1.Con la sentenza n.10 del 26 gennaio 2024 la Corte costituzionale ha accolto, nei termini precisati in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art.18 l. 354/1975 ( ord. penit. ) sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto e, quindi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.18 ord. penit., “ nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie “ ( così il dispositivo della sentenza in esame ).
Si tratta di una sentenza molto attesa e molto importante, che può addirittura considerarsi “storica”, perché decide nel merito, respingendo insidiose eccezioni pregiudiziali, questioni molto rilevanti e delicate, che attengono al riconoscimento in capo alla persona detenuta del diritto all’affettività e alla rimozione dell’ostacolo normativo costituito dal controllo a vista del personale di custodia durante lo svolgimento dei colloqui in carcere con il coniuge o la persona convivente non detenuta. Tale ostacolo normativo è previsto dall’art.18 ord. penit., che stabilisce che “ I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia “ ( terzo comma ).
Ebbene, con la sentenza che qui si commenta i giudici della Consulta recepiscono, sostanzialmente, l’impostazione dell’ordinanza di rimessione, redatta dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto con completezza di argomentazioni e di descrizione della fattispecie concreta, e respingono l’eccezione di inammissibilità delle questioni formulata dall’Avvocatura Generale dello Stato per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei Ministri.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, le questioni sollevate erano da dichiarare inammissibili, “per aver ad oggetto una disposizione legislativa vertente in materia riservata alla discrezionalità del legislatore “, ritenendosi “ tuttora insuperate “ le ragioni già esposte dalla Corte costituzionale nella precedente sentenza n.301 del 2012, che aveva dichiarato inammissibili questioni analoghe a quelle ora sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto.
2. Invece, questa volta la Corte costituzionale non propende per l’inammissibilità delle questioni e disattende l’eccezione statale, con argomenti che appaiono corretti e condivisibili.
Dopo avere richiamato il contenuto della precedente sentenza del 2012, che pur aveva evidenziato che le questioni evocavano “ una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale “ e aveva segnalato al legislatore che il tema dell’affettività intramuraria del detenuto rappresentava “ un problema che merita ogni attenzione “ ( paragrafo 2.2 del “Considerato in diritto “ ), la Corte nella sentenza n.10 del 2024 osserva che “ Nel tempo trascorso dalla pubblicazione della sentenza n.301 del 2012, l’ordinamento penitenziario ha registrato significative innovazioni, che delineano oggi un quadro normativo ben differente da quello di allora “ ( par. 2.3 ).
Infatti, vengono menzionate le disposizioni dell’art.1, comma 38, legge 76/2016, secondo cui
“i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario “, e dell’art.1, comma 20, stessa legge, secondo cui i diritti del coniuge in tema di colloqui penitenziari sono estesi anche alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Inoltre, viene ricordata la modifica dello stesso art.18 ord. penit. ad opera dell’art.11, comma 1, lett. g), n.3) D.lgs. 123/2018, con l’aggiunta di un periodo ai sensi del quale “ i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto “ ( terzo comma ).
Infine, si rammenta la nuova disposizione relativa agli istituti minorili di cui all’art.19, comma 3, D.lgs. 121/2018 ( “al fine di favorire le relazioni affettive, il detenuto può usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore “ ), come esempio “ comunque emblematico di un contesto normativo fortemente innovato rispetto a quello in cui venne pronunciata la sentenza n.301 del 2012 “
( par. 2.3 ). Dunque, la Corte conclude sul punto che “ essendo oggi il quadro normativo differente da quello che fu a base del precedente giudizio di questa Corte, l’eccezione statale di inammissibilità delle nuove questioni va disattesa “ ( par. 2.5 ).
Aperta la strada all’esame nel merito delle questioni, il Giudice delle leggi osserva - in linea peraltro con la precedente sentenza 301/2012 - che “ la disciplina dei permessi premio non è allo stato idonea a risolvere il problema dell’affettività del detenuto e che esso ha pertanto una necessaria dimensione intramuraria, profilo che assicura la rilevanza delle questioni sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto “ ( par. 2.6.2 ). Tali questioni sono ritenute fondate dalla Corte, nei termini di seguito precisati, sulla base di alcune enunciazioni molto chiare e difficilmente confutabili sul piano giuridico.
