Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  16/06/2021

La pena, la punizione, la vendetta e il perdono - Mario Iannucci - Gemma Brandi

Sono decenni che, sulle varie testate giornalistiche, si rincorrono articoli che sostengono due concezioni apparentemente antitetiche della pena detentiva: da un lato ci sono gli interventi dei “buoni” e dei “saggi”, che sottolineano ad esempio:
- il valore preminente o esclusivo della “rieducazione” come finalità del carcere (art. 27 della Costituzione);
- i danni causati da limitazioni particolarmente dure delle libertà del detenuto (come l’art. 41-bis per quanto concerne il tipo di detenzione, l’ergastolo -in specie l’ergastolo ostativo- per quanto concerne la lunghezza della detenzione);
- infine, addirittura, l’inutilità del carcere.
Dall’altra parte ci sono i “barbari”, quelli che “ragionano solo di pancia”, le “masse poco evolute” inclini a infoiarsi di fronte ai gladiatori che si uccidono nel Colosseo o di fronte a un Pilato che propone la scelta fra un Cristo e un Barabba. Potremmo anche osservare che, se da un lato i “buoni” e i “saggi” sembrano avere occupato le posizioni di maggiore prestigio (riviste specializzate, testate “democratiche”, vertici delle istituzioni etc), i “barbari incivili” sembrano prevalere soprattutto sulla “rete”. Quello che è certo è che tutte le persone di un certo livello culturale ambiscono a non essere considerati “barbari”.
Siccome siamo medici, siamo psichiatri psicoanalisti che hanno lavorato per circa 40 anni, contemporaneamente, nelle carceri e nei servizi pubblici di salute mentale, abbiamo sempre cercato di trattare questi temi (che hanno a che fare con la punizione, la pena e la cura) con la misura e l’attenzione che meritano, evitando, fin dove ci è stato possibile, di scadere in dannosissimi pregiudizi (gli anglofoni li definiscono bias). Abbiamo cercato di farlo sulla base dei nostri chiari giudizi, maturati a partire dalla educazione familiare e personale, dagli studi, dalla lunga esperienza professionale. Esporremo dunque preliminarmente alcuni di questi giudizi che abbiamo elaborato e ai quali teniamo, in maniera tale da sgombrare il campo da talune possibili obiezioni pregiudiziali agli argomenti che tratteremo.
Ecco taluni dei nostri giudizi (che elencheremo premettendo che siamo dispostissimi a confrontarci con chiunque e, se del caso, a rivederli).
Da medici che si occupano della cura delle persone, anche di quelle considerate “cattive”, siamo assolutamente contrari alla pena di morte. La morte non fa bene a nessuno, non solo a chi muore. Espone addirittura le vittime (o i loro familiari sopravvissuti) a dannosi sensi di colpa. La pena di morte, considerando le fortissime istanze autolesive di chi commette crimini, moltiplica gli stessi crimini (negli USA, dove ancora in molti Stati c’è la pena di morte, i detenuti, percentualmente, sono circa otto volte più numerosi rispetto all’Italia, dove le leggi, se si prescinde dalla mancata previsione della pena di morte, non è che siano meno severe).
Siamo anche contrari all’ergastolo ostativo: una speranza e una possibilità di ravvedimento occorre offrirla a tutti (ma qui la questione essenziale è la seguente: chi valuta se un assassino, magari un pluriassassino, si sia davvero ravveduto?).
Chi compie dei reati, specie reati plurimi o gravi, presenta molto spesso una sofferenza mentale severa (e in proposito sorge un’altra questione: se nelle carceri -italiane in particolare- la salute mentale pubblica non riesce nemmeno a garantire una adeguata assistenza per i non pochi “malati di mente certificati”, come si può pensare che affronti la cura di quella sofferenza psichica diffusa dei detenuti che ha, fra le sue caratteristiche principali, l’inclinazione a nascondersi e mimetizzarsi?).
Ci vorrebbe poco a migliorare notevolmente le condizioni detentive, come in una certa misura (molto meno di quanto si potrebbe fare con pochissima spesa e che quindi si dovrebbe fare) ha fatto ad esempio la Norvegia. Ma la società civile, che sostiene pomposamente di stare dalla parte dei “buoni” e dei “saggi”, ma che dispone e ordina avvertendo sul collo il fiato dei numerosissimi “barbari”, preferisce agire come Ponzio Pilato: molto ipocritamente lascia che il carcere mantenga la sua preminente funzione “punitiva”, incurante di rafforzare la funzione “medicinale” (non ci piace indicarla come “rieducativa”) che solo a parole osanna.

