-  Redazione P&D  -  02/10/2014

RICORSO INAMMISSIBILE, MA RIMANE LA QUESTIONE EUTANASIA - CEDU, 30 settembre 2014, Grand Chamber, Gross c. Svizzera (ric. 67810/10)

La Cedu all"esito del procedimento ha dichiarato lo stesso inammissibile, a seguito dell"avvenuto decesso della ricorrente, laddove, in primo grado, aveva sta­bi­li­to che la Sviz­ze­ra aveva l"obbligo di chia­ri­re a chi e su qua­li cri­te­ri è ga­ran­ti­to per leg­ge l"ac­ces­so al sui­ci­dio as­si­sti­to, vi­sto an­che il fe­no­me­no dei viag­gi dal­l"e­ste­ro — e dal­l"I­ta­lia — ver­so le cli­ni­che dove si pra­ti­ca.

 La ricorrente, Alda Gross, è di nazionalità svizzera, nata nel 1931 e residente in Greifensee (Svizzera). Da diversi anni mostrava il desiderio di porre fine alla sua vita. Nonostante non le fosse stata diagnosticata nessuna patologia, la donna aveva dichiarato che, avendo ormai superato gli ottanta anni, non voleva continuare a subire il declino delle sue facoltà fisiche e mentali. Aveva, in modo particolare, spiegato che diventava sempre più debole, avvertiva difficoltà a concentrarsi e non era più in grado di fare delle lunghe passeggiate. Avendo cercato invano un medico che fosse disposto a prescriverle la dose letale necessaria di sodio pentobarbiturico; si era poi rivolta alla direzione sanitaria del cantone di Zurigo, il quale rigettò la richiesta della donna di ottenere il farmaco nell"aprile del 2009. La decisione fu confermata dalle autorità giurisdizionali nel 2010.

I medici consultati dalla Signora Gross o dal suo rappresentante rifiutarono la prescrizione da lei richiesta, in ragione dell"assenza di una patologia clinica. Essi affermavano che il codice di deontologia professionale impediva loro di concedere una simile prescrizione e che temevano di essere coinvolti in lunghi procedimenti giudiziari. La legge svizzera non precisava bene i casi in cui è ammesso il suicidio assistito.

A quel pun­to la que­stio­ne fi­ni­va in tri­bu­na­le. La Cor­te am­mi­ni­stra­ti­va del can­to­ne ri­get­tava l"i­stan­za per­ché dare sup­por­to a chi vuo­le sui­ci­dar­si sen­za che que­sti ab­bia pa­to­lo­gie ter­mi­na­li o gra­vi ri­scon­tra­te a li­vel­lo me­di­co può es­se­re una for­ma di age­vo­la­zio­ne pu­ni­bi­le a li­vel­lo pe­na­le. An­che la Corte suprema federale svizzera, nella pronuncia del 12 aprile 2010, rigettava il ricorso della Gross contro la decisione della direzione sanitaria, ritenendo che lo Stato non fosse tenuto a garantire all"individuo l"accesso ad una dose letale di tale farmaco. Ribadiva, inoltre, che la donna, non soffrendo di una malattia in stadio terminale, non soddisfaceva le condizioni previste dalle direttive etiche adottate dall"accademia di scienze mediche svizzera sulle cure da accordare ai pazienti terminali.

Il caso è ar­ri­va­to quin­di alla Cedu, che, con la de­ci­sio­ne del 4 maggio 2013 (ric. n. 67810/10), presa a maggioranza (quat­tro giu­di­ci con­tro tre), ha ri­scon­tra­to una vio­la­zio­ne del­l"ar­t. 8 del­la Con­ven­zio­ne, ri­guar­dan­te il di­rit­to alla vita pri­va­ta. La Cor­te ha fatto no­ta­re che la leg­ge sviz­ze­ra non pre­ci­sa bene i casi in cui am­met­te il sui­ci­dio as­si­sti­to e che i cri­te­ri do­vreb­be­ro es­se­re de­fi­ni­ti dal­lo Sta­to.

La ricorrente lamentava che le autorità svizzere, negandole il diritto di decidere in che modo e in quale momento la sua vita dovesse avere termine, avevano violato l"articolo 8 della Convenzione.

In diritto - Articolo 8: La Corte europea reputa che il desiderio della Signora Gross di avere a disposizione una dose letale di farmaco che le consentisse di porre termine alla sua vita, ricadesse nell"ambito del suo diritto al rispetto della vita privata così come tutelato dall"articolo 8. Nel caso Haas c. Svizzera aveva già riconosciuto che un diritto individuale a decidere in che momento e con quale modalità la propria vita dovesse terminare, presupposto che il soggetto si trovasse nella posizione di formare liberamente il proprio pensiero e di agire in conseguenza, fosse uno dei risvolti del rispetto alla vita privata.

