperation in West Africa, 3 aprile 2020, url; Ibid,ICG, Sidelining the Islamic State in Niger’s Tillabery, 3 giugno 2020, url; R2P Monitor, Issue 55, 15 gennaio 2021, url; Africa Center for Strategic Studies, The Complex and Growing Threat of Militant Islamist Groups in the Sahel, 15 febbraio 2019, url; BBC, How West Africa is under threat from Islamist militants, 13 gennaio 2020, url; Africa Center for Strategic Studies, Ansaroul Islam: The Rise and Decline of a Militant Islamist Group in the Sahel, 29 luglio 2019, url; ICCT, The Shifting Sands of the Sahel’s Terrorism Landscape, 12 marzo 2020, url; UN Security Council: Report of the Secretary-General on the activities of the United Nations Office for West Africa and the Sahel [S/2020/1293], 24 dicembre 2020, url) da gennaio a giugno 2020, sono 8.422 le vittime registrate.43 Questo aumento della violenza, potrebbe portare anche ad un aumento del rischio di spill-over della violenza nei Paesi dell’Africa occidentali, le cui frontiere meridionali si trovano al confine con il Burkina Faso.

Secondo quanto riportato da R2P nel suo ultimo bollettino bimestrale del 15 marzo 2021, il 2020 è stato l’anno più letale per tutto il Sahel Centrale (Mali, Niger e Burkina Faso), che ha visto l’uccisione di quasi 7.000 persone. In Burkina Faso e Mali, le milizie locali e le forze di sicurezza nazionali hanno ucciso più civili dei morti provocati dai gruppi armati islamici, nonostante gli attacchi provocati da questi ultimi siano aumentati del 44% nel 2020. In Burkina Faso, l’89% degli attacchi perpetrati da civili volontari arruolati dal governo nell’apparato di sicurezza, ha avuto come obiettivo la comunità fulani, uccidendo decine di civili. Nonostante il contrasto alla violenza estremista resti cruciale per tutti e tre i Paesi del Sahel centrale, è altrettanto essenziale che i tre governi, come le forze internazionali dispiegate in questi territori, garantiscano che le loro operazioni non esacerbino ulteriormente le tensioni inter-comunitarie, oltre ad aumentare la sfiducia nell’autorità statale.

Secondo gli ultimi dati di ACLED, nel periodo 01/04/2020-16/04/2021, in Burkina Faso si sono verificati 872 episodi di violenza, che hanno provocato la morte di 1714 persone. In particolare si sono verificati 243 scontri armati (862 morti), 65 esplosioni/violenza da remoto (223 morti), 64 proteste (0 morti), 21 sommosse (5 morti), 339 episodi di violenza contro i civili (622 morti), 140 sviluppi strategici (2 morti). Sempre secondo la ONG, gli episodi di violenza politica organizzata sono aumentati del 35% in tutto il Sahel dal 2019. Questo aumento è stato causato in parte anche dalle operazioni dell’antiterrorismo a guida francese, unite all’instabilità politica e agli scontri tra gruppi jihadisti. Secondo l’analisi effettuala, nel 2019 l’insorgenza nel Sahel ha raggiunto il suo apice nel momento in cui JNIM e ISGS hanno valicato i confini dei tre Stati, obbligando i governi a ritirare le truppe dalle zone di confine, e a lasciare quei territori fino a quel momento disputati, sotto il controllo dei gruppi jihadisti: le forze governative si sono così ritrovate in una posizione difensiva. Si è verificato un cambio all’inizio del 2020, quando la Francia ha aumentato la propria presenza militare sul territorio, oltre che affiancando le forze nazionali nel corso delle operazioni militari.

Nonostante l’ampia violazione dei diritti umani che ha accompagnato queste operazioni, le forze locali e internazionali hanno ripreso slancio. Lo scoppio di una vera e propria guerra di territorio ha infiacchito gli insorgenti, e provocato un raddoppiamento nel numero dei morti tra i miliziani. Mentre le operazioni militari antiterrorismo si sono concentrate sui confini dei 3 Stati, la presenza dei gruppi miliziani si sta in compenso consolidando in altre parti della regione, con un potenziale impatto nel lungo termine.