Fin qui i nostri giudizi, espressi in maniera che vorremmo definire “ferma ma sommessa”. Siccome la nostra professione ci ha insegnato che solo la sincerità conduce l’uomo -asintoticamente, ben si capisce- sulla strada della elisione dei bias, cercheremo di essere sinceri in questa trattazione.
Partiremo da alcuni articoli di stampa che abbiamo letto di recente. Sono articoli che provengono dal fronte dei “buoni” e dei “saggi”. Un articolo è stato pubblicato il primo di marzo sulla Gazzetta del Mezzogiorno da Gaetano Sassanelli, avvocato penalista(1). Diversi altri testi hanno invece raccontato la “rinascita” di Matteo, un giovane uomo che nel 2011, appena maggiorenne, uccise un carabiniere e ne ferì un altro a un occhio (con l’uomo che lo perse in seguito alla ferita). Matteo ora, dopo essersi laureato in carcere, opera in una comunità di recupero per “minorenni complicati”(2).
L’articolo dell’Avv. Sassanelli lo citiamo soltanto perché rappresenta una summa di alcune delle più diffuse argomentazioni usate dai “saggi”. La contrapposizione tra funzione afflittiva e rieducativa della pena (io preferisco dire della detenzione, poiché il termine pena -dal latino poena- ha un valore soggettivo altissimo); il carattere dannoso di certe misure detentive, come il 41 bis, che assumerebbero talora quasi soltanto una funzione afflittiva andando molto al di là del compito di controllo per cui vengono adottate; l’analogia fra la “detenzione domiciliare” di una buona parte della popolazione italiana durante i recenti lockdown da Covid-19 e i domiciliari dei condannati per qualche reato (stentiamo a credere che una simile analogia possa essere stata fatto da un penalista); la civiltà della Corte Distrettuale di Oslo che ha riconosciuto ad Anders Breivik il diritto al “risarcimento per trattamenti disumani cui lo stesso sarebbe stato sottoposto durante la sua carcerazione”.
L’articolo sul caso di Matteo Gorelli, scritto da Luca Montiglioni, nella descrizione della “rinascita” del giovane uomo ci fa conoscere un particolare interessante: Claudia Francardi, la vedova del carabiniere ucciso da Matteo Gorelli nel 2011, ritiene che la “rinascita di Matteo” “sia l'emblema di come dovrebbe essere la giustizia: riparativa: a chi è in carcere devi dare anche la speranza e la possibilità di capire gli errori commessi per non commetterli più”. Un atteggiamento mentale, quello della vedova del carabiniere ucciso, che porta subito alla mente un altro caso analogo e molto noto, il caso di Adele Moro, figlia dello statista ucciso dalle BR, e di Adriana Faranda, condannata per l’uccisione di Aldo Moro. Adele Moro e Adriana Faranda ora si incontrano, discutono amichevolmente e “si abbracciano”. Si tratta, insomma, di vicende che hanno indubbiamente a che vedere con la cosiddetta “giustizia riparativa”, ma hanno soprattutto a che vedere con il perdono da un lato e con il pentimento dall’altro lato.
Pentirsi, riparare, perdonare: questioni assolutamente centrali nel campo del diritto penale, del diritto relativo alla pena (termine che viene, rammentiamolo ancora una volta, dal latino poenare, molto dissimile da puniri, vale a dire vendicare: cosa che non significa che infliggere all’altro una giusta sanzione, quando la merita, non sia una strada buona per consentirgli di sperimentare una pena, di passare attraverso una espiazione che lo aiuti a rinascere).
