-  Valeria Cianciolo  -  27/05/2017

Prima applicazione del Tribunale di Milano sul tenore di vita – di Valeria Cianciolo

Anche il Tribunale di Milano con un ordinanza del 22 maggio 2017 a firma del Dr. Giuseppe Buffone sposa il nuovo orientamento. Ma  guardiamo meglio. Lei e lui lavorano e hanno un buon reddito: nel caso specifico la moglie è inserita professionalmente nel mercato del lavoro, in un settore che  non appare affatto in crisi dagli atti; è titolare in misura pari al 98% della società per cui lavora e la  differenza di reddito liquido tra marito e moglie non è così pronunciata (2.950 – 1700), se non altro  considerata la proprietà sociale e immobiliare. .).

Cosa dice il provvedimento meneghino? Dice che il presupposto per riconoscere l"assegno di divorzio è "non già il raffronto con il pregresso tenore di  vita bensì il riferimento all"indipendenza o autosufficienza economica del richiedente, che può essere  desunta dai principali "indici" del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari  ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di  residenza dell'ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione  alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di  una casa di abitazione.

Per "indipendenza economica" deve intendersi la capacità per una determinare  persona adulta e sana – tenuto conto del contesto sociale di inserimento – di provvedere al proprio  sostentamento, inteso come capacità di avere risorse sufficienti per le spese essenziali (vitto, alloggio,  esercizio dei diritti fondamentali)."

Il Tribunale meneghino ha respinto la domanda di assegno divorzile formulata dalla moglie, in applicazione dei criteri indicati dalla Suprema Corte (Cass. n. 11504/2017), dando un primo chiarimento al concetto di indipendenza economica.

Facciamo un passo indietro.

Il Tribunale di Firenze con una nota ordinanza del 22 maggio 2013, n. 239, aveva ritenuto che il riconoscimento al coniuge economicamente più debole del diritto ad un assegno divorzile funzionale a garantire il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio viola il principio costituzionale di ragionevolezza sulla base delle seguenti considerazioni più che condivisibili rimettendo in tal modo la questione alla Corte Costituzionale: "il matrimonio ed il divorzio sono istituti storicamente determinati, i cui mutamenti vanno di pari passo con le trasformazioni sociali, sicché il loro profilo funzionale non è definibile in astratto, una volta per tutte, ma occorre tener conto del modo in cui, secondo indici storicamente mutevoli, essi vengono intesi e interpretati nell"esperienza giuridica di un dato contesto sociale. Nel periodo storico che va dalla metà del XIX ai nostri giorni si è assistito ad un"evoluzione del matrimonio nel mondo occidentale, con la progressiva affermazione dell"idea che la ragione d"essere di questo istituto sia da identificare esclusivamente nell"affetto reciproco degli sposi, con il definitivo superamento della visione tradizionale che privilegiava gli aspetti assistenziali e patrimoniali del medesimo.

La concezione tradizionale, che attribuiva al matrimonio - fra l"altro - lo scopo di assicurare una posizione e uno status sociale alla donna, è stata sostituita dall"idea che il matrimonio sia un fatto privato degli sposi e si fondi sul reciproco consenso, venendo meno il quale si ha la dissoluzione definitiva del vincolo e del rapporto che ad esso è conseguito.

Il diritto vivente oggetto della presente questione di costituzionalità, però, mantiene fermo il principio che il matrimonio proietti i suoi effetti patrimoniali in perpetuo, con la possibilità che un coniuge possa beneficiare di una rendita ben superiore ai propri bisogni di natura assistenziale. Tale concezione non tiene dunque conto dei profondi mutamenti dei modelli culturali degli ultimi decenni, esprimendo una concezione «cripto-indissolubilista» del matrimonio che appare oggi anacronistica. La giurisprudenza costituzionale ha più volte riconosciuto la sopravvenuta illegittimità di norme divenute «anacronistiche» e per tale motivo irragionevoli. Il giudizio di costituzionalità è infatti senz"altro aperto agli «argomenti storici», che consentono di valutare le conseguenze derivanti dai mutamenti intervenuti, per decorso del tempo, nelle situazioni di diritto e nelle situazioni di fatto."

La sentenza della Cassazione pronunciata il 10 maggio 2017 n. 11504 - richiamata dall"ordinanza meneghina in commento - trova dunque, un nobile precedente ed in una certa qual misura rispolvera quelle parole, facendole sue.

Ma come sopra ricordato, già in terra di Toscana si era detto che la c.d. "privatizzazione della relazione di coppia" e la previsione di un vincolo matrimoniale che può essere dissolto per iniziativa unilaterale di uno dei coniugi, risulta incompatibile con una disciplina delle conseguenze economiche che garantisca a tempo indeterminato il persistente godimento del tenore di vita coniugale alla parte economicamente debole, in omaggio ad una "concezione del matrimonio che appare oggi anacronistica" e che non tiene conto del dato che vede la donna pienamente protagonista della "vita economica e sociale della famiglia".

 

In sostanza, nell"attuale contesto normativo l"esigenza di garantire all"ex coniuge la conservazione di un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto in costanza di matrimonio riveste un"importanza fondamentale, ma  deve essere contemperato anche con altri diritti fondamentali che l"ordinamento aspira a garantire.

E fin qui nulla questio.

Cosa devono fare gli operatori davanti a dei clienti che avanzano richieste di non voler versare più un ghello all"ex coniuge?

Quello a cui bisogna prestare attenzione è non cadere in un errore di impostazione: l"accesso delle donne al mondo del lavoro non determina il superamento delle asimmetrie all"interno della coppia, né pone in secondo piano le esigenze di tutela del coniuge debole. Anzi, il problema si può invertire perché conciliare le esigenze di lavoro con quelle della cura della famiglia, diviene un tema tanto più importante e sentito quanto maggiore è la partecipazione femminile al mondo del lavoro e la diffusione delle c.d. "dual-income couples". Dunque, in altre parole, si può ribadire che proprio nei Paesi in cui è più risalente e sviluppata la presenza delle donne nel mondo del lavoro, il tema della gender justice ha cominciato a porsi con specifico riguardo al problema della allocazione dei costi connessi alla cura della famiglia.

Il riferimento al criterio dell"indipendenza economica quale criterio di attribuzione dell"assegno non è in grado di offrire, perciò, in sede divorzile la possibilità di recupero della dimensione compensativa dell"assegno divorzile. Se il giudizio verte sull" indipendenza economica di chi ha redditi di 2.000 euro mensili, non  ci sarà una fase di quantificazione perché il diritto viene negato e tutto finisce lì con la scomparsa di ogni possibile recupero di qualsiasi criterio di valutazione "delle ragioni della decisione, del contributo personale  ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla  formazione  del  patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito  di  entrambi,  e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio".[1]

Ma se l"ex coniuge non guadagna 1.500,00#?

 



[1] Gianfranco Dosi "Presupposti dell"assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente", in Lessico di diritto di Famiglia maggio 2017

 




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