Fragilita, storie, diritti  -  Bedeschi Ilaria  -  09/07/2015

QUELLO CHE SUCCEDE DIETRO UNA PORTA CHIUSA RESTA SOLO TRA I PRESENTI. LA STORIA DI GIULIA – Ilaria BEDESCHI

Giulia è una donna di quarant"anni. Sposata, due figli e una bella casa. Almeno per lei lo era sempre stata.

Una casa accogliente, che nei sogni avrebbe visto crescere i suoi figli: arrivare da soli a prendere i bicchieri dal pensile. Trasferirsi perché si sarebbero sposati o trovato un buon lavoro in città diversa.

Giulia pensava che sarebbe invecchiata assieme a suo marito. Forse un paio di volte aveva fatto finta di non vedere un"uscita in un orario insolito. Lo aveva messo in conto. In fondo alla sera tornava sempre nella loro camera.

Viveva serenamente Giulia quegli anni; una vita normale, scandita dagli stessi tempi che - vicini alla noia - le davano una certa sicurezza. Fino a quella sera.

Una sera in cui, quella casa, aveva visto qualcosa che non doveva accadere. Almeno nei suoi sogni.

Giulia viene strattonata. Viene buttata per terra, un paio di calci sulle costole. Qualche parola offensiva, le mani che le stritolavano le guance. Poi più niente.

La mattina Giulia si era svegliata quasi intontita. Il ricordo della sera prima forse era stato solo un brutto incubo. Poi lo specchio. I segni rossi, con qualche sfumatura viola, le parlavano chiaramente.

Si veste e va in cucina. Al tavolo il resto della famiglia. Lui, seduto, le aveva preparato il caffè come piaceva a lei.

Quella famiglia, che tanto aveva sognato e disegnato, si era spezzata. Ma lui era il padre dei suoi figli; un bravo papà. E per lei continuava ad esserlo, anche nei mesi seguenti, quando le violenze che doveva subire peggioravano. Rapporti costretti, offese a lei come donna e come mamma.

Calci, graffi, morsi. E tutto questo nel più rigoroso silenzio. Nessuno doveva sentire. Nessuno doveva sapere.

Lei pensava che, fino a quando i figli non si fossero accorti di nulla, per loro lui restava il miglior dei padri.

Ma questo segreto diventava sempre più pesante. Lo stomaco iniziava a farsi sentire, la gola spesso le si chiudeva. Iniziava a girare in macchina per convincersi che poteva sopportare quello che le stava accadendo. Il matrimonio non è tutto rose e fiori, le ripeteva come un disco rotto sua mamma.

Poi, una mattina, accade la violenza. Questa volta in cucina. Davanti ai figli.

Dopo mesi, la camera da letto si era spalancata. Avrebbe invaso tutta la casa?

Lui esce. Va al lavoro. Giulia accompagna i bambini a scuola.

Qualcosa in lei era cambiato. In un secondo aveva raggiunto una certezza.

Cammina per qualche ora, vagando. Telefona ad una associazione che si occupa di donne vittime di violenza. Qualche giorno prima aveva cercato informazioni su internet. La consapevolezza stava lottando.

In quel momento Giulia capisce che lei è una donna maltrattata.

Le dicono di andare subito allo sportello. All"operatrice racconta la storia. Tutta. Nei dettagli. Ogni particolare. Senza apparente emozione. Con una freddezza indescrivibile.

Le vengono prospettate diverse alternative. Ma lei decide subito. Nella sua casa non vuole più tornare. Ma, ancor prima, la sua premura era quella di madre. Di accertarsi che i due bimbi sarebbero stati con lei. L"operatrice la supporta e le dice di stare tranquilla.

Di lì a poco erano già in caserma per la denuncia.

Dopo un"ora, i bambini erano al sicuro all"interno della sede dell"associazione.

Giulia, invece, veniva accompagnata a casa. Cinque minuti per prendere le sue cose. In cinque minuti doveva portare via la sua vita da lì. Cosa prenderemmo noi? Cosa rappresenta la nostra vita?

Intanto che i carabinieri tenevano in giardino il marito, nel primo minuto corre nell"armadio dove c"era la sua scatola. Quella dei ricordi, delle foto. Le conchiglie e le prime lettere.

Restano quattro minuti. Forse è meglio prendere qualche vestito dei bambini.

Tre minuti. Giulia guarda le fotografie, come può andare via senza una foto? Ma quale tra le tante?

Due minuti, corre nel pensile delle medicine. I bimbi soffrono di asma ed emofiliachia. Le medicine sono più importanti.

Un minuto. I tesserini sanitari.

Probabilmente lui butterà tutto quanto - partendo dalla scatola nell"armadio. Dalla cosa alla quale lei teneva di più.

Di Giulia non ho saputo più nulla. Credo che abbia iniziato una nuova vita, dopo un percorso all"interno di una casa protetta.

Giulia ha dovuto affrontare due grandi sfide, prima di ritornare a vivere:

a) L"opinione sociale, è ancora viva l"idea che "certe cose possono essere sopportate" dalle donne. La madre di Giulia è stata – paradossalmente – la prima a infonderle questa idea. Accettare per il bene della famiglia. L"idea che l"uomo possa permettersi un gesto di troppo.

Perché è sempre da un piccolo gesto che inizia il percorso della violenza - una parola sfalsata, qualcosa di diverso dall"atteggiamento consueto. E la violenza ha sempre un movimento ascendente. Inizia dal banale - che può essere solo percepito - per arrivare a gesti che lasciano i segni;

 b) La mancanza di un sistema giuridico omogeneo. Giulia è stata fortunata. Ha trovato una associazione in grado di aiutarla. Ma non a tutte le donne accade così.

La tutela delle donne che subiscono violenza è rilasciata per lo più all"associazionismo. Mancano leggi nazionali che definiscono i livelli minimi ma, soprattutto, i modelli operativi. In questo tipo di sistema le donne difficilmente possono sentirsi protette.

 

Quella di Giulia potrebbe essere la storia di qualsiasi altra donna vittima di violenza.

La sua consapevolezza che, prima o tardi arriva per tutte, è spiccata in quella mattina precisa.

A tutte le altre forme di maltrattamento si era aggiunta un sopruso per lei inaccettabile: la violenza assistita. Poteva continuare ad immolarsi per quello che secondo lei erano i periodi no del matrimonio. L"unico confine era l"estraneità dei suoi figli – per quanto questa sia effettivamente possibile.

E oggi, quello che succede in quella casa, non le interessa più.




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