Pubblica amministrazione  -  Gabriele Gentilini  -  09/12/2023

Consiglio di Stato, sez. V, 28.11.2023 n. 10221 sulla responsabilità precontrattuale negli iter di gara pro contratti pubblici

Rientriamo nella interessante e coinvolgente tematica della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, traendone dalla pronuncia di cui sopra, densa di richiami e spunti dottrinali e giurisprudenziali.

Il provvedimento ricorda che "in termini generali chi entra in una trattativa precontrattuale (specie se condotta nelle forme del procedimento di evidenza pubblica, soggetto anche ai poteri di autotutela pubblicistici preordinati alla cura dell’interesse pubblico), si assume un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto”. Infatti “ciascuna parte che intraprende una trattativa (o partecipa ad un procedimento di gara) sa che è esposta ad un margine di rischio, che, in linea di principio, deriva dall’esercizio della libertà contrattuale di entrambe le parti, e quindi anche dal legittimo esercizio alla libertà contrattuale dell’amministrazione” (Ad. plen. 4 maggio 2018 n. 5).

Il riconoscimento della responsabilità precontrattuale modifica la naturale allocazione dei rischi economici sostenuti per partecipare alla trattativa (o alla gara): l'insorgenza della responsabilità precontrattuale determina il trasferimento dei costi da un soggetto ad un altro, cui è imputabile la scorrettezza.

Perché si abbia il trasferimento del rischio bisogna che vi sia, da un lato, un comportamento scorretto e, dall’altro lato, un affidamento incolpevole: detti elementi costituiscono i presupposti che garantiscono un idoneo punto di equilibrio tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e l’esercizio delle prerogative pubblicistiche di quest’ultima e il limite della correttezza e della buona fede.

In ambito civilistico tradizionalmente la responsabilità precontrattuale postula che l’affidamento abbia ad oggetto lo svolgimento di trattative che non siano inutili: tipicamente le trattative sono inutili laddove una delle controparti le intraprende senza avere intenzione di stipulare il contratto o sapendo, o dovendo sapere, di stipulare un contratto invalido, così violando il dovere di buona fede.

Anche in ambito pubblicistico, l’art. 1 comma 2-bis della legge n. 241 del 1990 n. 241 dispone che i “rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede, positivizzando una regola generale delle relazioni giuridiche intersoggettive, che, in ambito pubblicistico, oltre a connotarsi per specifiche declinazioni, trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 comma 2 Cost.).

A fronte del dovere di buona fede si pone l’affidamento sulla correttezza dell’operato di controparte e, nella specie, dell’amministrazione (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21, 4 maggio 2018 n. 5 e 5 settembre 2005 n. 6).

Nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi” (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21).

Nel settore delle procedure di affidamento dei contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione postula che l’amministrazione abbia violato il dovere di buona fede e che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento e che questo affidamento non sia a propria volta inficiato da colpa.

L’affidamento si dipana in modo diverso a seconda del tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone (così l’Ad. plen 4 maggio 2018 n. 5).

Nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre tuttavia che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 cod. civ. (Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2016 n. 7545).

Analogamente, in ambito pubblicistico, l’affidamento è legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante (Cons. St., sez. II, 20 novembre 2020 n. 7237).

L’aggiudicazione è dunque considerato il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale.

Nondimeno la giurisprudenza ha negato rilievo ostativo al riconoscimento della responsabilità precontrattuale nei casi nei quali non è intervenuta l’aggiudicazione definitiva (nell’ottica del d. lgs. n. 163 del 2006 ratione temporis vigente, mentre il riferimento è all’aggiudicazione nel vigore del d. lgs. n. 50 del 2016).

La Corte di cassazione ha infatti affermato che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile “indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto”; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale “a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante” (Cass., sez. I, 3 luglio 2014 n. 15260).

Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto cheil grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale”.

Nella medesima prospettiva di un accertamento in concreto degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale si è del resto espressa questa Adunanza plenaria nella più volte richiamata sentenza 4 maggio 2018, n. 5, secondo cui la responsabilità precontrattuale può insorgere “anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede”. Questa importante pronuncia si inserisce nel precedente dibattito giurisprudenziale sul momento procedurale in cui può nascere la responsabilità contrattuale dell’amministrazione. L’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018 si rifà quindi alle pronunce del Consiglio di Stato in sostegno della tesi (fatta propria anche dalla Corte di Cassazione: Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260) secondo cui la responsabilità precontrattuale sarebbe configurabile anche nella fase che precede la scelta del contraente, e, quindi, prima e a prescindere dall’aggiudicazione.

La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione non dipende da un provvedimento illegittimo, ma dal comportamento scorretto della stessa nel corso della procedura ad evidenza pubblica, dopo l’aggiudicazione dell’appalto o anche prima.

Se ne riportano alcuni passaggi (CdS sentenza 4 maggio 2018, n. 5):

" ............................

DIRITTO


18. L’Adunanza plenaria ritiene che le questioni rimesse dalla Sezione Terza debbano essere risolte nel senso che:

a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva; b) tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.


19. La contraria tesi, verso cui propende l’ordinanza di rimessione (e la giurisprudenza in essa richiamata), muove dalla premessa teorica che il dovere di correttezza e di buona fede trovi il suo presupposto in una “trattativa” già in stato avanzato, tale da far sorgere un ragionevole affidamento nella conclusione del contratto (la c.d. “trattativa affidante”). In questa prospettiva, invero, si giustifica la conclusione secondo cui, nelle procedure ad evidenza pubblica, è soltanto l’aggiudicazione (definitiva) il momento a partire dal quale
il partecipante alla gara può fare un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto e, dunque, può dolersi del “recesso” ingiustificato dalle trattative che la stazione appaltante abbia posto in essere attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela pubblicistici sugli atti di gara.

20. Tale premessa teorica sembra, in effetti, trovare un supporto nella formulazione testuale dell’art. 1337 cod. civ., che pone il dovere di correttezza in capo alle “parti” della “trattativa” e del “procedimento di formazione del contratto”, a maggior ragione se tale norma viene letta alla luce dell’intenzione del legislatore storico, quale emergente dalla Relazione al Codice civile (paragrafo n. 612). Nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile
del 1942, l’art. 1337 cod. civ. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che, come esplicitato nel citato paragrafo delle relazione illustrativa, unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale.
L’originario legame che il legislatore storico aveva inteso instaurare tra il dovere di correttezza e i valori della c.d. solidarietà corporativa trovava una ancora più manifesta enfasi nell’art. 1175 c.c. che, nel prevedere il dovere di comportarsi secondo correttezza in capo ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio, nella sua originaria formulazione (poi modificata dall’art. 3, secondo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 287), richiamava testualmente “le regole della correttezza in relazione ai principi della solidarietà corporativa”.

21. Come è stato osservato in dottrina, rispetto al dovere di correttezza precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., la reazione negativa del legislatore nei confronti della attività prenegoziale di una delle parti trovava, dunque, la sua principale ragion d’essere nel fatto che quest’ultima, interrompendo la trattativa, impediva la nascita di quei valori meritevoli di tutela che il contratto (sfumato o invalidamente concluso) avrebbe perseguito.
Va richiamata, in questa prospettiva, anche l’originaria (e ormai anch’essa abbandonata) concezione della causa del contratto come funzione socioeconomica, che postulava l’idea che l’autonomia negoziale dovesse necessariamente perseguire una funzione (non solo individualmente, ma) anche socialmente utile. Idea ulteriormente ribadita dall’art. 1322, secondo comma, cod. civ., che, nel riconoscere all’autonomia negoziale la possibilità di
concludere contratti anche diversi dai tipi normativi, subordina(va), tuttavia, tale riconoscimento alla condizione, ulteriore rispetto alla mera liceità, che il contratto fosse comunque diretto a perseguire “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
L’originario significato di tale previsione è ben esplicitato, ancora un volta, dalla Relazione al Re in cui si legge (par. n. 603): “l’ordine giuridico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto”.