Sfollati interni

Tra dicembre 2018 e marzo 2020, il numero di sfollati interni al Burkina Faso è passato da 50.000 a 800.000, in un Paese che conta 20 milioni di abitanti. Uno dei principali fattori scatenanti è stata l’escalation di attacchi e massacri perpetrati da gruppi terroristi affiliati ad al-Qaeda e ISIS. Entrambi i gruppi hanno inoltre dichiarato l’intenzione di ampliare la propria influenza in tutta la regione: i gruppi hanno infatti tentato di entrare in Togo, Ghana e Benin passando dal Burkina Faso.

Quella del Sahel Centrale è una delle crisi legate allo sfollamento forzato interno che cresce più rapidamente al mondo, con circa 1.7 milioni di persone sfollate, delle quali 1 milione sono minori. Si calcola che siano 14.4 milioni le persone bisognose di assistenza umanitaria, rappresentando un aumento del 60% rispetto a gennaio 2020.49 Secondo ACLED, il Burkina Faso è diventato l’epicentro della crisi umanitaria: le elezioni tenutesi a novembre 2020 hanno inoltre comprovato la poca tenuta sulla periferia del Paese, dove non si è tenuto il voto in varie località del nord ed est ((ACLED, Data Export Tool: Western Africa, 23 giugno 2020, url; ICG, The Risk of Jihadist Contagion in West Africa, 20 dicembre 2019, url; GIS, opinion by Charles Millon, Jihadists open a new front in West Africa, 13 settembre 2019, url; R2P Monitor, 15 March 2021 ISSUE 56, 15 marzo 2021, url; ACLED, Curated data, Burkina Faso 01/04/2020-16/04/2021, all events, url; ACLED, 10 conflicts to worry about in 2021, febbraio 2021, url; Krause, D., How transnational jihadist groups are exploiting local conflict dynamics in Western Africa, 10 maggio 2020, url; R2P Monitor, 15 March 2021 ISSUE 56, 15 marzo 2021, url; ACLED, 10 conflicts to worry about in 2021, febbraio 2021, url).

Sulla domanda di riconoscimento dello “status” di rifugiato

In relazione alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, le fonti che disciplinano la materia sono costituite, essenzialmente, dall'art. 10 della Costituzione (secondo cui, da un lato, la condizione dello straniero è regolata dalla legge sulla base delle norme e dei trattati internazionali, dall'altro, lo straniero, al quale è impedito l'effettivo esercizio delle libertà democratiche, riconosciute dalla Costituzione, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica), nonché dal D.Lgs n. 251/2007 che ha dato attuazione ai principi contenuti nella Convenzione di Ginevra del 28.7.1951, ratificata con legge n. 722/54, ed alle direttive comunitarie in materia, tra cui la n. 2004/83, recante norme minime sull'attribuzione, ai cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale.

Ai sensi del combinato disposto delle lettere e) ed f) dell'art. 2 e dell'art.11 del D.lgs. n. 251/2007 (come è stato chiarito in giurisprudenza, il diritto di asilo di cui all'art. 10 della Costituzione trova riconoscimento e tutela nelle forme e nei limiti previsti dalla citata normativa (SS.UU. n.19393/09 e Cass., n.10686/2012), lo status di “rifugiato” è riconosciuto “al cittadino straniero che, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese”.

I responsabili della persecuzione, ai fini del riconoscimento, sono, ai sensi dell'art.5 del D.lgs n.251/2007, “a) lo Stato, b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; c) soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese lo organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’articolo 6 comma, contro persecuzioni o danni gravi”.

Il timore di subire persecuzioni o danni gravi, dunque, deve essere fondato, ossia comprovato sulla base di elementi verificabili.

