Pubblica amministrazione  -  Gabriele Gentilini  -  09/12/2023

Consiglio di Stato, sez. V, 28.11.2023 n. 10221 sulla responsabilità precontrattuale negli iter di gara pro contratti pubblici

Rientriamo nella interessante e coinvolgente tematica della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, traendone dalla pronuncia di cui sopra, densa di richiami e spunti dottrinali e giurisprudenziali.

Il provvedimento ricorda che "in termini generali chi entra in una trattativa precontrattuale (specie se condotta nelle forme del procedimento di evidenza pubblica, soggetto anche ai poteri di autotutela pubblicistici preordinati alla cura dell’interesse pubblico), si assume un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto”. Infatti “ciascuna parte che intraprende una trattativa (o partecipa ad un procedimento di gara) sa che è esposta ad un margine di rischio, che, in linea di principio, deriva dall’esercizio della libertà contrattuale di entrambe le parti, e quindi anche dal legittimo esercizio alla libertà contrattuale dell’amministrazione” (Ad. plen. 4 maggio 2018 n. 5).

Il riconoscimento della responsabilità precontrattuale modifica la naturale allocazione dei rischi economici sostenuti per partecipare alla trattativa (o alla gara): l'insorgenza della responsabilità precontrattuale determina il trasferimento dei costi da un soggetto ad un altro, cui è imputabile la scorrettezza.

Perché si abbia il trasferimento del rischio bisogna che vi sia, da un lato, un comportamento scorretto e, dall’altro lato, un affidamento incolpevole: detti elementi costituiscono i presupposti che garantiscono un idoneo punto di equilibrio tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e l’esercizio delle prerogative pubblicistiche di quest’ultima e il limite della correttezza e della buona fede.

In ambito civilistico tradizionalmente la responsabilità precontrattuale postula che l’affidamento abbia ad oggetto lo svolgimento di trattative che non siano inutili: tipicamente le trattative sono inutili laddove una delle controparti le intraprende senza avere intenzione di stipulare il contratto o sapendo, o dovendo sapere, di stipulare un contratto invalido, così violando il dovere di buona fede.

Anche in ambito pubblicistico, l’art. 1 comma 2-bis della legge n. 241 del 1990 n. 241 dispone che i “rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede, positivizzando una regola generale delle relazioni giuridiche intersoggettive, che, in ambito pubblicistico, oltre a connotarsi per specifiche declinazioni, trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 comma 2 Cost.).

A fronte del dovere di buona fede si pone l’affidamento sulla correttezza dell’operato di controparte e, nella specie, dell’amministrazione (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21, 4 maggio 2018 n. 5 e 5 settembre 2005 n. 6).

Nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi” (Ad. plen. 29 novembre 2021 n. 21).

Nel settore delle procedure di affidamento dei contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione postula che l’amministrazione abbia violato il dovere di buona fede e che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento e che questo affidamento non sia a propria volta inficiato da colpa.

L’affidamento si dipana in modo diverso a seconda del tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone (così l’Ad. plen 4 maggio 2018 n. 5).

Nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre tuttavia che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 cod. civ. (Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2016 n. 7545).

Analogamente, in ambito pubblicistico, l’affidamento è legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante (Cons. St., sez. II, 20 novembre 2020 n. 7237).

L’aggiudicazione è dunque considerato il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale.

Nondimeno la giurisprudenza ha negato rilievo ostativo al riconoscimento della responsabilità precontrattuale nei casi nei quali non è intervenuta l’aggiudicazione definitiva (nell’ottica del d. lgs. n. 163 del 2006 ratione temporis vigente, mentre il riferimento è all’aggiudicazione nel vigore del d. lgs. n. 50 del 2016).

La Corte di cassazione ha infatti affermato che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile “indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto”; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale “a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante” (Cass., sez. I, 3 luglio 2014 n. 15260).

Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto cheil grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale”.