22. Nel contesto così descritto, i valori della dignità umana e della libertà, sia pur presenti, restavano, di fatto, assorbiti dal prius dell’interesse economico nazionale e dell’utilità sociale. Queste considerazioni consentono di individuare la ratio “storica” degli articoli 1337 e 1338 cod. civ. L’ordinamento (codicistico), non essendosi attuato uno scambio economico meritevole di protezione, interveniva per ripristinare la situazione patrimoniale lesa. È manifesto, in tale impostazione, l’afflato economicistico e produttivistico: si apprestano strumenti risarcitori di fronte all’inutilizzazione (mancata conclusione del contratto) od allo sperpero (contratto invalido) di valori patrimoniali.
In questa ricostruzione storica, non è irrilevante sottolineare che la “positivizzazione” che gli articoli 1337 e 1338 cod. civ hanno dato alla c.d. responsabilità precontrattuale aveva rappresentato una novità rispetto al codice previgente, nel vigore del quale, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, influenzate dal “dogma volontaristico”, avevano per molto tempo ritenuto che il recesso dalle trattative fosse un diritto che non potesse essere sindacato e tanto meno dare vita all’obbligo di risarcire i danni all’altro contraente.
La specifica attenzione che il codice civile del 1942 volle, invece, dedicare al dovere di correttezza precontrattuale, e alla conseguente responsabilità derivante dalla sua trasgressione, si spiegava, quindi, proprio alla luce dello stretto rapporto esistente tra i dovere di correttezza precontrattuale e i valori della c.d. solidarietà corporativa.

23. È tuttavia noto come il superamento dell’ordinamento corporativo (e con esso del regime e della cornice ideologica nell’ambito del quale è maturato il codice civile del 1942), e il successivo avvento della Costituzione repubblicana abbiano determinato l’avvio di un processo (cui hanno contribuito tanto la dottrina quanto la giurisprudenza civilistica) di rilettura e rivisitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata, di numerose disposizioni codicistiche, specie di quelle che, come l’art. 1337 cod. civ., utilizzano “clausole generali”
(la buona fede appunto), destinate, per loro stessa natura, ad adeguarsi ai mutamenti che interessano l’ordinamento giuridico e la società civile.
Nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).

24. Il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva. 
La teoria del “contatto sociale qualificato” – in disparte, in questa sede, la questione ampiamente dibattuta, se ed a quale condizioni il contatto possa assurgere a fonte “atipica” di obbligazione – ha avuto il merito di avere messo bene in luce il legame esistente tra l’ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall’altro. 
Un ricorrente elemento che contribuisce a qualificare il contatto sociale come fonte di doveri puntuali di correttezza a tutela dell’altrui affidamento è certamente rappresentato dal particolare status – professionale e, talvolta, pubblicistico – rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”.
Da chi esercita, ad esempio, un’attività professionale “protetta” (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.

25. Nella moderna lettura costituzionalmente orientata, il dovere di correttezza ha così conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942.
La “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile. Nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà.
In particolare, come la giurisprudenza civile ha in più occasioni avuto modo di evidenziare, il dovere di correttezza (nella sue proteiformi manifestazioni concrete) è, nella maggior parte dei casi, strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire
interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.

26. Il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.
Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una trattativa in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione “relazionale” qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative.
Si potrà discutere se, ed eventualmente in quali casi, a seconda dell’intensità e della pregnanza del momento relazionale e della forza dell’affidamento da esso ingenerato, la correttezza continui a rilevare come mera modalità comportamentale la cui violazione dà vita ad un illecito riconducibile al generale dovere del neminen laedere di cui all’art. 2043 cod. civ., o diventi l’oggetto di una vera e propria obbligazione nascente dal “contatto sociale” qualificato. La questione, non direttamente rilevante in questo giudizio (non essendo investita dai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione), è oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale dai risultati così controversi, da rendere inopportuno, in questa sede, ogni ulteriore approfondimento.

27. Quello che, invece, preme sottolineare è che, a giudizio di questa Adunanza Plenaria, l’attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).

28. A favore di questa nuova accezione del dovere di correttezza, prevalentemente legato alla tutela della libertà negoziale (o, comunque, di profili della sfera personale o patrimoniale dell’individuo), si possono richiamare numerosi formanti giurisprudenziali.

29. In primo luogo, la tesi che il dovere di correttezza non sia diretto solo a favorire l’utile conclusione della trattativa (con un contratto valido) trova conferma nell’orientamento accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 19 dicembre 2017, n. 26725, che ha ritenuto configurabile la c.d. responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso. È il caso in cui il comportamento sleale non ha reso la trattativa
inutile (perché il contratto è stato validamente concluso), ma il contraente che ha subito la scorrettezza (ad es. una reticenza informativa antidoverosa), lamenta che a causa di tale slealtà ha concluso un contratto (valido ma) economicamente pregiudizievole.
La citata sentenza delle Sezioni unite, in particolare, ha espressamente affermato che l’art. 1337 cod. civ. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative, ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattate in modo leale, astenendosi da comportamento maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione
dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio ovvero al maggio
aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente conseguenziale e diretto.

30. Ancora, la giurisprudenza civile ha individuato ipotesi in cui la c.d. responsabilità precontrattuale sussiste anche in capo al terzo, ravvisando, a certe condizioni – normalmente rappresentate dallo status professionale qualificato del terzo (intermediari finanziari, banche, professionisti, società di revisione) o, comunque, dal fatto che il terzo abbia un interesse qualificato alla positiva conclusione della trattativa – l’esistenza di un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è “parte” rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios.

30.1. Si fa riferimento, ad esempio, alla responsabilità da prospetto non veritiero, riconosciuta non solo (come accadeva in origine) in capo ai soggetti (società e amministratori in primo luogo) da cui promana il documento informativo rivelatosi falso o inattendibile, ma anche in capo agli intermediari finanziari (terzi rispetto alla trattativa e al futuro contratto di acquisto delle azioni) che sottoscrivano il prospetto accreditandolo presso gli investitori (cfr. Cass. Sez. Un. 8 aprile 2011, n. 8034).

30.2. Similmente, la responsabilità precontrattuale del terzo estraneo alla trattativa è stata ravvisata con riferimento alle c.d. lettere di patronage deboli, aventi contenuto meramente informativo (ad es. circa l’esistenza della posizione di influenza e circa le condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie del patrocinato). Il patrocinante viene, infatti, ad inserirsi nello svolgimento di trattative avviate tra altri soggetti proprio al fine di agevolarne
la positiva conclusione, creando così ragionevoli aspettative sul buon esito dell’operazione; la sua posizione è quindi ben diversa da quella di un terzo che “accidentalmente” venga ad interferire in una vicenda precontrattuale a lui estranea, e tale diversità è sufficiente a giustificare l’applicazione di quelle regole di diligenza, di correttezza e di buona fede, dettate proprio al fine di evitare che gli interessi di quanti partecipano alle trattative possano essere
pregiudicati da comportamenti altrui scorretti (art. 1337 cod. civ.) o anche negligenti (art. 1338 cod. civ.) (in questi termini, ad esempio, Cass. civ., sez. I, 27 settembre 1995, n. 10235).

30.3. In questa prospettiva, merita di essere segnalata anche la giurisprudenza che ha riconosciuto la responsabilità civile della società di revisione per erronea certificazione dello stato patrimoniale di una società (compiuta su incarico di quest’ultima) nei confronti di acquirenti di quote societarie, che non avrebbero stipulato il contratto, ove avessero conosciuto il reale ed inferiore valore della società (cfr. Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2012, n. 10403). 

31. Non va, inoltre, dimenticato che da sempre la giurisprudenza individua doveri di correttezza precontrattuale che trascendono il recesso dalle trattative (o la mancata comunicazione di cause di invalidità di cui all’art. 1338 cod. civ.). Si pensi ad esempio alle ipotesi di responsabilità precontrattuale per violazione dei doveri di riservatezza (per aver rivelato informazioni riservate acquisite durante la trattativa, a prescindere dal suo livello di avanzamento) o di custodia (nei casi in cui, ad esempio, ad una parte della trattativa è data la possibilità di visionare e di usare il bene oggetto dell’eventuale contratto).
Nell’uno e nell’altro caso, la scorrettezza precontrattuale non incide sulla conclusione del contratto, ma sulla tutela dei diritti patrimoniali e personali dell’altra “parte” della trattativa.

32. Questo progressivo ampliamento del dovere di correttezza (anche a prescindere dall’esistenza di una trattativa precontrattuale in senso stretto) ha trovato riscontro anche rispetto all’attività autoritativa della pubblica amministrazione sottoposta al regime del procedimento amministrativo, quando a dolersi della scorrettezza è proprio il privato che partecipa al procedimento.
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 633; Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cass. civ., sez. un. 12  maggio 2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15250).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.

33. Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale.

34. Nell’ambito del procedimento amministrativo (e del procedimento di evidenza pubblica in particolare) regole pubblicistiche e regole privatistiche non operano, dunque, in sequenza temporale (prime le une e poi le altre o anche le altre). Operano, al contrario, in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione.
Le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto).