La Corte aveva osservato che il codice penale svizzero punisce l"istigazione e l"assistenza al suicidio solo se compiuti per "motivi egoisti". Conformemente alla giurisprudenza della Corte suprema federale svizzera, un medico può prescrivere un farmaco che conduca alla morte per aiutare un paziente a suicidarsi qualora ricorrano le condizioni indicate nelle direttive etiche adottate dall"accademia svizzera di Scienze Mediche. In particolar modo, è necessario che vengano discusse le possibili alternative, che il paziente sia capace di assumere una simile decisione e che abbia riflettuto sul suo desiderio senza alcuna pressione esterna.

Tuttavia, tali direttive, adottate da una organizzazione non governativa, non hanno valore di legge. Inoltre, riguardando soltanto i pazienti i cui medici hanno diagnosticato una malattia in stadio terminale, in grado di portarli alla morte nel giro di pochi giorni o settimane, non possono applicarsi alla ricorrente. Il Governo svizzero non ha fornito l"indicazione di altre direttive volte a chiarire in quali circostanze un medico sia autorizzato a prescrivere tale farmaco letale a pazienti non in stadio terminale.

La Corte reputa che questa assenza di direttive chiare poste dalla legge è suscettibile di aver un effetto dissuasivo nei confronti dei medici che diversamente sarebbero orientati a fornire la prescrizione richiesta a persone nella situazione della ricorrente. Ciò trova conferma nel fatto che i medici consultati dalla ricorrente avevano rifiutato la sua richiesta per il timore della lentezza dei procedimenti giudiziari in cui avrebbero potuto essere coinvolti e dalla possibilità di subire conseguenze negative sul piano professionale.

L"incertezza circa l"esito della sua richiesta in una situazione concernente un aspetto particolarmente importante per la sua vita ha presumibilmente generato nella Signora Gross un considerevole stato di angoscia. Questa situazione non si sarebbe verificata se vi fossero state direttive chiare e approvate dallo Stato per definire le circostanze nelle quali i medici sono autorizzati a concedere la prescrizione richiesta allorché una persona giunga liberamente ad una siffatta grave decisione, senza che sia affetta da una malattia in stadio terminale.

Queste considerazioni sono sufficienti alla Corte per concludere che la legislazione svizzera, mentre accordava la possibilità di ottenere un dosaggio letale di un farmaco in base a prescrizione medica, non forniva direttive sufficienti a definire con chiarezza l"ampiezza di tale diritto. Tuttavia, la Corte non si pronuncia sul fatto se nella specie tale prescrizione dovesse essere garantita alla ricorrente, spetta alle autorità nazionale adottare direttive complete e chiare al riguardo.

La Svizzera ha presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale sentenza in commento (CEDU Grand Chamber Gross c. Svizzera (ric. 67810/10), emessa il 30 settembre 2014) ha dichiarato irricevibile il ricorso della donna, condannando il comportamento scorretto e l"abuso di diritto commesso dal legale della stessa, il quale aveva continuato l"iter del ricorso presso la CEDU, tacendo l"importante informazione dell"avvenuta morte della cliente con cui, per altro, non aveva mai avuto contatti diretti.

La Corte ha rilevato di essere stata informata della morte della sig.ra Gross non dall"avvocato, ma dal governo svizzero, per mezzo di una obiezione preliminare, tramite la quale è stata richiesta la dichiarazione di inammissibilità per abuso del diritto al ricorso individuale (articolo 35 §§ 3 a), e 4 della Convenzione).

La Corte prende anche atto della spiegazione fornita in risposta dal difensore della ricorrente,
di non essere stato informato della morte della sua cliente perché corrispondeva con lei attraverso un intermedio, un pastore in pensione che aveva lavorato come volontario con l"associazione EXIT in qualità di consigliere spirituale. Quest"ultimo si era impegnato ad assicurare il rispetto dei desideri della ricorrente e aveva volutamente evitato di informare l"avvocato della morte della sig.ra Gross perché non voleva che la causa fosse abbandonata.

Il Tribunale rileva, tuttavia, che se l"avvocato – come ha ammesso – non aveva avuto alcun contatto diretto con la cliente e comunicava con la stessa indirettamente tramite un intermedio, tale condotta solleva una serie di problemi per quanto riguarda il ruolo del rappresentante in giudizio e sulla sua legittimazione. Vi è infatti un obbligo in capo ad ogni ricorrente di cooperare con la Corte, tenendola informata di qualsiasi fatto rilevante per l"esame della domanda, il che si specifica in un obbligo ancora più stringente per un legale che pertanto non può proporre osservazioni fuorvianti.

Di conseguenza, la Corte ha preso atto della morte della sig.ra Gross e il venir meno conseguentemente dell"interesse ad entrare nel merito del ricorso proposto dalla defunta.






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