In questi giorni, si legge che la Regione Campania, al fine di limitare la sanità passiva (ossia lo spostamento di cittadini-pazienti campani verso altre regioni per fruire delle prestazioni sanitarie) intende rafforzare il sistema di autorizzazione preventiva da parte delle ASL competenti territorialmente. In altri termini, se l"Asl non autorizza lo "spostamento" verso un"altra regione, il paziente non potrà recarsi in una struttura al di fuori dei confini regionali. Se si può comprendere, da un lato, la necessità di contenere la spesa sanitaria, dall"altro, è difficile, se non impossibile, implementare una simile previsione.
Infatti, l"autorizzazione preventiva non trova più spazio – salvo rare eccezioni – nemmeno nella cornice comunitaria, in quanto essa è stata abrogata, quale misura di contenimento della libertà di movimento dei cittadini-pazienti, ad opera della Direttiva 24/2011/UE che ha proprio riconosciuto i diritti dei pazienti europei di recarsi all"estero per poter fruire di prestazioni sanitarie senza ricorrere ad una autorizzazione previa delle autorità sanitarie nazionali di appartenenza.
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In termini sintetici, la Direttiva in parola si fonda sui seguenti principi cardine:
La Direttiva 24/2011 costituisce un atto molto significativo nel contesto della costruzione di un "sistema sanitario comune" all"interno dell"Unione Europea. Nel mese di luglio 2008 (Commissione delle Comunità Europee, Documento di lavoro dei servizi della Commissione che accompagna la proposta di direttiva concernente l"applicazione dei diritti dei pazienti relativi all"assistenza sanitaria transfrontaliera. Sintesi della valutazione d"impatto, Bruxelles, 2 luglio 2008, COM(2008) 414 definitivo), le istituzioni comunitarie erano consapevoli che l"assenza di un quadro giuridico chiaro, sia per quanto attiene alla definizione di cosa si debba intendere per "servizio sanitario" sia per quanto riguarda la mobilità dei cittadini-pazienti (e le spese sostenute dagli stessi per recarsi all"estero per accedere alle prestazioni sanitarie erogate dalle strutture di quel Paese membro), rappresentava un significativo impedimento alla costruzione di un "mercato unico" dei cittadini europei.
La Direttiva sancisce, in questo senso, da un lato, il principio della libera circolazione dei cittadini e, dall"altro, riconosce un fondamentale, quanto delicato, meccanismo di rimborso delle spese sanitarie sostenute all"estero. Si trattava, indubbiamente, di un significativo progresso nel processo di coesione sociale europea, che si afferma attraverso il diritto riconosciuto ai cittadini UE non solo di muoversi liberamente all"interno della Comunità, ma anche di potersi "sganciare" dall"appartenenza ai propri sistemi di protezione sociale e sanitari per ricercare le cure ed i trattamenti maggiormente adeguati alle loro esigenze.
La Direttiva introduce, ricorrendo ad una definizione plastica, la libera scelta delle cure (transfrontaliere) da parte dei cittadini europei. Nei Considerando della Direttiva si legge, invero, che "[…] gli Stati membri devono rispettare i principi della libera circolazione delle persone nel mercato interno, della non discriminazione, fra l"altro, in base alla nazionalità, nonché la necessità e la proporzionalità di eventuali restrizioni della libera circolazione". In questo senso, la Direttiva integra in un documento legislativo di rango comunitario la posizione assunta dalla Corte Europea di Giustizia che, in molte occasioni, ha ribadito la necessità di assicurare la massima libertà di movimento ai cittadini-pazienti dell"Unione Europea. Detta libertà, tuttavia, ribadisce la Direttiva, non deve ledere la competenza degli Stati membri di organizzare i rispettivi sistemi sanitari e di sicurezza sociale.
La Corte europea ha altresì più volte manifestato tutta la sua "allergia" nei confronti di quelle disposizioni normative di singoli Stati membri che prevedano qualche forma di "intralcio" con la libertà di movimento. E un indubbio intralcio sulla strada dell"affermazione di un "mercato comune dei servizi sanitari" è rappresentato dall"autorizzazione preventiva.
Risulta indubbio che la decisione di mantenere una qualche forma di autorizzazione in capo alle autorità sanitarie nazionali sia stata influenzata dalla particolare situazione congiunturale di crisi economica e di conseguente necessità da parte delle "casse" statali di restringere le spese per il cd. "turismo sanitario". Per contro, non può essere sottaciuta la restrizione che l"autorizzazione preventiva, così come ipotizzata, vada ad intaccare in termini generali proprio la possibilità per i cittadini-pazienti UE di recarsi all"estero per fruire delle cure sanitarie. Sul fronte dell"autorizzazione, si permetta di evidenziare che la direttiva sembra segnare un "ritorno al passato". Invero, il combinato disposto degli artt. 7 e 8 richiama la necessità dell"autorizzazione preventiva (ovvero il suo diniego), da stabilirsi da parte di ciascun Stato membro, non solo per le cure ospedaliere (principio che come ribadito in precedenza era già presente nella versione approvata nel mese di aprile 2009), ma altresì:
Si tratta, per molti versi, della posizione sostenuta dai giudici federali tedeschi nell"ambito del leading case "Leichtle" sottoposto alla decisione della Corte Europea di giustizia: proprio in quell"occasione, i giudici di Lussemburgo avevano sostenuto che le cure termali (in quel caso fruite ad Ischia) non dovevano richiedere l"autorizzazione preventiva, in quanto non era necessario dimostrare una maggiore efficacia clinica delle cure all"estero né tantomeno era sufficiente dichiarare la presenza di stabilimenti termali in Germania.
Ora, prima facie, il contenuto della direttiva, nella sua versione definitiva, sembrerebbe deporre a favore della facoltà degli Stati membri di condizionare l"autorizzazione preventiva al verificarsi di una serie di condizioni molto precise e limitate, ma che forse potrebbero rendere più difficile l"evoluzione del "turismo sanitario". Sembra questa la strada scelta dal legislatore campano che, tuttavia, non potrà non conformarsi con un quadro normativo e sanitario comunitario che non intende, in linea generale, frenare lo sviluppo della "migrazione" legata agli aspetti sanitari.