Deboli, svantaggiati  -  Redazione P&D  -  29/08/2022

Il Parco di San Giovanni - Angelo Venchiarutti

Nel corso degli anni ’70, a pochi passi dall’Università di Trieste, nel Parco di San Giovanni ha preso il via il grande sommovimento promosso da Franco Basaglia.

   Incuriosito come tanti giovani arrivati a Trieste, non solo dall’Italia, partecipo anch’io a quell’esperienza. In pochi anni cambiano tante cose, grazie anche al supporto dell’allora presidente della provincia Michele Zanetti. Basaglia e il suo gruppo riescono a dar avvio ad un sistema di servizi psichiatrici capace di fare a meno del manicomio. I reparti vengono aperti, parte degli internati vengono dimessi e vanno ad abitare in città, altri sono “ospitati” in appartamenti ricavati nei reparti ristrutturati; sono istituiti i primi centri di salute mentale, aperti giorno e notte; una buona parte degli addetti, medici, infermieri, e altri operatori, inizia a lavorare “nel territorio” (come si diceva allora) seguendo la vita delle persone dimesse, e per evitare di far entrare in manicomio nuovi pazienti. E poi gli altri eventi: l’esperienza di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapesta; i concerti di jazz; il teatro di Dario Fò.

  All’approvazione della legge 180, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, si giunge il 13 maggio 1978. Pochi giorni prima era stato rinvenuto il corpo senza vita di Aldo Moro, rapito due mesi prima dalle Brigate Rosse. Per timore di un esito negativo del referendum abrogativo della normativa manicomiale del 1904, il Parlamento procede ad uno stralcio della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale.

Pur se accolta da critiche e anche da qualche riserva da parte degli stessi promotori, la rilevanza della legge è evidente da subito. La progressiva chiusura degli ospedali psichiatrici, l’inserimento dei servizi psichiatrici nel comprato  sanitario, la previsione della volontarietà come norma nel trattamento dell’infermo di mente, l’espresso riconoscimento dei diritti civili e politici anche in capo a chi deve subire un trattamento sanitario obbligatorio, la scissione del nodo giuridico che legava insieme malattia mentale e pericolosità sociale – per citare solo gli aspetti più evidenti – sanciscono, recependolo a livello giuridico, un mutamento di paradigma all’interno della psichiatria;  incidendo profondamente sulla stessa percezione sociale della malattia mentale e delle persone che ne soffrono. 

  In quel contesto, mi viene l’idea di preparare una tesi sul tema della riforma del manicomio giudiziario. La proposta viene accettata dal professore di Diritto Penale (Giorgio Gregori). Comincio dunque a lavorare. Non soltanto in biblioteca: partecipo (assieme a Bruno Podbersig, amico e collega di studi) a qualche convegno ed incontro con studiosi e operatori che si occupano del tema. Ricordo, tra gli altri, Franco Bricola e suoi (allora) allievi, Alessandro Margara, che quale giudice di sorveglianza a Firenze aveva a che fare anche con il manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, il senatore Vinci Grossi, che da lì a qualche anno si farà promotore di iniziative legislative, volte ad eliminare l'infermità mentale come causa di esclusione dell'imputabilità.




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