35. In tale direzione si inserisce il recente orientamento giurisprudenziale con il quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ammesso, ad esempio, la configurabilità (anche al di fuori dall’ambito dei procedimenti amministrativi finalizzati alla conclusione di un contratto) di una responsabilità dell’amministrazione da provvedimento favorevole poi annullato in via giurisdizionale o per autotutela (cfr. Cass. civ., sez. un., ordinanze “gemelle”
23 maggio 2011, nn. 6594, 6595, 6596; Cass. civ., sez. un., 22 gennaio 2015, n. 1162 e Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2015, n. 17586).
In tali pronunce si afferma chiaramente che nei casi in cui, successivamente alla rimozione del provvedimento favorevole, il privato beneficiario prospetti di aver subito un danno ingiusto per avere confidato nella legittimità del provvedimento ed aver regolato la sua azione in base ad esso, la relativa responsabilità dell’amministrazione si connota come responsabilità da comportamento da violazione del diritto soggettivo all’integrità patrimoniale (recte: alla libertà di autodeterminazione negoziale). Il privato, infatti, lamenta
che l’agire scorretto dell’amministrazione ha ingenerato un affidamento incolpevole sulla legittimità del provvedimento attributivo del beneficio e, quindi, sulla legittimità della conseguente attività negoziale (onerosa per il patrimonio del privato) posta in essere in base al provvedimento. Attività che, invece, una volta venuto meno il provvedimento, si rivela, perché anch’essa travolta dalla sua illegittimità, come attività inutile e, quindi, fonte – in quanto onerosa – di perdite o mancati guadagni.
In questi casi, hanno precisato le Sezioni Unite, il provvedimento viene in considerazione come elemento di una più complessa fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di responsabilità solo se e nella misura in cui risulti oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo convincimento della legittimità del provvedimento.

36. In questa prospettiva devono essere lette anche le sentenze con le quali la Corte di Cassazione, superando il precedente più restrittivo orientamento (espresso ad esempio da Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2013, n. 477; Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2015, n. 12313; Cass. civ., sez. un. 26 maggio 1997, n. 4673), ha espressamente affermato che il dovere di correttezza e buona fede (e l’eventuale responsabilità precontrattuale in caso di sua violazione) sussiste, prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica strumentale alla scelta del contraente, che si pone quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale nell’ambito di un sistema di “trattative (c.d. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle offerte, secondo un’impostazione che risulta rafforzata dalla irrevocabilità delle stesse” (cfr. Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260; in termini, nella giurisprudenza amministrativa, cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831).
La giurisprudenza in esame ha condivisibilmente precisato che “la disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato tra p.a. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento.
Diversamente argomentando, l’interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità” (così testualmente Cass. civ., sez. un. n. 15260/2014, cit.).

37. Merita, in tale contesto, di essere richiamata anche la recente sentenza di questo Consiglio di Stato (sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457) che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione. Un modello in cui, “alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino”. In altri termini, precisa la citata sentenza, “l’evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability)”.

38. Anche il legislatore, del resto, ha mostrato un’aperta adesione alla tesi secondo cui i doveri di correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica amministrazione anche quando essa esercita poteri autoritativi sottoposti al regime del procedimento amministrativo.

39. Innanzitutto, l’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nella versione risultante inseguito alla riforma introdotta dall’art. 1 della legge 11 febbraio 2015, n. 15) assoggetta l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume un rilievo primario la tutela dell’affidamento legittimo. È noto, infatti, come il principio della tutela dell’affidamento, sebbene non espressamente contemplato dai Trattati, sia stato più volte affermato dalla Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Topfer del 3 maggio 1978, C-12/77), che lo ha elevato al rango di principio dell’ordinamento comunitario.

40. Sono, inoltre, emblematiche di tale tendenza tutte le riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, non ultima la l. n. 124 del 2015, intervenuta, tra le altre cose, sui presupposti del potere di autotutela, che deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale (cfr. art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quater, l. n. 164 del 2014, e poi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21- quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).

41. Un esplicito richiamo, sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e della buona fede” si trova poi nell’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la legge n. 212 del 2000.

42. In maniera ancora più significativa rispetto alla questione oggetto del presente giudizio, l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990 (introdotto dall’art. 28, comma 10, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazione dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), ha espressamente previsto che “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Secondo l’interpretazione più accreditata, con tale norma il legislatore – superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15 settembre 2005, n. 7 – ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento). 
Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione.
Anche in questo caso viene, quindi, in rilievo un danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali. 

43. Non si tratta, a differenza, dell’indennizzo forfettario introdotto in via sperimentale dal comma 1-bis dello stesso articolo 2-bis (inserito dall’art. 28, comma 9, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 213, n. 98), di un ristoro automatico (collegato alla mera violazione del termine): è, infatti, onere del privato fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere.
La tesi secondo cui quello configurato dall’art. 2-bis, comma 1, rappresenti un’ipotesi tipica di danno da comportamento scorretto (il ritardo) lesivo di un diritto soggettivo (la libertà negoziale) trova, del resto, conferma nella previsione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, Cod. proc. amm., che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Alla luce della concezione c.d. rimediale del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo (abbracciata dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 204 del 2004 e ripresa dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo), la previsione per il danno da ritardo della giurisdizione esclusiva implica necessariamente la (e si giustifica alla luce della)
qualificazione in termini di diritto soggettivo della situazione giuridica lesa dal ritardo dell’amministrazione.
La tesi trova ulteriore conferma nell’articolo 2 della legge n. 241 del 1990, che sottrae il tempo del procedimento alla disponibilità dell’amministrazione e, di conseguenza, riconosce che la pretesa al rispetto del termine assume la consistenza di un diritto soggettivo (un modo di essere della libertà di autodeterminazione negoziale) a fronte della quale l’amministrazione non dispone di un potere ma è gravata da un obbligo.

44. Da tale quadro giurisprudenziale e normativo emerge, quindi, che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato. 
In tale contesto, pertanto, risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilitànprecontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione.
Aderendo a tale impostazione, si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico “zone franche” di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale” e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell’ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza emergente dal percorso giurisprudenziale e normativo di cui si è dato atto.

45. Non sono decisivi, in senso contrario, nemmeno gli argomenti strettamente civilistici che l’ordinanza di rimessione desume dalla considerazione secondo cui il bando di gara andrebbe qualificato alla stregua di un’offerta al pubblico, alla quale non sarebbe applicabile l’art. 1328, primo comma, cod. civ., che prevede, solo in capo a colui che revoca la proposta individualizzata, l’obbligo di indennizzare l’accettante in buona fede “delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto”.

46. Va, in primo luogo, evidenziato che l’obbligo di indennizzo previsto dall’art. 1328, primo comma, cod. civ., a carico del revocante la proposta contrattuale non costituisce un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, ma una forma di responsabilità da atto lecito dannoso: l’obbligo indennitario prescinde, infatti, dalla violazione delle regole di correttezza e sussiste solo per l’affidamento suscitato dalla proposta revocata. Il quantum dell’indennizzo, infatti, non copre interamente il danno subito, ma è circoscritto solo alle spese e alle perdite riconducibili all’inizio di esecuzione.
La responsabilità precontrattuale presuppone, invece, la violazione del dovere di correttezza ed è configurabile sia nella fase che precede la proposta, sia dopo la proposta (ancorché non vi sia stato inizio di esecuzione). In tal caso il risarcimento (a differenza dell’indennizzo di cui all’art. 1328, primo comma, cod. civ.) copre interamente il danno subito, normalmente correlato al c.d. interesse negativo.
L’inapplicabilità dell’art. 1328, primo comma, cod. civ. non è, pertanto, argomento di per sé sufficiente per escludere la configurabilità della responsabilità precontrattuale in caso di offerta al pubblico, in quanto la citata disposizione non disciplina un caso di responsabilità precontrattuale in senso proprio.

47. In ogni caso, la questione dell’applicabilità dell’art. 1328, primo comma, cod. civ. all’offerta al pubblico è ancora aperta nel dibattito civilistico: la questione è stata raramente affrontata in giurisprudenza, ma la dottrina prevalente, muovendo dall’assimilazione, desumibile dall’art. 1336 cod. civ., tra proposta individualizzata e offerta al pubblico, sostiene l’applicabilità della stessa regola, seppure con la precisazione che, in sede applicativa, dovrà essere valorizzata la peculiarità della situazione di affidamento in relazione alla tipologia di offerta e di contratto, con la conseguenza che in caso di offerta al
pubblico la verifica della buona fede non potrà esaurirsi nella considerazione dell’ignoranza della revoca, ma estendersi alla valutazione della ragionevolezza e prudenza nella scelta di avvio dell’esecuzione. 