Nella medesima prospettiva di un accertamento in concreto degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale si è del resto espressa questa Adunanza plenaria nella più volte richiamata sentenza 4 maggio 2018, n. 5, secondo cui la responsabilità precontrattuale può insorgere “anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede”. Questa importante pronuncia si inserisce nel precedente dibattito giurisprudenziale sul momento procedurale in cui può nascere la responsabilità contrattuale dell’amministrazione. L’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018 si rifà quindi alle pronunce del Consiglio di Stato in sostegno della tesi (fatta propria anche dalla Corte di Cassazione: Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260) secondo cui la responsabilità precontrattuale sarebbe configurabile anche nella fase che precede la scelta del contraente, e, quindi, prima e a prescindere dall’aggiudicazione.

La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione non dipende da un provvedimento illegittimo, ma dal comportamento scorretto della stessa nel corso della procedura ad evidenza pubblica, dopo l’aggiudicazione dell’appalto o anche prima.

Se ne riportano alcuni passaggi (CdS sentenza 4 maggio 2018, n. 5):

" ............................

DIRITTO


18. L’Adunanza plenaria ritiene che le questioni rimesse dalla Sezione Terza debbano essere risolte nel senso che:

a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva; b) tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.


19. La contraria tesi, verso cui propende l’ordinanza di rimessione (e la giurisprudenza in essa richiamata), muove dalla premessa teorica che il dovere di correttezza e di buona fede trovi il suo presupposto in una “trattativa” già in stato avanzato, tale da far sorgere un ragionevole affidamento nella conclusione del contratto (la c.d. “trattativa affidante”). In questa prospettiva, invero, si giustifica la conclusione secondo cui, nelle procedure ad evidenza pubblica, è soltanto l’aggiudicazione (definitiva) il momento a partire dal quale
il partecipante alla gara può fare un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto e, dunque, può dolersi del “recesso” ingiustificato dalle trattative che la stazione appaltante abbia posto in essere attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela pubblicistici sugli atti di gara.

20. Tale premessa teorica sembra, in effetti, trovare un supporto nella formulazione testuale dell’art. 1337 cod. civ., che pone il dovere di correttezza in capo alle “parti” della “trattativa” e del “procedimento di formazione del contratto”, a maggior ragione se tale norma viene letta alla luce dell’intenzione del legislatore storico, quale emergente dalla Relazione al Codice civile (paragrafo n. 612). Nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile
del 1942, l’art. 1337 cod. civ. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che, come esplicitato nel citato paragrafo delle relazione illustrativa, unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale.
L’originario legame che il legislatore storico aveva inteso instaurare tra il dovere di correttezza e i valori della c.d. solidarietà corporativa trovava una ancora più manifesta enfasi nell’art. 1175 c.c. che, nel prevedere il dovere di comportarsi secondo correttezza in capo ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio, nella sua originaria formulazione (poi modificata dall’art. 3, secondo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 287), richiamava testualmente “le regole della correttezza in relazione ai principi della solidarietà corporativa”.

21. Come è stato osservato in dottrina, rispetto al dovere di correttezza precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., la reazione negativa del legislatore nei confronti della attività prenegoziale di una delle parti trovava, dunque, la sua principale ragion d’essere nel fatto che quest’ultima, interrompendo la trattativa, impediva la nascita di quei valori meritevoli di tutela che il contratto (sfumato o invalidamente concluso) avrebbe perseguito.
Va richiamata, in questa prospettiva, anche l’originaria (e ormai anch’essa abbandonata) concezione della causa del contratto come funzione socioeconomica, che postulava l’idea che l’autonomia negoziale dovesse necessariamente perseguire una funzione (non solo individualmente, ma) anche socialmente utile. Idea ulteriormente ribadita dall’art. 1322, secondo comma, cod. civ., che, nel riconoscere all’autonomia negoziale la possibilità di
concludere contratti anche diversi dai tipi normativi, subordina(va), tuttavia, tale riconoscimento alla condizione, ulteriore rispetto alla mera liceità, che il contratto fosse comunque diretto a perseguire “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
L’originario significato di tale previsione è ben esplicitato, ancora un volta, dalla Relazione al Re in cui si legge (par. n. 603): “l’ordine giuridico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto”.

