-  Redazione P&D  -  09/12/2014

ONERE DI PRODURRE ATTI: A CIASCUNO IL SUO- Cass. Civ. 25270/14 - C. MICELI

La sentenza che si annota offre un" interessante lettura di insidie processuali inedite, dando vita a una "controregola giurisprudenziale" (per dirla con Patti) rispetto all"assetto di base scolpito dall"art. 2697 c.c.. Ma prima di turbare ulteriormente quella che fu brillantemente definita la falsa quiete della dottrina dell"onere della prova, invito i lettori a una rimeditazione del rapporto tra incertezza e diritto nel gioco processuale, avendo a rifermento il noto Rashomon di Kurosawa, siccome suggerito da autorevole dottrina.

Il fardello probatorio deve abbandonare la landa dell"ordinamento in cui si incagliano da un lato, autori prigionieri di ipoteche concettuali primitive, dall"altro, pimpanti candidature di battaglia che deviano dai principi generali. La distribuzione dei carichi processuali da cui dipende la risposta giudiziaria agli appetiti petitori, non può avvenire secondo una logica a senso unico.

Il peso della dimostrazione della verità che ama nascondersi, va ripartito secondo combinazioni differenti, alla luce dell"effettiva signoria dei contendenti sui fatti costitutivi di causa. Sappiamo, per le voci intonate alla tradizione, che onus probandi incumbit ei qui dicit, ma la ragionevolezza del caso aggiunge anche.. ei qui negat. Insomma l"individuazione di chi ci rimette (secondo l"insegnamento di Grunsky) qualora non emerga in giudizio come siano andate le cose, affatica non poco le analisi dei processualisti. Su chi incombe il rischio del buio non diradato dalla spiegazione istruttoria? Su chi aveva il dovere di trovare il bandolo della matassa della pretesa invocata in giudizio? Grunsky insegnava come la questione dell"onere della prova doveva confrontarsi con una corretta interpretazione, giacchè un ordinamento munito di sottili meccanismi per cogliere il significato di una norma, non può accontentarsi per un singolo caso di schemi concettualmente primitivi. Né deve impaurire la pluralità di conseguenze cui tale approccio potrebbe aprire, giacchè certa inquietudine da sempre segue l"attività interpretativa: sappiamo insomma che i concetti giuridici non hanno pace (Irti). La logica distributiva del fardello probatorio guarda alla vicinanza dei litiganti rispetto ai fatti posti a fondamento delle pretese: provo ciò che ricade nel mio recinto, sono responsabile della dimostrazione dei frammenti di cui ho il governo. Nel trascorrere dalla norma al fatto e dal fatto alla norma, la centralità dell"istruzione probatoria, che sta in mezzo tra l"affermazione e la decisione, ci ricorda come il processo non sia solo di esistenza del bene della vita conteso, ma anche giudizio di valore. È proprio il valore di un giusto equilibrio delle forze in campo, di una parità delle armi secondo ragionevolezza e proporzionalità, che disegna il contesto in cui si inscrive il decisum in commento.

La Suprema Corte, in materia di equa riparazione, sottolinea che, qualora il ricorrente si sia avvalso della facoltà di richiedere alla corte d'appello di disporre l'acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell'istante, di quegli atti, la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata processuale. Difatti la parte ha un onere di allegazione e di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel rito, la data iniziale di questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre (in armonia con il paradigma di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c., prescelto dal legislatore) "spetta al giudice -sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente addotti dal resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto- verificare in concreto e con riguardo alla singola fattispecie se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata (Cass. n. 21093 del 2005), tenuto anche conto che nel modello processuale della L. n. 89 del 2001 sussiste l" iniziativa del giudice, che gli impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con l'esercizio di tale potere (Cass. n. 18603 del 2005)".

Ciò a dimostrazione di come nel nostro ordinamento non sia mai stato recepito un modello dispositivo puro che elide ogni profilo inquisitorio spendibile dal giudice: la combinazione degli impulsi di parte con gli approfondimenti d"ufficio liberano il gioco processuale dalla sovranità della mera stabilità del rapporto rispetto alla verità dei fatti. Capovolgendo l"assunto di Carnelutti (non me ne vogliano gli antichi maestri, non volendo certo essere il mio un verbo eretico), non tanto le parti servono al processo, quanto il processo alle parti. Le combinazioni probatorie devono essere coerenti ai fatti disponibili per i contendenti, alla loro sfera di signoria, cosicchè alla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, segua la simmetria tra l"affermato e la possibilità del dimostrato.

Il giusto peso della eloquenza dimostrativa non può perdersi in uno malinteso rischio che eccita il processo. Se è vero che con l" incardinarsi di una causa, si celebra l"ordinamento nel concreto, la norma adeguata al caso, allora ciò deve avvenire secondo i moduli di un principio fondamentale della sua reggenza: l" uguaglianza formale e sostanziale, che va a declinarsi con misura e ragione tra chi lamenta un torto e chi ha il compito di ripararlo, di ricucire lo strappo prodotto dall"illecito nel reale.

Cosa volete che aggiunga…alla prossima puntata, per parlare dei rischi che animano il nostro agire e patire processuale.

 




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