48. Per ragioni analoghe a quelle fino ad ora esposte, merita di essere risolto in termini negativi anche il secondo quesito che l’ordinanza di rimessione ha posto all’attenzione di questa Adunanza plenaria, ovvero se la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nella fase anteriore all’aggiudicazione debba riguardare esclusivamente il comportamento anteriore al bando, e, quindi, debba essere circoscritta alle ipotesi in cui l’amministrazione ha fatto sì che il bando venisse pubblicato nonostante fosse conosciuto o conoscibile che non vi erano i presupposti indefettibili.

49. La limitazione, prospettata (in via subordinata) dall’ordinanza di rimessione, della responsabilità dell’amministrazione ai soli comportamenti anteriori al bando è volta ad introdurre, aprioristicamente e in astratto, limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile.
L’illecito civile si incentra sull’ingiusta lesione della situazione giuridica soggettiva (o, in caso di responsabilità contrattuale, sull’inadempimento dell’obbligazione), senza che assumano rilievo le specifiche modalità comportamentali che hanno determinato tale lesione (o l’inadempimento dell’obbligazione). È, dunque, mutuando una qualificazione penalistica, un
illecito a forma libera e causalmente orientato.
Deve, pertanto, ritenersi che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede.

50. Le pur meritorie preoccupazioni (legate al timore di una estensione eccessiva e ingiustificata della responsabilità della p.a.), che hanno indotto la Sezione rimettente a sostenere la tesi restrittiva, non possono, quindi, essere affrontate introducendo aprioristiche e ingiustificate limitazioni di responsabilità, ma vanno superate attraverso una rigorosa verifica, da svolgersi necessariamente in concreto, circa l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del danno.

51. A tal fine, è opportuno precisare che affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose).
Oltre alla puntuale verifica dell’esistenza dell’affidamento incolpevole, occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo.
Significativo, sotto tale profilo, lo spunto offerto, ai fini di una ricostruzione sistematica della responsabilità da comportamento scorretto, dal già richiamato art. 2-bis legge n. 241 del 1990, che, nel tipizzare uno specifico caso di scorrettezza procedimentale (il ritardo), ha espressamente previsto che l’inosservanza del termine (comportamento oggettivamente scorretto) è fonte di responsabilità solo se ne risulti il carattere doloso e colposo. È evidente, in tale previsione normativa, il richiamo all’art. 2043 c.c. e al relativo regime
probatorio;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. Occorre, dunque, che dimostri che il comportamento scorretto dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica civilistica
del “più probabile che non”, la condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede il risarcimento. In altri termini, il privato deve fornire la prova che quelle scelte negoziali non sarebbero state compiute ove l’amministrazione si fosse comportata correttamente.

52. La necessità di definire e accertare con rigore tali elementi costitutivi trova riscontro nella considerazione che il confine che segna la nascita della responsabilità precontrattuale rappresenta un delicato punto di equilibrio tra opposti valori meritevoli di tutela. Si tratta, per certi versi, del momento di incontro tra due diverse manifestazioni della stessa libertà negoziale: da un lato, quella di chi subisce il recesso dalle trattative (o, comunque, la lesione dell’affidamento sulla serietà delle stesse), dall’altro, la libertà contrattuale di chi, prima dell’insorgenza del vincolo contrattuale, decide di interrompere il procedimento di formazione del contratto.
Nel caso di contratti stipulati all’esito delle procedure di evidenza pubblica, inoltre, è in gioco, oltre alla libertà contrattuale della stazione appaltante, anche l’interesse pubblico alla cui tutela è preordinato l’esercizio dei poteri di autotutela provvedimentale sugli atti di gara.
Il punto di partenza, pertanto, non può che essere quello per cui chi entra in una trattativa precontrattuale (specie se condotta nelle forme del procedimento di evidenza pubblica, soggetto anche ai poteri di autotutela pubblicistici preordinati alla cura dell’interesse pubblico), si assume un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto. In altri termini, ciascuna parte che intraprende una trattativa (o partecipa ad un procedimento di gara) sa che è esposta ad un margine di rischio, che, in linea di principio,
deriva dall’esercizio della libertà contrattuale di entrambe le parti, e quindi anche dal legittimo esercizio alla libertà contrattuale dell’amministrazione.
La principale conseguenza derivante dalla responsabilità precontrattuale è di modificare questa naturale allocazione dei rischi economici: l’insorgenza della responsabilità precontrattuale determina il trasferimento dei costi sostenuti per partecipare alla trattativa (o alla gara) da un soggetto ad un altro, cui è imputabile la scorrettezza.
Nella ricerca di questo delicato punto di equilibrio tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio delle sue prerogative pubblicistiche da una parte, rispetto del limite della correttezza e della buona fede, dall’altro, è opportuno, allora, rimarcare puntualmente i sopra elencati elementi costitutivi della fattispecie generatrice di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione.

53. Nella stessa prospettiva, va sottolineato che lo stesso affidamento incolpevole del privato, oltre ad essere soltanto uno degli elementi della complessa fattispecie che perfeziona l’illecito, deve, peraltro, essere valutato tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e sempre considerando che nell’ambito del procedimento amministrativo (a maggior ragione in quello di evidenza pubblica cui partecipano operatori economici qualificati), il dovere di correttezza è un dovere reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a sua volta gravato da oneri di diligenza e di leale collaborazione verso l’Amministrazione.

54. Gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede all’applicazione di tali principi (e si verifica, quindi, nel caso concreto, se effettivamente ricorrono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità) sono molteplici e non predeterminabili in astratto, perché dipendono dalla innumerevoli variabili che possono, di volta in volta, connotare la specifica situazione.
Solo a titolo esemplificativo, si può, tuttavia, evidenziare la necessità di valutare con particolare attenzione in sede applicativa i seguenti profili, che rappresentano significativi sintomi in grado di condizionare il giudizio sull’esistenza dei sopra richiamati presupposti della responsabilità:

a) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);

b) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara;

c) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo);

d) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata);

e) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione 
del contratto).

55. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:

1. Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza.

2. Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento.

3. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede.

4. Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. .......................................... ".

Ai sensi dell’art. 1337 c.c., “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”. La violazione di questa norma comporta la c.d. responsabilità precontrattuale, la quale discende dai comportamenti contro buona fede nel corso delle trattative contrattuali.

Tale tipo di responsabilità è ormai riconosciuta anche in capo ai soggetti pubblici, per le condotte  nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica: in questi casi l’amministrazione, in un certo senso, viene considerata come un qualsiasi contraente.

Pertanto i comportamenti amministrativi che, pur essendo di per sé legittimi, siano in senso ampio “scorretti”, perché contrari ai doveri di buona fede, danno vita al diritto al risarcimento del danno per il privato incolpevole.

In particolare, nel caso in cui lo stato delle trattative sia ormai avanzato, e il privato abbia un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto, una rottura delle trattativa non giustificata da fatti idonei comporta la responsabilità per danni (Cons. Stato Sez. III, 15 aprile 2016, n. 1532).

Segue l'estratto dal provvedimento giurisdizionale amministrativo.

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FATTO

1. La controversia ha natura risarcitoria.

2. La xxxxxxxxxxxxxx (di seguito comunque: “ xxxxxxxxxxxxxx”) ha sottoposto al Comune una proposta di finanza di progetto avente a oggetto “interventi di efficienza energetica dei corpi illuminanti e servizio di gestione, manutenzione degli stessi e fornitura di energia elettrica con l’opzione del finanziamento conto terzi tramite concessione”.

Sulla suddetta proposta di finanza di progetto è intervenuta la dichiarazione di pubblico interesse da parte del Comune.

La società è poi risultata aggiudicataria provvisoria del contratto in questione all’esito della gara a evidenza pubblica svolta dal Comune.

Prima dell’aggiudicazione definitiva (mai intervenuta) il Comune ha esercitato l’autotutela nei confronti degli atti della procedura di finanza di progetto.