22. Nel contesto così descritto, i valori della dignità umana e della libertà, sia pur presenti, restavano, di fatto, assorbiti dal prius dell’interesse economico nazionale e dell’utilità sociale. Queste considerazioni consentono di individuare la ratio “storica” degli articoli 1337 e 1338 cod. civ. L’ordinamento (codicistico), non essendosi attuato uno scambio economico meritevole di protezione, interveniva per ripristinare la situazione patrimoniale lesa. È manifesto, in tale impostazione, l’afflato economicistico e produttivistico: si apprestano strumenti risarcitori di fronte all’inutilizzazione (mancata conclusione del contratto) od allo sperpero (contratto invalido) di valori patrimoniali.
In questa ricostruzione storica, non è irrilevante sottolineare che la “positivizzazione” che gli articoli 1337 e 1338 cod. civ hanno dato alla c.d. responsabilità precontrattuale aveva rappresentato una novità rispetto al codice previgente, nel vigore del quale, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, influenzate dal “dogma volontaristico”, avevano per molto tempo ritenuto che il recesso dalle trattative fosse un diritto che non potesse essere sindacato e tanto meno dare vita all’obbligo di risarcire i danni all’altro contraente.
La specifica attenzione che il codice civile del 1942 volle, invece, dedicare al dovere di correttezza precontrattuale, e alla conseguente responsabilità derivante dalla sua trasgressione, si spiegava, quindi, proprio alla luce dello stretto rapporto esistente tra i dovere di correttezza precontrattuale e i valori della c.d. solidarietà corporativa.

23. È tuttavia noto come il superamento dell’ordinamento corporativo (e con esso del regime e della cornice ideologica nell’ambito del quale è maturato il codice civile del 1942), e il successivo avvento della Costituzione repubblicana abbiano determinato l’avvio di un processo (cui hanno contribuito tanto la dottrina quanto la giurisprudenza civilistica) di rilettura e rivisitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata, di numerose disposizioni codicistiche, specie di quelle che, come l’art. 1337 cod. civ., utilizzano “clausole generali”
(la buona fede appunto), destinate, per loro stessa natura, ad adeguarsi ai mutamenti che interessano l’ordinamento giuridico e la società civile.
Nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).

24. Il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva. 
La teoria del “contatto sociale qualificato” – in disparte, in questa sede, la questione ampiamente dibattuta, se ed a quale condizioni il contatto possa assurgere a fonte “atipica” di obbligazione – ha avuto il merito di avere messo bene in luce il legame esistente tra l’ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall’altro. 
Un ricorrente elemento che contribuisce a qualificare il contatto sociale come fonte di doveri puntuali di correttezza a tutela dell’altrui affidamento è certamente rappresentato dal particolare status – professionale e, talvolta, pubblicistico – rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”.
Da chi esercita, ad esempio, un’attività professionale “protetta” (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.

25. Nella moderna lettura costituzionalmente orientata, il dovere di correttezza ha così conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942.
La “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile. Nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà.
In particolare, come la giurisprudenza civile ha in più occasioni avuto modo di evidenziare, il dovere di correttezza (nella sue proteiformi manifestazioni concrete) è, nella maggior parte dei casi, strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire
interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.

26. Il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.
Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una trattativa in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione “relazionale” qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative.
Si potrà discutere se, ed eventualmente in quali casi, a seconda dell’intensità e della pregnanza del momento relazionale e della forza dell’affidamento da esso ingenerato, la correttezza continui a rilevare come mera modalità comportamentale la cui violazione dà vita ad un illecito riconducibile al generale dovere del neminen laedere di cui all’art. 2043 cod. civ., o diventi l’oggetto di una vera e propria obbligazione nascente dal “contatto sociale” qualificato. La questione, non direttamente rilevante in questo giudizio (non essendo investita dai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione), è oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale dai risultati così controversi, da rendere inopportuno, in questa sede, ogni ulteriore approfondimento.

27. Quello che, invece, preme sottolineare è che, a giudizio di questa Adunanza Plenaria, l’attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).

28. A favore di questa nuova accezione del dovere di correttezza, prevalentemente legato alla tutela della libertà negoziale (o, comunque, di profili della sfera personale o patrimoniale dell’individuo), si possono richiamare numerosi formanti giurisprudenziali.

