-  Rossi Stefano  -  25/09/2012

NON VOLERE FIGLI NON GIUSTIFICA IL TRADIMENTO DEL MARITO - Cass. civ. n. 16089/2012 – Stefano ROSSI

Addebito o non addebito, è questo il dilemma.

A risolverlo hanno tentato le corti di merito con esito opposti, infatti, mentre il Tribunale pronunciava la separazione con addebito per il marito, contrariamente, la Corte d"Appello ha riformato la sentenza graziandolo dall"addebito.

Per quale motivo ? Che il marito fosse fedifrago era provato, concretamente e con certezza, avendo questi intrapreso una relazione clandestina con un"altra donna già dal 2003, tuttavia la scelta del coniuge di venir meno ai suoi doveri era stata determinata, a suo dire, non da pulsioni incontrollabili ma dal venir meno dell"unione d"intenti con la moglie, la quale, a quell"epoca, gli aveva confessato di non voler avere dei figli con lui.

La Corte trentina ha quindi ritenuto che il tradimento fosse stato una reazione del tutto proporzionata alla scelta della moglie di non procreare con il coniuge.

Contro tale decisione proponeva ricorso in cassazione la moglie tradita, con tre motivi tra loro connessi: contestando in primo luogo che l"affermazione della donna (che in realtà era una confidenza fatta alla cognata) potesse aver determinato la scelta del marito di intraprendere una relazione extraconiugale; ciò, e questo è il secondo motivo, perché la relazione era iniziata ben prima che la donna esternasse la sua intenzione di non dare figli al marito, ed infine, a contorno, si eccepiva la contraddittorietà della motivazione della Corte d"Appello.

La Cassazione critica la sentenza trentina ritenendo illogico il tentativo di creare un collegamento tra la scelta del marito di intraprendere una liaison con la segretaria (che storia scontata !) e la dichiarazione della ricorrente di non voler avere un figlio dal marito, anche perchè a tale confidenza era seguita una ritrattazione, dubbi e la volontà della donna di riconciliarsi con il coniuge. Circostanze queste di cui il giudice d"appello non aveva tenuto conto.

Tuttavia la Corte di legittimità non cassa la sentenza, rilevando come le censure mosse dalla ricorrente non abbiano toccato il punto centrale della motivazione: ovvero, l"addebito non poteva essere attribuito al marito in quanto lo stesso aveva intrapreso la relazione extraconiugale in presenza di una crisi nel rapporto matrimoniale non più reversibile.

Infatti, per giurisprudenza consolidata, la dichiarazione di addebito della separazione trova fondamento nell"accertamento di comportamenti (tenuti dal coniuge consapevolmente) contrari ai doveri coniugali, nonché nell"insorgenza di una situazione di intollerabilità del protrarsi della convivenza, causalmente relazionata alla condotta addebitabile. Tuttavia, ai fini suddetti, la violazione dei doveri scaturenti dal matrimonio deve intervenire non già quando sia ormai maturata l"intollerabilità della convivenza, ma in un momento pregresso, avendo essa stessa efficacia causale nella insorgenza della crisi coniugale (ex pluris Cass. civ. Sez. I, 1 giugno 2012, n. 8862).

Si ha addebito quindi, ove vi siano violazioni degli obblighi matrimoniali, di regola gravi e ripetute, che diano causa alla intollerabilità della convivenza, e non quando, all"opposto, in presenza di una crisi già esplosa, uno dei coniugi si "consoli" tra le braccia di un altro/a.

Quanto al tentativo della corte trentina di bilanciare (o meglio giustificare) il tradimento con l"asserita volontà della moglie di non voler avere figli si deve notare che con il termine fedeltà, la cui radice significa fede, fiducia, si vuole effettivamente alludere non soltanto all"esclusività dei rapporti sessuali, ma ad ogni manifestazione della vita più intima dei coniugi, nella triplice sfera sentimentale, sessuale e generativa. Tuttavia, il richiamo al dovere di fedeltà non può tradursi in una "trasfigurazione" dello stesso in un inesistente dovere di assecondare immediatamente il tassativo desiderio (nella specie procreativo) dell"altro coniuge.  