3. xxxxxxxxxxxxxx ha quindi agito, con ricorso al Tar Lombardia – Milano, per ottenere la condanna del Comune di xxxxxxxxxxxxxx al risarcimento, a titolo di responsabilità contrattuale ovvero precontrattuale, o in subordine al pagamento dell’indennizzo ex articolo 21 quinquies L. n. 241/1990, dei danni che assume di avere patito in conseguenza della revoca degli atti di affidamento, per effetto della mancata conclusione ed esecuzione del contratto di concessione in finanza di progetto.

In particolare, la società ha chiesto di essere tenuta indenne delle seguenti voci di danno, maggiorate di rivalutazione monetaria e interessi compensativi:

(a) Є 200,00 per imposta di registro, Є 45,00 per imposta di bollo, Є 11.585,62 per diritti di segreteria;

(b) Є 25.593,45 per la polizza fideiussoria stipulata a titolo di cauzione definitiva;

(c) Є 37.350,00 per onorari professionali per la redazione del progetto preliminare;

(d) Є 40.000,00 per onorari professionali per la redazione del piano regolatore illuminazione comunale – PRIC;

(e) Є 5.625,00 per i costi interni relativi a spese tecniche e alla predisposizione dell’offerta;

(f) Є 10.000,00 per l’asseverazione del piano economico-finanziario;

(g) danno da perdita di occasioni favorevoli e da mancato utile, quantificato in Є 1.812.116,00, e il danno curriculare, quantificato in Є 124.174,09, ovvero nella diversa somma stabilita dal Tribunale in corso di causa, anche tramite espletanda CTU o verificazione.

4. Il Tar, con sentenza 23 luglio 2018 n. 1794, lo ha accolto nei limiti di cui in motivazione, condannando l’amministrazione a risarcire il danno derivante dai costi interni relativi a spese tecniche e alla predisposizione dell’offerta, pari a Є 5.265,00.

5. xxxxxxxxxxxxxx ha appellato la sentenza con ricorso n. 882 del 2019.

6. Il Comune di xxxxxxxxxxxxxx ha presentato appello incidentale.

7. All’udienza del 9 novembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

8. L’appello è parzialmente fondato, nei limiti di seguito illustrati.

L’appello incidentale è infondato.

9. Si premette che il Tar ha riconosciuto la responsabilità precontrattuale del Comune mentre ha ritenuto “destituita di fondamento” la domanda di xxxxxxxxxxxxxx evocante la responsabilità contrattuale comunale.

Detto capo della sentenza appellata non è oggetto di appello. Né è stata riproposta dall’appellante la domanda, proposta in primo grado in via subordinata da xxxxxxxxxxxxxx e non esaminata dal Tar, circa la corresponsione dell’indennizzo.

Pertanto in questo grado di giudizio il thema decidendum è rappresentato dalla sola domanda di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale, di cui il Comune contesta l’an (con appello incidentale) e il quantum già riconosciuto dal Tar e xxxxxxxxxxxxxx il quantum (con appello principale).

10. In ragione del criterio della radicalità del vizio deve essere scrutinato prioritariamente l’appello incidentale, nella parte in cui censura la sentenza per avere riconosciuto l’an della responsabilità precontrattuale.

11. Con il primo motivo l’appellante incidentale ha infatti dedotto l’erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar ha ritenuto sussistente la responsabilità precontrattuale del Comune muovendo dalla sentenza n. 5 del 2018 dell’Adunanza plenaria.

11.1. Con il secondo motivo l’appellante incidentale ha censurato la sentenza argomentando in ordine al fatto che “l’aggiudicazione provvisoria non fa sorgere posizioni risarcibili o indennizzabili in capo all’aggiudicatario provvisorio”.

11.3. I motivi sono infondati.

11.4. La domanda risarcitoria ha ad oggetto i danni che l’appellante assume aver patito in conseguenza della complessiva condotta tenuta dal Comune, “per avere il medesimo Comune dapprima adottato i positivi provvedimenti conseguenti alla richiesta 22 dicembre 2014 della ricorrente (recante: “Manifestazione di interesse per ricerca e sperimentazione di interventi di efficienza energetica dei corpi illuminati e servizio di gestione, manutenzione degli stessi e fornitura di energia elettrica con l’opzione del finanziamento conto terzi tramite concessione”), tra cui quello di approvazione del progetto (25 marzo 2015) e quello d’indizione della conseguente gara di project financing (15 aprile 2015) - avente ad oggetto la concessione del servizio di gestione, manutenzione e riqualificazione della pubblica amministrazione per anni 20 -, per avere aggiudicato provvisoriamente alla ricorrente la gara stessa (25 maggio 2015) e per avere poi il medesimo Comune annullato e/o revocato tutti gli atti predetti, compresa l’aggiudicazione provvisoria (con provvedimenti 23 settembre 2016 e 8 novembre 2016)”.

Il Tar ha riconosciuto la responsabilità precontrattuale del Comune in quanto esso, all’esito dell’istruttoria affidata a una commissione tecnica all’uopo costituita, ha, “nell’ordine, dichiarato il pubblico interesse sulla proposta di finanza di progetto presentata dalla xxxxxxxxxxxxxx, indetto una procedura di evidenza pubblica ponendo a base di gara il progetto dell’odierna ricorrente, aggiudicato provvisoriamente alla medesima il relativo contratto”, così ingenerando “l’affidamento della proponente prima nella fattibilità della proposta, poi nella aggiudicazione definitiva del contratto”.

11.5. L’appello incidentale chiama questo Collegio a pronunciarsi in ordine alla riconoscibilità nel caso di specie di una responsabilità precontrattuale del Comune di xxxxxxxxxxxxxx.

In termini generali “Chi entra in una trattativa precontrattuale (specie se condotta nelle forme del procedimento di evidenza pubblica, soggetto anche ai poteri di autotutela pubblicistici preordinati alla cura dell’interesse pubblico), si assume un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto”. Infatti “ciascuna parte che intraprende una trattativa (o partecipa ad un procedimento di gara) sa che è esposta ad un margine di rischio, che, in linea di principio, deriva dall’esercizio della libertà contrattuale di entrambe le parti, e quindi anche dal legittimo esercizio alla libertà contrattuale dell’amministrazione” (Ad. plen. 4 maggio 2018 n. 5).

Il riconoscimento della responsabilità precontrattuale modifica la naturale allocazione dei rischi economici sostenuti per partecipare alla trattativa (o alla gara): l'insorgenza della responsabilità precontrattuale determina il trasferimento dei costi da un soggetto ad un altro, cui è imputabile la scorrettezza.

Perché si abbia il trasferimento del rischio bisogna che vi sia, da un lato, un comportamento scorretto e, dall’altro lato, un affidamento incolpevole: detti elementi costituiscono i presupposti che garantiscono un idoneo punto di equilibrio tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e l’esercizio delle prerogative pubblicistiche di quest’ultima e il limite della correttezza e della buona fede.

In ambito civilistico tradizionalmente la responsabilità precontrattuale postula che l’affidamento abbia ad oggetto lo svolgimento di trattative che non siano inutili: tipicamente le trattative sono inutili laddove una delle controparti le intraprende senza avere intenzione di stipulare il contratto o sapendo, o dovendo sapere, di stipulare un contratto invalido, così violando il dovere di buona fede.

Anche in ambito pubblicistico, l’art. 1 comma 2-bis della legge n. 241 del 1990 n. 241 dispone che i “rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”, positivizzando una regola generale delle relazioni giuridiche intersoggettive, che, in ambito pubblicistico, oltre a connotarsi per specifiche declinazioni, trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 comma 2 Cost.).

A fronte del dovere di buona fede si pone l’affidamento sulla correttezza dell’operato di controparte e, nella specie, dell’amministrazione (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21, 4 maggio 2018 n. 5 e 5 settembre 2005 n. 6).

Nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi” (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21).

Nel settore delle procedure di affidamento dei contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione postula che l’amministrazione abbia violato il dovere di buona fede e che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento e che questo affidamento non sia a propria volta inficiato da colpa.

L’affidamento si dipana in modo diverso a seconda del tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone (così l’Ad. plen 4 maggio 2018 n. 5).

Nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre tuttavia che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 cod. civ. (Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2016 n. 7545).

Analogamente, in ambito pubblicistico, l’affidamento è legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante (Cons. St., sez. II, 20 novembre 2020 n. 7237).

L’aggiudicazione è dunque considerato il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale.

Nondimeno la giurisprudenza ha negato rilievo ostativo al riconoscimento della responsabilità precontrattuale nei casi nei quali non è intervenuta l’aggiudicazione definitiva (nell’ottica del d. lgs. n. 163 del 2006 ratione temporis vigente, mentre il riferimento è all’aggiudicazione nel vigore del d. lgs. n. 50 del 2016)

La Corte di cassazione ha infatti affermato che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile “indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto”; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale “a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante” (Cass., sez. I, 3 luglio 2014 n. 15260).

Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto che “il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale”.

Nella medesima prospettiva di un accertamento in concreto degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale si è del resto espressa questa Adunanza plenaria nella più volte richiamata sentenza 4 maggio 2018, n. 5, secondo cui la responsabilità precontrattuale può insorgere “anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede”.

Detto ciò, nella procedura di project financing disciplinata dall’art. 153 comma 19 del d. lgs. n. 163 del 2006 occorre distinguere tre fasi: 

- la prima fase, ancorché in qualche misura procedimentalizzata, è connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, essendo intesa non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici predeterminati, ma all’accoglimento della proposta formulata dall’aspirante promotore inerente alla presentazione della proposta di finanza di progetto, in cui si esprime la valutazione dell’interesse pubblico, di competenza dell’organo di governo; - la seconda fase è caratterizzata dall’inserimento dell’opera dichiarata di pubblico interesse nella programmazione triennale, con sottoposizione ad approvazione del progetto preliminare;

- la terza fase prevede l’indizione di una gara sul progetto approvato, rimessa alla competenza della dirigenza e soggetta, come tale, ai principi comunitari e nazionali in materia di evidenza pubblica.

Laddove la procedura di project financing non superi la prima fase nessuna gara è venuta ad esistenza e nessun affidamento può essersi ingenerato nel partecipante in quanto è esso stesso che si assume il rischio di fare una proposta che solo nel caso in cui sia riscontrata positivamente determina l’avvio della gara, a seguito del quale comunicano le trattative, seppur con le forme del diritto pubblico.

Nel caso di specie il Comune, all’esito dell’istruttoria affidata a una commissione tecnica all’uopo costituita, ha, nell’ordine, dichiarato il pubblico interesse sulla proposta di finanza di progetto presentata dalla xxxxxxxxxxxxxx, indetto una procedura di evidenza pubblica ponendo a base di gara il progetto dell’odierna ricorrente, aggiudicato provvisoriamente alla medesima il relativo contratto.

La procedura de quo è quindi entrata nella terza fase, fermandosi all’aggiudicazione provvisoria.

Dopo l’indizione della gara e prima dell’aggiudicazione definitiva l’amministrazione ha infatti esercitato l’autotutela nei confronti dell’aggiudicazione provvisoria e degli atti della procedura di finanza di progetto.

Elemento centrale della pretesa condotta ingiusta dell’Amministrazione è la revoca dell’aggiudicazione provvisoria, in assenza della quale l’appellante non avrebbe patito l’asserito danno.

La revoca è motivata in ragione della maggiore convenienza economica dell’adesione alla convenzione Consip rispetto al contratto che sarebbe stato stipulato con xxxxxxxxxxxxxx.

La revoca non è stata impugnata, né si pone il problema di valutarne la legittimità in quanto, come già sopra precisato, si controverte sulla responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione da trattative inutili, non su quella contrattuale.

Sicché la questione che si pone è se le trattative svolte con l’Amministrazione, prima della revoca (e dopo l’indizione della gara), sono state inutili e se tale inutilità è imputabile all’Amministrazione. Non rileva pertanto la mancata impugnazione della revoca, funzionale rispetto al (diverso e qui non oggetto di controversia) riconoscimento della responsabilità da mancata aggiudicazione.

L’affidamento di xxxxxxxxxxxxxx, in tesi violato, è quello a non svolgere trattative inutili.

Nel caso di specie il ritiro degli atti di gara, anche se legittimo, fa emergere che le trattative avrebbe potuto non iniziare se l’amministrazione avesse ottemperato agli obblighi di legge per tempo.

In particolare, l’art. 26 comma 3 della legge n. 488 del 1999 dispone che le amministrazioni possano aderire a convenzioni Consip ovvero, nel caso in cui decidano di non aderirvi, “ne utilizzano i parametri prezzo-qualità, come limiti massimi, per acquisto di beni e servizi comparabili oggetto delle stesse”.

La formulazione, che vede, nella prima parte, l’utilizzo del verbo “possono”, se letta congiuntamente alla seconda parte impone all’Amministrazione di utilizzare i parametri prezzo-qualità delle convenzioni Consip, o aderendovi o comunque assicurando il rispetto del parametro economico.

La cogenza della prescrizione risulta ancor più evidente se si considera quanto precisato di seguito, cioè che “La stipulazione di un contratto in violazione del presente comma è causa di responsabilità amministrativa”, con determinazione del danno erariale pari alla “differenza tra il prezzo previsto nelle convenzioni e quello indicato nel contratto”.

La regola è ribadita dall’art. 1 comma 449 della legge n. 296 del 2006, secondo cui tutte le amministrazioni “di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, possono ricorrere” alle convenzioni Consip “ovvero ne utilizzano” in ogni caso “i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione” dei relativi contratti.

Quindi sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di valutare e paragonare i contratti avente a oggetto beni e servizi con l’offerta Consip.

Come specificato dalla stessa Amministrazione la convenzione Consip riguardante il “Servizio Luce 3” esiste sin dal 14 novembre 2014 e di essa “non si è tenuto conto né per valutare l’opportunità di aderire alla stessa, né per l’esperimento del necessario controllo di rispetto dei “parametri di prezzo-qualità come limiti massimi” (così dal provvedimento impugnato).

Era quindi possibile aderire a detta convenzione o utilizzarla come parametro di qualità prezzo quando l’Amministrazione ha, con deliberazione n. 43 del 25 marzo 2015, approvato il progetto preliminare proposto dalla società, dichiarandolo di pubblico interesse e inserendolo nel programma triennale delle opere pubbliche, e quando, con determinazione dirigenziale del 14 aprile 2015, ha indetto la gara per l’affidamento in concessione dei relativi lavori e dei servizi.

In particolare nella determina n. 303 del 15 aprile 2015 si leggono i riferimenti al progetto presentato da xxxxxxxxxxxxxx, del quale vengono indicati alcuni dati economici.

Con la stessa delibera è stata indetta la “gara con procedura aperta e con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, approvando “Bando, Disciplinare di Gara ed estratto per la pubblicazione”, avente a oggetto la gara per “l’affidamento della concessione del servizio di gestione, manutenzione e riqualificazione della pubblica illuminazione per la durata di anni 20, avente ad oggetto le seguenti principali prestazioni: a. la redazione del progetto definitivo delle opere da realizzare; b. la redazione, da parte dell’aggiudicatario, del progetto esecutivo e l’esecuzione dei lavori occorrenti per la realizzazione delle opere e l’erogazione dei servizi; c. la manutenzione e la gestione degli impianti di illuminazione nonché il miglioramento dell’efficienza energetica e la messa a norma degli impianti stessi”.

E’ la stessa Amministrazione a precisare nel provvedimento impugnato che “il 15 aprile 2015, quando il Dirigente dell’Area Amministrativa/Finanziaria e Tecnica ha indetto la Procedura e approvato i relativi bando e disciplinare (determinazione dirigenziale n. 303/2015)” “la convenzione Consip “Servizio Luce 3” era attiva ma è stata in toto negletta e non sono, di conseguenza, stati tenuti in alcun conto e valutati “i parametri di prezzo-qualità” previsti dalla stessa da porre ex art. 1 comma 449 l. 296/2006 “come limiti massimi” ove l’Ente intendesse optare per l’affidamento del servizio medesimo al di fuori della piattaforma Consip.

Pertanto è da quella data che l’Amministrazione avrebbe potuto (rectius dovuto) considerare la proposta Consip (considerato anche che xxxxxxxxxxxxxx aveva già presentato una proposta corredata dai documenti di cui all’art. 153 comma 19 del d. lgs. n. 163 del 2006, e quindi evitare trattative inutili per xxxxxxxxxxxxxx.

Detta condotta è stata posta in essere non iure, in violazione di uno specifico obbligo di legge, che ha determinato la violazione del dovere di correttezza nei confronti di xxxxxxxxxxxxxx.

Pertanto il ritiro, indipendentemente dal fatto che sia legittimo (o meno), anzi proprio per il fatto che esso certifica la sussistenza degli obblighi sopra riferiti sin da prima che venisse indetta la procedura di gara, evidenzia che l’amministrazione ha inutilmente condotto una procedura di gara e così ingenerato e fatto maturare il convincimento che la partecipazione alla procedura non fosse inutile, potendo addivenire a un esito positivo.