Ciò premesso, rileva il Collegio, che i fatti narrati dal richiedente non attengono manifestamente a persecuzioni per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale e, pertanto, non sono configurabili i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato come definito dall’art. 1 lett.A della Convenzione di Ginevra del 1951 e dall’art. 2 comma 1 lett. e) del D.lgs. 251/2007.

Deve pertanto rigettarsi la domanda principale di riconoscimento dello status di rifugiato.

Sulla domanda di protezione sussidiaria e la valutazione di credibilità del ricorrente

E’ invece fondata la richiesta di protezione sussidiaria per l’ipotesi di cui all’art. 14 lett. C). 

Ai sensi dell’art. 2, lett. g) ed h) del D.lgs. n. 251/2007, “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” è “il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese d'origine (o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale), correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto ed il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

La definizione di danno grave è contenuta nel successivo art. 14 a norma del quale "sono considerati danni gravi:

a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte;

b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese d'origine;

c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale".

In particolare, con riferimento alle ipotesi di rischio di condanna a morte o trattamento inumano o degradante si deve, anzitutto richiamare la sentenza resa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia in data 17 febbraio 2009 (C – 465/07, Elgafaji) che nell’individuare l’ambito di protezione offerta dall’art. 15 Direttiva 2004/83/CE (disposizione trasposta dal legislatore italiano con l’adozione dell’art. 14 D.lgs. n.251/2007 prima richiamato), al punto 31 della motivazione ha chiarito che affinché al richiedente possa essere accordata la protezione sussidiaria – qualora sussistano, conformemente all’art. 2 lettera e) di tale direttiva, fondati motivi di ritenere che il richiedente incorra in un “rischio effettivo di subire un … danno” nel caso di rientro nel paese interessato” - i termini “condanna a morte” o “l’esecuzione”, nonché “la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente” devono riguardare un rischio di danno riferiti alla particolare (individuale) posizione del richiedente essendovi una evidente differenziazione tra questo rischio di danno e quello derivante da situazioni di violenza generalizzata (si vedano in particolare i punti da 32 a 35 della sentenza citata).

E’ quindi necessario che, dal complesso della vicenda posta a base della domanda, emerga l’esistenza di un fondato rischio per il richiedente di essere esposto a simili sanzioni a causa della propria situazione specifica, non essendo invece in questa sede rilevante l’eventuale rischio di “trattamenti inumani o degradanti” derivante da una situazione di violenza generalizzata alla quale potrebbe essere esposta tutta la popolazione di una determinata zona.

Rispetto a queste ipotesi di protezione sussidiaria il ricorrente non ha svolto alcuna allegazione che possa essere valutata in termini di rischio futuro di essere destinatario, in caso di rimpatrio, di sanzioni come la pena di morte o altri trattamenti inumani o degradanti.

Va sottolineato, inoltre, che la mancata o inadeguata tutela nel Paese d’origine per la risoluzione di controversie tra privati non può assurgere di per sé sola a causa idonea ad integrare la fattispecie del danno grave, risultando ciò, peraltro anche in contrasto col principio secondo il quale “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (consid.26 della direttiva n.2004/83/CE).

Senza contare che le due forme di protezione maggiori, costituendo diretta attuazione del diritto costituzionale d’asilo (cfr. Cass., n.11110/2019), sono riconoscibili allo straniero al quale sia pur sempre “impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche” (art. 10 comma 3, Cost.); ipotesi questa estranea in vicende non di carattere generale ma di carattere privato (cfr. Cass., n.9043/2019).

Con riferimento al danno grave ex art. 14, lettera c), la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha di recente chiarito che “In tema di protezione sussidiaria dello straniero prevista dall’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno od internazionale, non è subordinata alla condizione che lo straniero fornisca la prova di essere interessato in modo specifico a motivo di elementi che riguardino la sua persona, ma sussiste anche qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti, raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che il rientro dello straniero lo sottoponga, per la sola presenza sul territorio, al rischio di subire concretamente gli effetti della minaccia” (Cass., ord. n. 18130/2017).