29. In primo luogo, la tesi che il dovere di correttezza non sia diretto solo a favorire l’utile conclusione della trattativa (con un contratto valido) trova conferma nell’orientamento accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 19 dicembre 2017, n. 26725, che ha ritenuto configurabile la c.d. responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso. È il caso in cui il comportamento sleale non ha reso la trattativa
inutile (perché il contratto è stato validamente concluso), ma il contraente che ha subito la scorrettezza (ad es. una reticenza informativa antidoverosa), lamenta che a causa di tale slealtà ha concluso un contratto (valido ma) economicamente pregiudizievole.
La citata sentenza delle Sezioni unite, in particolare, ha espressamente affermato che l’art. 1337 cod. civ. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative, ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattate in modo leale, astenendosi da comportamento maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione
dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto; ed in siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio ovvero al maggio
aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente conseguenziale e diretto.

30. Ancora, la giurisprudenza civile ha individuato ipotesi in cui la c.d. responsabilità precontrattuale sussiste anche in capo al terzo, ravvisando, a certe condizioni – normalmente rappresentate dallo status professionale qualificato del terzo (intermediari finanziari, banche, professionisti, società di revisione) o, comunque, dal fatto che il terzo abbia un interesse qualificato alla positiva conclusione della trattativa – l’esistenza di un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è “parte” rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios.

30.1. Si fa riferimento, ad esempio, alla responsabilità da prospetto non veritiero, riconosciuta non solo (come accadeva in origine) in capo ai soggetti (società e amministratori in primo luogo) da cui promana il documento informativo rivelatosi falso o inattendibile, ma anche in capo agli intermediari finanziari (terzi rispetto alla trattativa e al futuro contratto di acquisto delle azioni) che sottoscrivano il prospetto accreditandolo presso gli investitori (cfr. Cass. Sez. Un. 8 aprile 2011, n. 8034).

30.2. Similmente, la responsabilità precontrattuale del terzo estraneo alla trattativa è stata ravvisata con riferimento alle c.d. lettere di patronage deboli, aventi contenuto meramente informativo (ad es. circa l’esistenza della posizione di influenza e circa le condizioni patrimoniali, economiche e finanziarie del patrocinato). Il patrocinante viene, infatti, ad inserirsi nello svolgimento di trattative avviate tra altri soggetti proprio al fine di agevolarne
la positiva conclusione, creando così ragionevoli aspettative sul buon esito dell’operazione; la sua posizione è quindi ben diversa da quella di un terzo che “accidentalmente” venga ad interferire in una vicenda precontrattuale a lui estranea, e tale diversità è sufficiente a giustificare l’applicazione di quelle regole di diligenza, di correttezza e di buona fede, dettate proprio al fine di evitare che gli interessi di quanti partecipano alle trattative possano essere
pregiudicati da comportamenti altrui scorretti (art. 1337 cod. civ.) o anche negligenti (art. 1338 cod. civ.) (in questi termini, ad esempio, Cass. civ., sez. I, 27 settembre 1995, n. 10235).

30.3. In questa prospettiva, merita di essere segnalata anche la giurisprudenza che ha riconosciuto la responsabilità civile della società di revisione per erronea certificazione dello stato patrimoniale di una società (compiuta su incarico di quest’ultima) nei confronti di acquirenti di quote societarie, che non avrebbero stipulato il contratto, ove avessero conosciuto il reale ed inferiore valore della società (cfr. Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2012, n. 10403). 

31. Non va, inoltre, dimenticato che da sempre la giurisprudenza individua doveri di correttezza precontrattuale che trascendono il recesso dalle trattative (o la mancata comunicazione di cause di invalidità di cui all’art. 1338 cod. civ.). Si pensi ad esempio alle ipotesi di responsabilità precontrattuale per violazione dei doveri di riservatezza (per aver rivelato informazioni riservate acquisite durante la trattativa, a prescindere dal suo livello di avanzamento) o di custodia (nei casi in cui, ad esempio, ad una parte della trattativa è data la possibilità di visionare e di usare il bene oggetto dell’eventuale contratto).
Nell’uno e nell’altro caso, la scorrettezza precontrattuale non incide sulla conclusione del contratto, ma sulla tutela dei diritti patrimoniali e personali dell’altra “parte” della trattativa.