Individuato il primo requisito dell’affidamento di xxxxxxxxxxxxxx a non svolgere trattative inutili, il secondo requisito da verificare consiste nell’imputabilità della violazione del canone della buona fede, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

La suddetta violazione non è giustificabile. Non rinvenendosi motivi per ritenere che detto obbligo non sia cogente e che il mancato adempimento dello stesso, determinando l’invalidità del contratto, rappresenti una violazione del canone della buona fede rispetto ai partecipanti alla gara. E ciò a prescindere dalla questione relativa alla necessità di scrutinare l’elemento soggettivo in caso di responsabilità nelle procedure a evidenza pubblica (ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo la nota sentenza 30 settembre 2010, C 314/09 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, non assume rilievo il carattere colpevole della condotta dell’amministrazione).

A sua volta non deve essere inficiato da colpa l’affidamento del concorrente. Sul punto va richiamato l’art. 1338 cod. civ., il quale assoggetta a responsabilità precontrattuale la “parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte”.

Se infatti il motivo che ha determinato la stazione appaltante ad annullare in autotutela la gara è conoscibile dal concorrente, la responsabilità della prima deve escludersi (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21).

Nel caso di specie non si può ritenere che l’affidamento di xxxxxxxxxxxxxx (a non svolgere trattative inutili) non sia incolpevole, sostenendo che la società avrebbe dovuto conoscere, in quanto operatore del settore, la norma imperativa di cui all’art. 26 comma 3 della legge n. 488 del 1999.

In disparte la valutazione sulla conoscibilità del precetto in astratto, in ogni caso la declinazione concreta dell’obbligo de quo ha richiesto un approfondimento tecnico, senza il quale né l’Amministrazione, né controparte avrebbe potuto comprendere la violazione o meno della prescrizione.

E’ la stessa Amministrazione a dedurre, nell’appello incidentale, che la “complessità dell’esame tecnico su caratteri di proposta […] e offerta […] di xxxxxxxxxxxxxx rispetto ai contenuti della procedura Consip c.d. “Servizio Luce 3” impose (doc. 45) di chiedere l’ausilio di un consulente esterno”.

Il consulente ha infatti approfondito la comparazione fra la convenzione Consip e l’offerta di xxxxxxxxxxxxxx con quattro relazioni, 16 novembre 2015, 2 febbraio 2016, 6 marzo 2016 e 21 luglio 2016.

Considerato l’impegno istruttorio messo dall’Amministrazione per comparare la convenzione Consip con la proposta di xxxxxxxxxxxxxx, quest’ultima non era nelle condizioni di valutare ex se se l’Amministrazione stava o meno violando l’obbligo di cui all’art. 26 comma 3 della legge n. 488 del 1999

Pertanto non si può affermare che l’affidamento di xxxxxxxxxxxxxx non sia incolpevole.

Accertato quindi che l’Amministrazione ha violato la buona fede precontrattuale e che xxxxxxxxxxxxxx versava in una situazione di affidamento incolpevole non si ravvisano motivi per riformare la statuizione del Tar relativa alla responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione.

11.6. I suddetti motivi dell’appello incidentale sono pertanto infondati.

12. Si tratta a questo punto di valutare l’ammontare dei danni risarcibili.

Con la sentenza appellata il Tar ha condannato il Comune a risarcire un danno di Єuro 5.265,00 quali costi interni relativi a spese tecniche e alla predisposizione dell’offerta.

13. Con l’appello incidentale è stato censurato detto capo della sentenza con riferimento all’ammontare del danno (mentre non è stata specificamente censurata la statuizione relativa agli accessori, che quindi non è oggetto del presente scrutinio).

13.1. La censura non è meritevole di accoglimento.

13.2. Non è fondata l’argomentazione in ragione della quale detti costi sono affrontati dall’offerente “sperando che l’aggiudicazione definitiva (qui neppure disposta) giunga in suo favore”.

I danni qui controversi derivano dai costi affrontati da xxxxxxxxxxxxxx per trattative rivelatesi inutili, non per una mancata aggiudicazione: fra detti costi vi sono anche quelli del personale.

L’ammontare del danno è stato quantificato in misura forfettaria e, rispetto al valore dell’appalto, è contenuto, sicché non sussistono i presupposti per decurtarlo ulteriormente in ragione del fatto che manca la dimostrazione che il personale stesso non avrebbe potuto essere occupato diversamente.

13.4. La statuizione di condanna del Tar relativamente a tale voce di danno deve quindi essere confermata.

14. Con l’appello xxxxxxxxxxxxxx ha censurato la sentenza nella parte in cui il Tar ha respinto le altre voci di danno, chiedendone il riconoscimento.

14.1. L’esito del giudizio sull’appello esime il Collegio dal valutare la questione, dedotta da xxxxxxxxxxxxxx, della tardività nel deposito dei documenti in primo grado (e la connessa richiesta di deferimento all’Adunanza plenaria), dal momento che lo scrutinio dei restanti motivi prescinde dalla decisione circa la necessità che sia rispettato l’orario entro il quale deve essere depositata la documentazione, stabilito nelle ore 12,00 del giorno di scadenza del termine a ritroso di cui all’art. 73 c.p.a.

Lo stesso è a dirsi con riferimento ai documenti depositati in appello, la cui valutazione di tardività non è parimenti necessaria ai fini dello scrutinio dei motivi di impugnazione (nei termini di seguito esposti).

14.2. In particolare, la società appellante ha chiesto, con il ricorso in appello di essere tenuta indenne delle seguenti ulteriori (rispetto a quanto già riconosciuto in sentenza) voci di danno (già chieste in primo grado), maggiorate di rivalutazione monetaria e interessi compensativi.

14.2.1. La prima voce, che ammonta a Є 25.593,45, riguarda la polizza fideiussoria stipulata a titolo di cauzione definitiva.

Con riferimento a detta voce di danno è stato documentalmente provato in giudizio che, nelle more delle valutazioni operate dal Comune di xxxxxxxxxxxxxx a seguito dell’aggiudicazione definitiva, il Comune stesso ha richiesto la produzione della garanzia definitiva, non potendo quindi ritenersi che la società sia stata imprudente a sottoscriverla (così la sentenza impugnata).

La statuizione, impugnata (anche) con appello incidentale in ordine al motivo speso dal giudice di primo grado per supportare la decisione di non riconoscere tale voce di danno, non merita riforma, dovendosi confermare il mancato riconoscimento di tale voce di danno in quanto vi è la prova della richiesta del Comune in tal senso (mail in atti in data 3 maggio 2018).

La statuizione del Tar circa il riconoscimento dell’an di detta voce di danno si basa sulla documentazione depositata dalla parte il 3 maggio 2018, ritenuta ammissibile dal Tar in quanto depositata per contrastare un argomento difensivo sviluppato dalla controparte solamente nella memoria depositata in data 23 aprile 2018.

Il Tar ha poi ritenuto non provato l’avvenuto pagamento del premio da parte della società xxxxxxxxxxxxxx alla compagnia assicuratrice: la relativa documentazione è stata depositata oltre i termini di cui all’art. 73 c.p.a.

Detta ultima statuizione merita di essere riformata.

Delle due l’una: o il mancato pagamento del premio non è stato contestato in primo grado dall’Amministrazione o deve ammettersi la produzione della prova del pagamento del premio per gli stessi motivi per i quali è stata ammessa la documentazione versata in atti il 3 maggio 2018.

Nella prima prospettiva (omessa contestazione del mancato pagamento del premio) si rileva che xxxxxxxxxxxxxx ha chiesto il ristoro di detta voce di spesa con il ricorso introduttivo, accompagnato dal deposito (tempestivo) dello schema di polizza fideiussoria, che riporta l’ammontare della spesa.

Il Comune, richiamata la tardività della documentazione depositata il 13 aprile 2018, si è limitato ad argomentare sulla non debenza della cauzione definitiva prima della stipulazione del contratto.

Il tema del mancato deposito del contratto perfezionato con l’assicurazione nell’ambito del procedimento è riferito alla produzione documentale nell’ambito del procedimento amministrativo, non in giudizio. In tal senso deve leggersi l’assunto in base al quale “non c’è un originale agli atti, in quanto si sarebbe dovuto consegnare all’atto della sottoscrizione” del contratto, mai avvenuta nel nostro caso”, assunto che peraltro fornisce la giustificazione del mancato deposito del contratto nella procedura, cioè il fatto che il contratto oggetto di gara dovesse ancora essere stipulato, non negando quindi che il contratto di assicurazione fosse stato stipulato.

