Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  18/03/2023

Le scriminanti atipiche: collocazione sistematica attraverso i contributi giurisprudenziali e dottrinali - Cecilia De Luca

La previsione di stringenti presupposti e di limiti all’efficacia scriminante delle cause di giustificazione cc.dd. tipiche, perché espressamente disciplinate dal legislatore, hanno posto, in diverse ipotesi, problemi di compatibilità tra la disciplina codicistica e le caratteristiche di determinate attività lecite, il cui svolgimento è tuttavia occasione della commissione di reati. Il problema si è posto, ad esempio, in riferimento all’attività medico-chirurgica, in relazione alla scriminante del consenso dell’avente diritto, e ha trovato soluzione sul piano della tipicità; ulteriore settore in cui la dottrina e la giurisprudenza sono state impegnate nel valutare la compatibilità  della materia con la disciplina delle cause di giustificazione è quello sportivo, con particolare riferimento ai cc.dd. sport a violenza necessaria o anche solo eventuale. Un secondo ordine di problemi, legato all’estensione della portata applicativa delle scriminanti tipiche, ha infine riguardato le cc.dd. cultural defences, ovvero scriminanti culturali, in relazione alle quali la giurisprudenza è stata chiamata a stabilire se e quale rilevanza possa assumere in sede penale l’etnia del soggetto agente, con particolare riferimento alla cultura, alle tradizioni e alle regole morali e religiose che la contraddistinguono. Tutte le summenzionate ipotesi sono accomunate dall’assenza di un’espressa disciplina nell’ordinamento penale, che regoli la rilevanza penale di comportamenti che, in ragione delle peculiarità oggettive o soggettive della fattispecie concreta, possano o debbano ritenersi non punibili o quantomeno meritevoli di un trattamento sanzionatorio attenuato. All’assenza di un’espressa disciplina parte della dottrina ha sostenuto di poter sopperire attraverso il ricordo alla c.d. teoria dell’azione socialmente adeguata; si tratta di un’elaborazione dottrinale sviluppatasi nell’ordinamento tedesco durante il periodo nazista, che presuppone una concezione sostanziale del principio di legalità; tale impostazione consente, sulla scorta di tale fondamentale presupposto, di escludere la punibilità di quelle condotte che, pur integranti una fattispecie di reato e non espressamente scriminate dalla legge positiva, risultino espressive dei valori condivisi dalla società in un dato momento storico e quindi “socialmente adeguate” ed in quanto tali non punibili. Si propone cioè, attraverso la descritta teoria, un parametro sostanziale legato ai valori che caratterizzano un determinato contesto sociale, attraverso cui valutare se la condotta del reo risulti conforme, e quindi adeguata, a siffatti valori ovvero contraria ed inadeguata rispetto ad essi, con conseguente possibilità di escludere, nel primo caso, la punibilità del fatto, anche prescindendo dal dato formale. Il fondamento ideologico della teoria dell’azione socialmente adeguata è da rinvenirsi nell’accezione sostanziale del principio di legalità, che non richiede un’espressa previsione legislativa dei comportamenti penalmente rilevanti, consentendo la punizione dei fatti che risultino in contrasto con i valori condivisi dalla società. La caduta dei sistemi totalitari e l’avvento delle moderne Carte costituzionali, fondate sull’accezione formale di legalità, che contraddistingue lo Stato di diritto, ha segnato il tramonto della legalità sostanziale e comporta l’incompatibilità con il vigente ordinamento penale dei suoi corollari, ivi compresa la teoria dell’azione socialmente adeguata. Nonostante l’effetto favorevole che ne discende per il reo, tale impostazione risulta infatti in palese contrasto con il principio di legalità formale e con i suoi corollari di riserva di legge e tassatività, che regolano la materia penale nel nostro ordinamento, con conseguente impossibilità di invocare la corrispondenza della condotta tipica ai fini sociali condivisi in un determinato momento storico per escluderne la punibilità. Occorre invece verificare se l’ordinamento penale, complessivamente inteso, offra sul piano strettamente normativo gli strumenti per assegnare rilevanza alle peculiarità oggettive e soggettive che contraddistinguono le materie in cui la dottrina ritiene operanti le c.d. scriminanti atipiche. Deve precisarsi che questo argomento, delle “scriminanti tacite”, non deve essere sovrapposto o confuso con la questione relativa all’ammissibilità di un’estensione analogica delle cause di giustificazione, poiché in quest’ultimo caso, si presuppone l’esistenza di un’espressa disciplina delle scriminanti, che si intende estendere analogicamente a casi non ricompresi nell’ambito applicativo della legge. Nel caso delle scriminanti atipiche, invece, si parte dall’opposto presupposto dell’assenza di una disciplina della causa di giustificazione da invocare, anche solo per analogia, in un determinato settore o per una determinata fattispecie criminosa. Anche il Mantovani definisce queste, le cause, come “tacite”, ovvero non codificate o extralegislative, perché, dunque, non previste dalla legge, ma da fonti materiali. Circa il problema della loro ammissibilità, esse sono coessenziali agli ordinamenti penali incentrati sul principio di legalità sostanziale, come si è detto, ove nei criteri del bilanciamento di interessi, del giusto mezzo per il giusto scopo, della azione socialmente adeguata, della non pericolosità sociale dell’azione, si individua la fonte del diritto extralegislativo avente efficacia limitativa della norma penale scritta. Esse sono, invece, inconciliabili, con gli ordinamenti incentrati sul principio di legalità formale, quale appunto il nostro, che non ammettono scriminanti oltre quelle espressamente previste. Il problema che si pone è soltanto quello della estensione analogica delle scriminanti codificate, sempre che si ritenga ammessa l’analogia in bonam partem e pur sempre nei casi e limiti previsti. Circa, invece, il problema della loro necessità pratica, esse sono inutili, poiché le c.d. ipotesi di scriminanti tacite sono in genere riconducibili alle scriminanti codificate, come appunto: 1) la cultural defence; 2) l’attività sportiva violenta; 3) l’attività medico-chirurgica. In seguito al mutamento istituzionale, avvenuto nel nostro paese, il vigente diritto penale non risponde più appieno al complesso dei nuovi valori istituzionali. Tale mutamento di valori istituzionali, che non va confuso coi mutamenti di opinione pubblica o con le ideologie ed interessi di parte, è quello espresso attraverso i principi della Costituzione, in cui si conciliano e trovano il loro punto di equilibrio le varie forze operanti nella nostra società. Pertanto, il contrasto totale o parziale di una norma col principio costituzionale deve essere rimosso attraverso le garanzie del giudizio di costituzionalità o il riconoscimento della liceità di particolari condotte, che, nel quadro dell’art. 51 c.p., delimita la portata della norma penale. Non, invece, attraverso le incerte e insidiose vie delle scriminanti tacite, così definite dal Mantovani.