32. Questo progressivo ampliamento del dovere di correttezza (anche a prescindere dall’esistenza di una trattativa precontrattuale in senso stretto) ha trovato riscontro anche rispetto all’attività autoritativa della pubblica amministrazione sottoposta al regime del procedimento amministrativo, quando a dolersi della scorrettezza è proprio il privato che partecipa al procedimento.
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 633; Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cass. civ., sez. un. 12  maggio 2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15250).
Da qui l’ordinaria possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.

33. Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale.

34. Nell’ambito del procedimento amministrativo (e del procedimento di evidenza pubblica in particolare) regole pubblicistiche e regole privatistiche non operano, dunque, in sequenza temporale (prime le une e poi le altre o anche le altre). Operano, al contrario, in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione.
Le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto).

35. In tale direzione si inserisce il recente orientamento giurisprudenziale con il quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ammesso, ad esempio, la configurabilità (anche al di fuori dall’ambito dei procedimenti amministrativi finalizzati alla conclusione di un contratto) di una responsabilità dell’amministrazione da provvedimento favorevole poi annullato in via giurisdizionale o per autotutela (cfr. Cass. civ., sez. un., ordinanze “gemelle”
23 maggio 2011, nn. 6594, 6595, 6596; Cass. civ., sez. un., 22 gennaio 2015, n. 1162 e Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2015, n. 17586).
In tali pronunce si afferma chiaramente che nei casi in cui, successivamente alla rimozione del provvedimento favorevole, il privato beneficiario prospetti di aver subito un danno ingiusto per avere confidato nella legittimità del provvedimento ed aver regolato la sua azione in base ad esso, la relativa responsabilità dell’amministrazione si connota come responsabilità da comportamento da violazione del diritto soggettivo all’integrità patrimoniale (recte: alla libertà di autodeterminazione negoziale). Il privato, infatti, lamenta
che l’agire scorretto dell’amministrazione ha ingenerato un affidamento incolpevole sulla legittimità del provvedimento attributivo del beneficio e, quindi, sulla legittimità della conseguente attività negoziale (onerosa per il patrimonio del privato) posta in essere in base al provvedimento. Attività che, invece, una volta venuto meno il provvedimento, si rivela, perché anch’essa travolta dalla sua illegittimità, come attività inutile e, quindi, fonte – in quanto onerosa – di perdite o mancati guadagni.
In questi casi, hanno precisato le Sezioni Unite, il provvedimento viene in considerazione come elemento di una più complessa fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di responsabilità solo se e nella misura in cui risulti oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo convincimento della legittimità del provvedimento.

36. In questa prospettiva devono essere lette anche le sentenze con le quali la Corte di Cassazione, superando il precedente più restrittivo orientamento (espresso ad esempio da Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2013, n. 477; Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2015, n. 12313; Cass. civ., sez. un. 26 maggio 1997, n. 4673), ha espressamente affermato che il dovere di correttezza e buona fede (e l’eventuale responsabilità precontrattuale in caso di sua violazione) sussiste, prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica strumentale alla scelta del contraente, che si pone quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale nell’ambito di un sistema di “trattative (c.d. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle offerte, secondo un’impostazione che risulta rafforzata dalla irrevocabilità delle stesse” (cfr. Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260; in termini, nella giurisprudenza amministrativa, cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831).
La giurisprudenza in esame ha condivisibilmente precisato che “la disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato tra p.a. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento.
Diversamente argomentando, l’interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità” (così testualmente Cass. civ., sez. un. n. 15260/2014, cit.).

37. Merita, in tale contesto, di essere richiamata anche la recente sentenza di questo Consiglio di Stato (sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457) che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 della Costituzione. Un modello in cui, “alla tradizionale ed imprescindibile funzione di garanzia di legalità nel perseguimento dell’interesse pubblico, la funzione amministrativa viene a rivestire anche un ruolo di preminente importanza per la creazione di un contesto idoneo a consentire l’intrapresa di iniziative private, anche al fine di accrescere la competitività del Paese nell’attuale contesto internazionale, secondo la logica del confronto e del dialogo tra P.A. e cittadino”. In altri termini, precisa la citata sentenza, “l’evoluzione del modello costituzionale impone di tener conto che l’attività amministrativa produce sempre un “impatto” sulla sfera dei cittadini e delle imprese (ne è conferma l’emersione del principio di accountability)”.