Infatti l"evoluzione dei valori e dei modelli sociali di comportamento ha mutato i rapporti di coppia nel senso dell"eguaglianza e dell"autonomia, e con essi comportato il tramonto del ius in corpus e del debitum coniugale (Ferraro, Famiglia e Matrimonio, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, Giuffrè, 2001, 215).

La procreazione non costituisce più, dunque, l"esito normale o naturale del rapporto di coppia e dello stesso matrimonio, ben potendo essere rinviata (od anche esclusa).

La decisione di avere figli, che naturalmente rientra tra quelle affidate all"accordo dei coniugi, può essere bloccata dal "veto" unilaterale di uno dei due (Roppo, Il giudice nel conflitto coniugale. La famiglia tra autonomia e interventi pubblici, Il Mulino, Bologna, 1981, 314).
Non è più il matrimonio, in quanto istituzione, a costituire la via attraverso la quale assicurare all"uomo una discendenza. In passato regole del diritto e regole sociali valevano a garantire questa aspirazione. Per la donna il matrimonio costituiva pressoché l"unica prospettiva di vita degna; una volta sposata, la donna era tenuta all"obbedienza, e ad un obbligo di fedeltà, per lei sola, incondizionato, né poteva rifiutare i rapporti sessuali - dato che al marito spettava nei suoi confronti il ius in corpus -, o impedire che fossero fecondi - essendo le pratiche contrarie penalmente sanzionate.

Oggi il diritto non offre più questa garanzia: la fedeltà resta il primo tra i doveri coniugali, ma è fondato su basi di reciprocità ed è privo di sanzione penale; il consenso al matrimonio non autorizza a rapporti sessuali non voluti; il controllo della fertilità non è riprovato, ma promosso in vista di una procreazione responsabile. L"aspirazione alla discendenza può, quindi, realizzarsi non in forza del diritto, ma del consenso, un consenso che non è solo quello iniziale, ma che deve rinnovarsi ogni volta.

In questo senso anche il giurista custode della tradizione doveva osservare come "la programmazione delle nascite da un lato - passata in gran parte dalle decisioni dell'uomo a quelle della donna - ed il potere dall'altro riconosciuto alla stessa moglie di abortire senza che sia richiesto il consenso del marito (...) sono espressioni dello stesso filone di tendenza che ha portato alla non incriminazione dell'adulterio ed al libero riconoscimento dei figli adulterini. Questa è rivoluzione: il rapporto familiare, chiuso per naturale tendenza, non trova più una difesa esterna al suo carattere istituzionale; ma questo forse è soltanto un segno che riflette la dilagante libertà dei costumi" (cfr. Trabucchi, Famiglia e diritto nell"orizzonte degli anni "80, in La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo, Bilanci e prospettive, Padova, 1986, p. 3 ss., specie p. 11 ss.).

Così, nella disciplina attuale il rapporto tra matrimonio e procreazione è più sfumato rispetto al passato, in quanto nella dimensione dei fini, il matrimonio civile è inteso ad instaurare la comunione materiale e spirituale tra i coniugi ma, diversamente da quanto previsto dal diritto canonico, non è istituzionalmente orientato alla generazione della prole. Nei rapporti tra coniugi, la generazione non costituisce materia di un diritto dell"uno nei confronti dell"altro, e di un correlativo dovere ma, piuttosto, oggetto di una libertà da esercitarsi insieme, solo se entrambi si è d"accordo. Il tramonto della soggezione della moglie al marito porta con sé la riconquista del privilegio nella generazione che la realtà biologica ha consegnato nelle mani della donna, nell"ambito di un rapporto affettivo e paritario (non proprietario) con il partner (Cossu, La filiazione legittima e naturale, in La famiglia, III, Torino, 2000, 25).

In questi termini, la sentenza trentina sembra fare un salto indietro di almeno 35 anni, rivendicando un inesistente ius in corpus nei confronti della moglie che giustificherebbe la ricerca di un diverso partner sessuale da parte del marito, cosa che appare illegittima, prima ancora che infondata in diritto.




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