Ed invero, pur ritenendo credibili le dichiarazioni fornite dal ricorrente in ordine alla sua nazionalità ed al luogo di provenienza, quanto alle ragioni che lo avrebbero indotto a lasciare il proprio Paese, il Collegio è giunto ad esprimere un giudizio di non credibilità in merito alla storia posta a fondamento della domanda.

In particolare, le dichiarazioni riportate dal ricorrente non corrispondono in toto agli eventi occorsi nel 2015: il 16 settembre, il generale Gilbert Dienderé ha effettivamente tentato di assumere il potere con un colpo di stato, ma prendendo in ostaggio il Presidente Michel Kafando e il Primo Ministro Isaac Zida. Infatti, nel 2015 Blaise Compaoré non era già più Presidente del Burkina Faso: il suo Governo era stato rovesciato a ottobre dell’anno precedente da una rivolta popolare. Nonostante la situazione di instabilità politica sia poi rientrata nel giro di pochi giorni (il 22 settembre 2015 è stato firmato un accordo di pace, e il Presidente di allora, Michel Kafando, rimesso a capo del Governo il 23 settembre, anche grazie all’intervento degli altri Capi di Stato africani), la sicurezza del Paese si è andata deteriorando durante gli ultimi sei anni, nel corso dei quali le operazioni condotte da gruppi terroristici di matrice islamica, milizie locali e forze di sicurezza governative e internazionali, hanno destabilizzato l’intero Paese (Aljazeera, Burkina Faso coup and violent protests, 22 settembre 2015, url, France24, Coup fears as Burkina Faso interim president ‘detained’, 16 settembre 2015, url; France24, Deposed president to return to office as Burkina coup leaders sign peace deal, 23/09/2015, url).

Pertanto, per quanto concerne il diritto al riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14 lett. c) D.lgs. n. 251/2007, si evidenza che in Burkina Faso, Paese di provenienza del ricorrente, si rilevano conflittualità tali da giustificare la concessione della misura richiesta, potendo rilevare che la zona interessata sia caratterizzata da una violenza indiscriminata e diffusa ed, in generale, che nel paese d’origine vi sia un livello di violenza così elevato da comportare per i civili, per la sola presenza nell’area in questione, il concreto rischio della vita, alla stregua delle informazioni acquisite e suesposte.

Gli deve, pertanto, essere riconosciuta la protezione sussidiaria.

Sulle spese del giudizio

Nulla va disposto in punto di spese, ritenendo il Collegio di poter condividere il principio affermato dalla Suprema Corte riguardo l’inapplicabilità dell’art. 133 D.P.R n.115/2002 – in base al quale la parte non ammessa al patrocinio, ove soccombente, deve rifondere le spese processuali di quella ammessa attraverso il pagamento in favore dello Stato – nell’ipotesi in cui, come la presente, “la liquidazione dovrebbe essere effettuata a carico di un’amministrazione dello Stato a favore di altra amministrazione, il che costituisce all’evidenza un non senso”(cfr. Cass., n.18583/2012; contra ord.Cass., n.5819/2018)

Si provvede con separato decreto contestuale, ai sensi degli artt. 82 e 83 comma 3-bis D.P.R.115/2002, alla liquidazione dei compensi in favore del difensore del ricorrente.

PQM

Il Tribunale di Lecce, Sezione Specializzata per le controversie in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini nell’Unione Europea, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza respinta, così provvede:

· rigetta la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato;

· accoglie la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria in favore di Omissis.

· nulla sulle spese;

· Manda alla cancelleria per le comunicazioni di rito.

Così deciso nella camera di consiglio del 30/10/2020

La Presidente Rel.

(Dr.ssa Piera Portaluri)

Il presente provvedimento è stato redatto su predisposizione della minuta da parte del GOP dr Giuseppe Quaranta, ai sensi della delibera del CSM dell’1.06.2017.


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