38. Anche il legislatore, del resto, ha mostrato un’aperta adesione alla tesi secondo cui i doveri di correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica amministrazione anche quando essa esercita poteri autoritativi sottoposti al regime del procedimento amministrativo.

39. Innanzitutto, l’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nella versione risultante inseguito alla riforma introdotta dall’art. 1 della legge 11 febbraio 2015, n. 15) assoggetta l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume un rilievo primario la tutela dell’affidamento legittimo. È noto, infatti, come il principio della tutela dell’affidamento, sebbene non espressamente contemplato dai Trattati, sia stato più volte affermato dalla Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Topfer del 3 maggio 1978, C-12/77), che lo ha elevato al rango di principio dell’ordinamento comunitario.

40. Sono, inoltre, emblematiche di tale tendenza tutte le riforme ispirate alla semplificazione e alla trasparenza dell’attività amministrativa, non ultima la l. n. 124 del 2015, intervenuta, tra le altre cose, sui presupposti del potere di autotutela, che deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale (cfr. art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-quater, l. n. 164 del 2014, e poi dall’art. 6, comma 1, l. n. 124 del 2015; nonché l’art. 21- quinquies, come modificato dall’art. 25, comma 1, lettera b-ter , l. n. 164 del 2014).

41. Un esplicito richiamo, sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e della buona fede” si trova poi nell’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la legge n. 212 del 2000.

42. In maniera ancora più significativa rispetto alla questione oggetto del presente giudizio, l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990 (introdotto dall’art. 28, comma 10, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazione dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), ha espressamente previsto che “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Secondo l’interpretazione più accreditata, con tale norma il legislatore – superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15 settembre 2005, n. 7 – ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento). 
Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione.
Anche in questo caso viene, quindi, in rilievo un danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali. 

43. Non si tratta, a differenza, dell’indennizzo forfettario introdotto in via sperimentale dal comma 1-bis dello stesso articolo 2-bis (inserito dall’art. 28, comma 9, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 213, n. 98), di un ristoro automatico (collegato alla mera violazione del termine): è, infatti, onere del privato fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere.
La tesi secondo cui quello configurato dall’art. 2-bis, comma 1, rappresenti un’ipotesi tipica di danno da comportamento scorretto (il ritardo) lesivo di un diritto soggettivo (la libertà negoziale) trova, del resto, conferma nella previsione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, Cod. proc. amm., che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Alla luce della concezione c.d. rimediale del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo (abbracciata dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 204 del 2004 e ripresa dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo), la previsione per il danno da ritardo della giurisdizione esclusiva implica necessariamente la (e si giustifica alla luce della)
qualificazione in termini di diritto soggettivo della situazione giuridica lesa dal ritardo dell’amministrazione.
La tesi trova ulteriore conferma nell’articolo 2 della legge n. 241 del 1990, che sottrae il tempo del procedimento alla disponibilità dell’amministrazione e, di conseguenza, riconosce che la pretesa al rispetto del termine assume la consistenza di un diritto soggettivo (un modo di essere della libertà di autodeterminazione negoziale) a fronte della quale l’amministrazione non dispone di un potere ma è gravata da un obbligo.

44. Da tale quadro giurisprudenziale e normativo emerge, quindi, che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato. 
In tale contesto, pertanto, risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilitànprecontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione.
Aderendo a tale impostazione, si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico “zone franche” di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale” e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell’ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza emergente dal percorso giurisprudenziale e normativo di cui si è dato atto.

45. Non sono decisivi, in senso contrario, nemmeno gli argomenti strettamente civilistici che l’ordinanza di rimessione desume dalla considerazione secondo cui il bando di gara andrebbe qualificato alla stregua di un’offerta al pubblico, alla quale non sarebbe applicabile l’art. 1328, primo comma, cod. civ., che prevede, solo in capo a colui che revoca la proposta individualizzata, l’obbligo di indennizzare l’accettante in buona fede “delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto”.