Non risulta quindi contestata l’affermazione di xxxxxxxxxxxxxx di avere pagato la polizza assicurativa, con conseguente irrilevanza del momento di produzione documentale attestante quel fatto.

Se invece si ritiene che l’Amministrazione abbia contestato l’avvenuto pagamento della polizza si deve ritenere che la documentazione riguardante detto pagamento sia ammissibile essendo stata prodotta per contrastare un assunto di controparte (così come ritenuto dal Tar in relazione alla corrispondenza depositata il 3 maggio 2018 per comprovare la richiesta del comune di produrre la cauzione definitiva), che ha prodotto memorie di merito solo in data 23 aprile 2018 e 3 maggio 2018 (a ridosso, seppur ritualmente, dell’udienza pubblica).

E’ vero che la documentazione de quo è stata depositata il 13 aprile 2018, quindi prima delle due memorie, ma è pur vero che non risponde a logica richiedere che quella documentazione fosse ulteriormente depositata dopo le memorie, quando lo è già stata in precedenza, seppur oltre il termine di quaranta giorni di cui all’art. 73 c.p.a.

Per i motivi sopra esposti, pertanto, deve riformarsi la decisione del Tar in merito alla somma di Є 25.593,45, che xxxxxxxxxxxxxx ha affermato essere stata corrisposta per la polizza fideiussoria stipulata a titolo di cauzione definitiva. E ciò nonostante le argomentazioni spese in appello, ma non in primo grado, da parte dell’Amministrazione circa il mantenimento pluriennale della cauzione: risulta infatti il pagamento della somma richiesta, pari a Є 25.593,45, indicata nella documentazione prodotta il 13 aprile 2018 come “prima rata” e compresa nel movimento bancario del 7 ottobre 2015 di cui al documento Uniweb del 12 aprile 2018.

14.2.2. La seconda voce, che ammonta a Є 37.350,00, riguarda gli onorari professionali per la redazione del progetto preliminare.

Il Tar ha ritenuto mancante la prova di “aver effettivamente sostenuto quelle spese”.

La statuizione, impugnata (anche) con appello incidentale in ordine al motivo speso dal giudice di primo grado per supportare la decisione di non riconoscere tale voce di danno, non merita riforma, dovendosi confermare il mancato riconoscimento di tale voce di danno.

Come dedotto da controparte le spese afferenti al progetto preliminare afferiscono a una fase procedimentale, quella che precede la dichiarazione di pubblico interesse sulla proposta di finanza di progetto presentata e l’indizione della procedura di evidenza pubblica, rispetto alla quale, come sopra argomentato, il proponente non vanta un affidamento tutelabile in via risarcitoria.

14.2.3. La terza voce, che ammonta a Є 40.000,00, riguarda gli onorari professionali per la redazione del piano regolatore illuminazione comunale – PRIC e non è stata riconosciuta da Tar quale spesa rimborsabile.

Il Tar ha ritenuto mancante la prova di “aver effettivamente sostenuto quelle spese”.

La statuizione, impugnata (anche) con appello incidentale in ordine al motivo speso dal giudice di primo grado per supportare la decisione di non riconoscere tale voce di danno, non merita riforma, dovendosi confermare il mancato riconoscimento di tale voce di danno. Non è infatti comprovato che tale spesa afferisca alla procedura di gara indetta dal Comune in data 15 aprile 2015.

Anche basandosi sulla documentazione prodotta dall’appellante, già ricorrente in primo grado, risulta che il contratto sia stato stipulato il 19 gennaio 2015, quindi prima dell’indizione della gara e prima del venire in essere dell’affidamento tutelabile secondo quanto sopra argomentato. Non può quindi essere traslato a controparte il rischio dell’assunzione di detta obbligazione.

In tal contesto non risulta sufficiente, in assenza di ulteriori deduzioni, affermare che “né xxxxxxxxxxxxxx, né tanto meno SGI, hanno autorizzato al COMUNE l’uso del PRIC” in quanto, nell’ambito della prima fase della procedura delineata dall’art. 153 del d. lgs., quanto compiuto è addebitato alla sfera giuridica del proponente, anche se va a vantaggio del Comune. E ciò tanto più se si considera che l’appellante ha dedotto che il pric si inserisce nella proposta di finanza di progetto dallo stesso presentata (“questa ulteriore prestazione è stata effettuata per conto di xxxxxxxxxxxxxx, all’interno del più ampio contesto ed a fondamento del project financing”).

Non si rinvengono pertanto argomenti sufficienti per addebitare tale voce di costo a controparte.

Tanto basta per non riconoscere tale voce di spesa a favore di xxxxxxxxxxxxxx.

14.2.4. La quarta voce, che ammonta a Є 10.000,00, riguarda l’asseverazione del piano economico-finanziario e non è stata riconosciuta da Tar quale spesa rimborsabile.

Il Tar ha ritenuto mancante la prova di “aver effettivamente sostenuto quelle spese”.

La statuizione, impugnata (anche) con appello incidentale in ordine al motivo speso dal giudice di primo grado per supportare la decisione di non riconoscere tale voce di danno, non merita riforma, dovendosi confermare il mancato riconoscimento di tale voce di danno. Ciò in quanto, già nella prima fase della procedura di finanza di progetto il privato è tenuto a presentare il pef asseverato. Pertanto, nel caso di specie, la spesa per retribuire la società incaricata della revisione avrebbe comunque dovuto essere affrontata prima dell’indizione della gara, a rischio del promotore, non traslabile a controparte per i motivi sopra esposti.

La circostanza che detta spesa sia stata affrontata successivamente è dovuta al fatto che il pef presentato in sede di proposta iniziale non era asseverato (pur dovendolo essere). Non può quindi essere trasferito a controparte un onere che rientra fra i rischi ordinari di chi promuove un’iniziativa di finanza di progetto, affrontata successivamente per un’incuranza del medesimo.

15. Con ulteriore motivo l’appellante ha impugnato la sentenza per non avere statuito sul contributo unificato.

15.1. La pronuncia non merita di essere riformata in quanto il pagamento del contributo unificato segue la soccombenza e rappresenta un'obbligazione ex lege espressamente prevista dall'art. 13 comma 6 bis del d.P.R. n. 115 del 2002, per la cui ottemperanza neppure è necessaria una esplicita pronuncia di condanna da parte dell'Autorità giurisdizionale (Cons. St., sez. V, 21 novembre 2018 n. 6587).

Peraltro, la pretesa tributaria rientra nella cognizione del Giudice tributario, fatta salva la facoltà di adire preliminarmente l’organo amministrativo competente (CGARS 31 gennaio 2017 n. 27).

Lo stesso giudice della giurisdizione ha affermato, quanto a un caso di contributo unificato dovuto nell’ambito di un giudizio civile, che “il giudice civile non può accertare la debenza del contributo unificato iniziale e - ove sorga contestazione - la relativa questione va risolta nell'ambito di un apposito giudizio da instaurarsi dinanzi al giudice tributario con la necessaria partecipazione del Ministero della Giustizia (titolare della pretesa tributaria)” (sez. un., 20 febbraio 2020 n. 4315).

16. In conclusione l’appello merita di essere accolto nei limiti di cui in motivazione, riformando in parte la sentenza impugnata e confermandola per la restante parte.

L’appello incidentale deve essere respinto.

Per l’effetto il Comune di xxxxxxxxxxxxxx è condannato a risarcire alla ricorrente l’ulteriore somma di Є 25.593,45 (oltre a quanto già disposto dal Tar).

L’importo va incrementato, trattandosi di debito di valore, della rivalutazione monetaria (a decorrere dall’indizione della gara fino all’attualità) e degli interessi legali sulla somma di anno in anno rivalutata. Dalla pubblicazione della sentenza vanno computati gli interessi legali fino all’effettivo soddisfo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna il Comune di xxxxxxxxxxxxxx a risarcire all’appellante la somma di Є 25.593,45, maggiorata degli accessori così come precisato in motivazione.

Appello incidentale respinto.

Condanna il Comune di xxxxxxxxxxxxxx a rimborsare alla società appellante le spese legali del doppio grado di giudizio, che si liquidano in complessive euro 4.000,00, oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Presidente

Angela Rotondano, Consigliere

Alberto Urso, Consigliere

Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere

Sara Raffaella Molinaro, Consigliere, Estensore

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Sara Raffaella Molinaro Paolo Giovanni Nicolo' Lotti
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO




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