Infatti, premesso che “ L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza “, si osserva correttamente che “ Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società “ ( par. 3.1 del “Considerato in diritto “ ). Pertanto, “ La questione dell’affettività intramuraria concerne…l’individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima ; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona “ ( ibidem ).
Posta in questi termini la questione dell’affettività intramuraria, la Corte ritiene corretto il presupposto interpretativo da cui muove l’ordinanza di rimessione, ovvero “ l’assolutezza della prescrizione del controllo visivo sui colloqui familiari del detenuto e la conseguente preclusione dell’esercizio dell’affettività intramuraria, anche sessuale “ ( par. 3.2 ) : così come previsto dall’art.18, 3° comma, ord. penit. e ribadito dall’art. 37, comma 5, D.P.R. 230 / 2000
( Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà ), secondo il quale “ In ogni caso, i colloqui si svolgono sotto il controllo a vista del personale del Corpo di polizia penitenziaria “. Dunque, è indubbio che secondo la normativa vigente “ il controllo visivo è prescritto senza eccezioni, e proprio questa assolutezza espone la disposizione censurata a un giudizio di irragionevolezza per difetto di proporzionalità “ ( par. 3.3 ).
Sembra opportuno sottolineare, a questo punto, un’osservazione della Corte di tipo definitorio : è pur vero che anche la sessualità è stata riconosciuta come “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana “, ma “ non può ridursi il tema dell’affettività del detenuto a quello della sessualità, in quanto esso più ampiamente coinvolge aspetti della personalità e modalità di relazione che attengono ai connotati indefettibili dell’essere umano “ ( par.
3.4 ). Pertanto, il diritto riconosciuto al detenuto come persona umana è il diritto all’affettività, che ha un’accezione molto ampia e comprende al suo interno anche la componente sessuale.
Passando alla disamina dei parametri costituzionali coinvolti, si rileva in primo luogo dalla Corte che “ La prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie “ ( par. 4.1 ). Si rammenta, al riguardo, la precedente sentenza della Corte n.26 del 1999, in cui si è affermato che “La dignità della persona ( art. 3, primo comma, della Costituzione ) anche in questo caso - anzi : soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile - è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale…”.
Un ulteriore profilo di irragionevolezza - prosegue la Corte nella sentenza che qui si commenta - è costituito dal riverberarsi delle restrizioni “ sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni “ : e “ tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria, e pertanto, nella specie, quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza” ( par. 4.2 ).
Ma l’ostacolo ad esercitare l’affettività, da parte del detenuto, nei colloqui con familiari o conviventi si risolve altresì, secondo la Corte, in una violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., “ in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa “. Infatti, non c’è dubbio che “ L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione “ ( par. 4.3 ).
Ancora, la Consulta riscontra nel caso di specie pure la violazione dell’art.117, primo comma, Cost. ( “ La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali “ ), in relazione all’art. 8 CEDU, secondo il quale “ Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza “
( paragrafo 1 dell’art. 8 ). A questo riguardo la Corte osserva, da un lato, che “ ormai una larga maggioranza di ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi più o meno ampi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità “ ( si richiamano gli esempi del codice penitenziario francese, del regolamento penitenziario spagnolo e della legislazione penitenziaria di molti Lander tedeschi ) ; dall’altro, che la giurisprudenza della Corte EDU
“ non esclude che il singolo ordinamento possa rifiutare l’accesso alle visite coniugali quando ciò sia giustificato da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 8 CEDU… “, ma viene a tal fine “ richiesto un fair balance tra gli interessi pubblici e privati coinvolti ovvero un test di proporzionalità della restrizione carceraria … e, quand’anche la visita coniugale sia intesa in senso premiale, si esige