46. Va, in primo luogo, evidenziato che l’obbligo di indennizzo previsto dall’art. 1328, primo comma, cod. civ., a carico del revocante la proposta contrattuale non costituisce un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, ma una forma di responsabilità da atto lecito dannoso: l’obbligo indennitario prescinde, infatti, dalla violazione delle regole di correttezza e sussiste solo per l’affidamento suscitato dalla proposta revocata. Il quantum dell’indennizzo, infatti, non copre interamente il danno subito, ma è circoscritto solo alle spese e alle perdite riconducibili all’inizio di esecuzione.
La responsabilità precontrattuale presuppone, invece, la violazione del dovere di correttezza ed è configurabile sia nella fase che precede la proposta, sia dopo la proposta (ancorché non vi sia stato inizio di esecuzione). In tal caso il risarcimento (a differenza dell’indennizzo di cui all’art. 1328, primo comma, cod. civ.) copre interamente il danno subito, normalmente correlato al c.d. interesse negativo.
L’inapplicabilità dell’art. 1328, primo comma, cod. civ. non è, pertanto, argomento di per sé sufficiente per escludere la configurabilità della responsabilità precontrattuale in caso di offerta al pubblico, in quanto la citata disposizione non disciplina un caso di responsabilità precontrattuale in senso proprio.

47. In ogni caso, la questione dell’applicabilità dell’art. 1328, primo comma, cod. civ. all’offerta al pubblico è ancora aperta nel dibattito civilistico: la questione è stata raramente affrontata in giurisprudenza, ma la dottrina prevalente, muovendo dall’assimilazione, desumibile dall’art. 1336 cod. civ., tra proposta individualizzata e offerta al pubblico, sostiene l’applicabilità della stessa regola, seppure con la precisazione che, in sede applicativa, dovrà essere valorizzata la peculiarità della situazione di affidamento in relazione alla tipologia di offerta e di contratto, con la conseguenza che in caso di offerta al
pubblico la verifica della buona fede non potrà esaurirsi nella considerazione dell’ignoranza della revoca, ma estendersi alla valutazione della ragionevolezza e prudenza nella scelta di avvio dell’esecuzione. 

48. Per ragioni analoghe a quelle fino ad ora esposte, merita di essere risolto in termini negativi anche il secondo quesito che l’ordinanza di rimessione ha posto all’attenzione di questa Adunanza plenaria, ovvero se la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nella fase anteriore all’aggiudicazione debba riguardare esclusivamente il comportamento anteriore al bando, e, quindi, debba essere circoscritta alle ipotesi in cui l’amministrazione ha fatto sì che il bando venisse pubblicato nonostante fosse conosciuto o conoscibile che non vi erano i presupposti indefettibili.

49. La limitazione, prospettata (in via subordinata) dall’ordinanza di rimessione, della responsabilità dell’amministrazione ai soli comportamenti anteriori al bando è volta ad introdurre, aprioristicamente e in astratto, limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile.
L’illecito civile si incentra sull’ingiusta lesione della situazione giuridica soggettiva (o, in caso di responsabilità contrattuale, sull’inadempimento dell’obbligazione), senza che assumano rilievo le specifiche modalità comportamentali che hanno determinato tale lesione (o l’inadempimento dell’obbligazione). È, dunque, mutuando una qualificazione penalistica, un
illecito a forma libera e causalmente orientato.
Deve, pertanto, ritenersi che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede.

50. Le pur meritorie preoccupazioni (legate al timore di una estensione eccessiva e ingiustificata della responsabilità della p.a.), che hanno indotto la Sezione rimettente a sostenere la tesi restrittiva, non possono, quindi, essere affrontate introducendo aprioristiche e ingiustificate limitazioni di responsabilità, ma vanno superate attraverso una rigorosa verifica, da svolgersi necessariamente in concreto, circa l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del danno.