Partiamo allora da Anders Breivik, il folle pluriomicida che nel 2011, fra Oslo e Utøya, uccise un’ottantina di persone e ne ferì circa duecento. A Breivik, giudicato come sano di mente nonostante la patente follia, i Tribunali Norvegesi diedero il massimo della pena detentiva (che nella civile Norvegia non può superare i 20 anni), aggiungendo però ai 20 anni di pena il forvaring, una misura di sicurezza rinnovabile ogni cinque anni in caso di persistente pericolosità sociale. Per i “buoni” e i “saggi” il carcere non va bene. Le misure di sicurezza vanno ancora meno bene. Ma per il folle Breivik -forse perché sedicente nazista e suprematista cristiano- vanno a pennello sia il carcere che le misure di sicurezza. Fra l’altro l’avvocato Sassanelli sa, probabilmente, che Breivik non solo ha chiesto e ottenuto il risarcimento per “ingiusta detenzione” dai Tribunali della civile Norvegia, ma ha anche ottenuto di cambiare nome: ora si chiama Fjotolf Hansen. C’è allora da chiedersi se le duecento persone ferite da Anders BreiviK/Fjotolf Hansen, o se i familiari delle ottanta persone uccise dal folle stragista norvegese, saranno tutte in grado di perdonare lo spietato pluriomicida, che magari un domani (per adesso non lo ha ancora fatto, continuando con argomenti deliranti a dichiararsi nazista, suprematista e anti-islamista) darà anche prova di essersi pentito e ravveduto.
Qui a Firenze passiamo sempre, perché in uno dei nostri percorsi abituali, davanti a uno striscione dove c’è scritto: “Non dimenticatemi. Giustizia per Niccolò Ciatti”. Niccolò è il ragazzo fiorentino che nell’agosto del 2017 venne ucciso a pugni e a calci da altri tre giovani, davanti a una discoteca spagnola. Le immagini riprese dalle telecamere parlano di una spietata e impressionante violenza dei tre omicidi. I familiari e gli amici di Niccolò chiedono “giustizia”. Cosa è “giustizia” in questo caso? Non daremo noi la risposta, ma ci piacerebbe chiederlo ai familiari di Niccolò, brutalmente assassinato a 22 anni, mentre era in vacanza a riposarsi.
L’inconscio degli uomini (anche quello dei “buoni” e dei “saggi”) è molto, molto più “barbaro” di come, in genere, ci piace pensare. Tutte le persone, ogni giorno, formulano pensieri vendicativi contro coloro da cui ritengono di avere ricevuto del male o che semplicemente hanno altri punti di vista. Nell’inconscio vige la legge del taglione e dell’inconscio occorre tenere conto. Il giovane figlio di una caro amico avvocato veneziano, quando era piccolo, dopo aver fatto una marachella si rivolgeva in questo modo al padre che lo brontolava più o meno bonariamente: “Papà, perdonami immediatamente!”. Il papà, quasi sempre, perdonava “immediatamente” il figlioletto, intelligente come lui: ma qui, lo si capisce, siamo in una dimensione diversa. Non tutto può essere perdonato. Taluni uomini non possono farlo e anche questa incapacità personale a perdonare deve essere rispettata. Ecco una delle ragioni della necessità di una pena, almeno in una società civile. Certo: di una pena che non sia spietata nemmeno con gli spietati. Di una pena che sia curativa e “medicinale” con i molti criminali che di una cura hanno bisogno (o almeno con quelli che accettano di farsi curare).

1. Sassanelli G., Il 41 bis non è una vendetta, Gazzetta del Mezzogiono, 1 marzo 2021.
Ripreso da Ristretti Orizzonti:
http://www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=98201:il-41bis-non-e-la-nostra-vendetta&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1

2. Fra i vari articoli riguardanti Matteo, ne citerò soltanto uno:
Montiglioni L., Un'altra vita possibile. L'omicidio, il carcere, la rinascita, La Nazione, 29 marzo 2021.
Ripreso da Ristretti Orizzonti:
http://www.ristretti.org/index.php?view=article&catid=220:le-notizie-di-ristretti&id=98990:unaltra-vita-possibile-lomicidio-il-carcere-la-rinascita&format=pdf




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