-  Anceschi Alessio  -  08/08/2013

VOGLIO PARLARVI DEL RAZZISMO - Alessio ANCESCHI

Da un pò di tempo a questa parte sento parlare a sproposito del "razzismo" abusando di questo termine per descrivere situazioni od espressione di opinioni che nulla hanno a che fare con quel concetto. Nel corso dell'età moderna, l'umanità ha faticosamente conquistato preziosi traguardi in materia di "uguaglianza" civile e politica tra gli uomini (e le donne), al prezzo di grandi sacrifici. Ancorché taluni traguardi non siano ancora stati pienamente realizzati (ma lo stesso si può dire di qualsiasi altro valore giuridico) mi indigna profondamente sentire abusati inappropriatamente concetti come "discriminazione" o "razzismo" a difesa di posizioni che nulla hanno a che fare con esse.

A mio avviso, parlare di "discriminazione" quando discriminazione non c'è, al fine di tutelare posizioni non meritevoli di tutela è altrettanto ingiusto quanto le ipotesi di vera discriminazione ed offende il concetto giuridico stesso di uguaglianzaal quale indebitamente ci si appella. Allo stesso modo, parlare di "razzismo" quando razzismo non c'è è altrettanto offensivo che il razzismo stesso, quando c'è.

Prima di avviarmi nel discorso, vorrei innanzi tutto fare una premessa terminologica e giuridico che spesso tende a sfuggire. Il principio giuridico di uguaglianza non coincide in nessun modo con il concetto di "egualitarismo", con il quale spesso lo si tende a confondere, creando più che un equivoco.

Secondo il principio dell'egualitarsmo, che non esiste nel diritto, tutti siamo uguali ed ogni situazione è uguale ad un'altra.

Oltre che nel diritto, tale principio non esiste neppure in natura, dove ognuno è diverso dall'altro ed ogni situazione è diversa dall'altra. Affermare, ad esempio che il sottoscritto è diverso da un nero o da un asiatico non è indice di razzismo ma constatazione di una realtà inscindibile, anche per il fatto che il sottoscritto si ritiene (ed è) diverso perfino dal proprio migliore amico o dai propri parenti, con i quali pur condivide passioni o geni. Il razzismo non è fare distinzione tra razze (che sono distinguibili tra gli uomini, al pari che tra molte altre specie di animali) ma considerare l'appartenenza a certe razze od a certi "status" sociali come condizione di inferiorità o rispetto agli altri.

Il principio di uguaglianza, infatti, non afferma che "ogni persona è uguale all'altra", bensì che tutti hanno "pari dignità" e sono "uguali di fronte alla legge". L'essere uguali di fronte alla legge è quindi cosa diversa che "essere uguali".

Occorre ben ricordare che vi sono diritti che sono uguali per tutte le persone, come ad esempio i diritti fondamentali della persona (diritto alla vita, libertà di coscienza e religione etc...) e diritti che mutano a seconda delle circostanze e che si possono ravvisare in capo ad alcuni e non in capo ad altri, in ragione della loro natura, della loro causa e della loro funzione, come ad esempio i diritti connessi alla cittadinanza, alla residenza, ad un determinato status sociale.

Già S. Agostino, uno dei primi giuristi a parlare di "uguaglianza" in un Mondo che ancora non riconosceva tale diritto, affermava infatti che la discriminazione non sussiste soltanto quando si trattano in modo diverso delle situazioni giuridiche uguali, bensì anche quando si trattano in modo uguale, situazioni giuridiche che sono tra loro diverse.

Riconoscere pertanto un diritto a chi non è nelle condizioni per godere di tale diritto è quindi altrettanto ingiusto che non attribuirlo a chi si trova nelle condizioni per goderne.

Esiste poi un altro mito da sfatare, di carattere più "umano" che giuridico. Il "razzismo" ed il "pregiudizio" (che è alla base del primo) non è prerogativa di certe popolazioni rispetto che altre, nè è associato a certi stati sociali piuttosto che ad altri. Il razzismo non è prerogativa solo dei "bianchi", degli "occidentali", dei "ricchi" o dei "belli" ma appartiene a tutta l'umanità, o meglio, ad una "certa" umanità, senza distinzioni di razza. Si può quindi affermare che "il razzismo" è uguale a sè stesso, indipendentemente dalla razza e dalle condizioni sociali.

Tendenzialmente, il razzismo e l'intolleranza si manifestano da parte di una maggioranza verso una minoranza oppure da parte del più "forte" verso il più "debole" ma in realtà non è sempre così posto che il razzismo nasce dal pregiudizio oltreché dall'intolleranza ed è quindi associato ad una caratteristica personale, più che ad un determinato "stato" di predominanza, il quale, al più, può incentivare od intensificare il razzismo ma non certo determinarlo.

Vi è poi un'altro aspetto da considerare che è indice di quell'abuso al quale accennavo in principio, ovvero la "sindrome del perseguitato" che si crea psicologicamente in capo a chi si trova in una situazione di svantaggio sociale. Chiunque si trovi in situazioni di minoranza o svantaggio tende infatti a porsi sulla difensiva ed a ritenere che il vantaggio degli altri sia di per sè stesso indice di intolleranza e pregiudizio nei suoi confronti, anche quando non sia effettivamente discriminato.

In questo senso, lo straniero così come il nero, l'omosessuale od il povero può sentirsi in pregiudizio in contesti di minoranza nei quali non prevalga il suo "stato" (tra bianchi, tra eterosessuali, tra ricchi), anche quando non venga effettivamente discriminato, mentre non si sente discriminato laddove si trovi in contesti che gli appartengono. Lo stesso, tuttavia vale all'opposto e vale in realtà, in qualsiasi situazione in cui ciascuno di noi si trovi in contesti a lui sconosciuti od ignoti (come quando, ad esempio, siamo invitati ad una festa in cui non conosciamo nessuno). In definitiva, la situazione psicologica di vantaggio tende a farci vedere una discriminazione anche quando una discriminazione non c'è.

Ovviamente si tratta di una tendenza, posto che l'accoglienza del prossimo e la nostra disponibilità a conoscere gli altri, fanno la differenza nella convivenza civile e nell'affrontare le situazioni di diversità nel quale ciascuno di noi si trova inserito. Ed è questo, in fondo, ciò che fà la differenza: l'accoglienza del prossimo senza alcun pregiudizio, senza per questo dimenticare di pretendere dagli altri lo stesso rispetto che noi concediamo.




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