51. A tal fine, è opportuno precisare che affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose).
Oltre alla puntuale verifica dell’esistenza dell’affidamento incolpevole, occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo.
Significativo, sotto tale profilo, lo spunto offerto, ai fini di una ricostruzione sistematica della responsabilità da comportamento scorretto, dal già richiamato art. 2-bis legge n. 241 del 1990, che, nel tipizzare uno specifico caso di scorrettezza procedimentale (il ritardo), ha espressamente previsto che l’inosservanza del termine (comportamento oggettivamente scorretto) è fonte di responsabilità solo se ne risulti il carattere doloso e colposo. È evidente, in tale previsione normativa, il richiamo all’art. 2043 c.c. e al relativo regime
probatorio;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. Occorre, dunque, che dimostri che il comportamento scorretto dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica civilistica
del “più probabile che non”, la condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede il risarcimento. In altri termini, il privato deve fornire la prova che quelle scelte negoziali non sarebbero state compiute ove l’amministrazione si fosse comportata correttamente.

52. La necessità di definire e accertare con rigore tali elementi costitutivi trova riscontro nella considerazione che il confine che segna la nascita della responsabilità precontrattuale rappresenta un delicato punto di equilibrio tra opposti valori meritevoli di tutela. Si tratta, per certi versi, del momento di incontro tra due diverse manifestazioni della stessa libertà negoziale: da un lato, quella di chi subisce il recesso dalle trattative (o, comunque, la lesione dell’affidamento sulla serietà delle stesse), dall’altro, la libertà contrattuale di chi, prima dell’insorgenza del vincolo contrattuale, decide di interrompere il procedimento di formazione del contratto.
Nel caso di contratti stipulati all’esito delle procedure di evidenza pubblica, inoltre, è in gioco, oltre alla libertà contrattuale della stazione appaltante, anche l’interesse pubblico alla cui tutela è preordinato l’esercizio dei poteri di autotutela provvedimentale sugli atti di gara.
Il punto di partenza, pertanto, non può che essere quello per cui chi entra in una trattativa precontrattuale (specie se condotta nelle forme del procedimento di evidenza pubblica, soggetto anche ai poteri di autotutela pubblicistici preordinati alla cura dell’interesse pubblico), si assume un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto. In altri termini, ciascuna parte che intraprende una trattativa (o partecipa ad un procedimento di gara) sa che è esposta ad un margine di rischio, che, in linea di principio,
deriva dall’esercizio della libertà contrattuale di entrambe le parti, e quindi anche dal legittimo esercizio alla libertà contrattuale dell’amministrazione.
La principale conseguenza derivante dalla responsabilità precontrattuale è di modificare questa naturale allocazione dei rischi economici: l’insorgenza della responsabilità precontrattuale determina il trasferimento dei costi sostenuti per partecipare alla trattativa (o alla gara) da un soggetto ad un altro, cui è imputabile la scorrettezza.
Nella ricerca di questo delicato punto di equilibrio tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio delle sue prerogative pubblicistiche da una parte, rispetto del limite della correttezza e della buona fede, dall’altro, è opportuno, allora, rimarcare puntualmente i sopra elencati elementi costitutivi della fattispecie generatrice di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione.

53. Nella stessa prospettiva, va sottolineato che lo stesso affidamento incolpevole del privato, oltre ad essere soltanto uno degli elementi della complessa fattispecie che perfeziona l’illecito, deve, peraltro, essere valutato tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e sempre considerando che nell’ambito del procedimento amministrativo (a maggior ragione in quello di evidenza pubblica cui partecipano operatori economici qualificati), il dovere di correttezza è un dovere reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a sua volta gravato da oneri di diligenza e di leale collaborazione verso l’Amministrazione.

54. Gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede all’applicazione di tali principi (e si verifica, quindi, nel caso concreto, se effettivamente ricorrono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità) sono molteplici e non predeterminabili in astratto, perché dipendono dalla innumerevoli variabili che possono, di volta in volta, connotare la specifica situazione.
Solo a titolo esemplificativo, si può, tuttavia, evidenziare la necessità di valutare con particolare attenzione in sede applicativa i seguenti profili, che rappresentano significativi sintomi in grado di condizionare il giudizio sull’esistenza dei sopra richiamati presupposti della responsabilità:

a) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);

b) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara;

c) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo);

d) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata);

e) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione 
del contratto).

55. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:

1. Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l