    • La scriminante dell’attività medica

A questo punto, ben possono cogliersi i motivi per cui si è reso necessario trattare brevemente le “scriminanti tacite”, id est per una maggior completezza della tematica concernente l’operatività delle medesime nell’attività del medico, sub specie dello psichiatra. Per individuare il fondamento ed il limite della liceità, occorre distinguere tra: attività terapeutica; attività terapeutico-sperimentale; attività sperimentale pura o scientifica; attività estetica pura. Il fondamento politico-sostanziale della liceità della attività terapeutica, della sperimentazione terapeutica, della sperimentazione pura, sta nella loro utilità umana: per la salute del singolo, ex art. 32 Cost., nei primi due casi e per il progresso della medicina nel secondo, ex art. 9 Cost. Il fondamento tecnico-formale della loro liceità va individuato non nell’asserita atipicità, nel senso della concezione tripartita del reato, del trattamento medico-chirurgico, quale ne sia l’esito, se eseguito secondo la leges artis, perché atipico può essere, al più, l’intervento terapeutico o terapeutico-sperimentale completamente fausto, ma non quello con esito infausto parzialmente o, più ancora, totalmente, nel caso di morte, e, comunque, l’intervento di sperimentazione pura; e perché l’atipicità sta ad indicare la mera irrilevanza penale del fatto, ma non il giudizio di approvazione dell’ordinamento, sottostante all’autorizzazione giuridica, e alla doverosità, in certi casi, dell’attività medica, bensì sul piano delle scriminanti, poiché la liceità si fonda sul bilanciamento degli interessi.  Le scriminanti del consenso dell’avente diritto, dell’adempimento del dovere o dello stato di necessità, non offrono una “giustificazione” né adeguata, né realistica, e pericolosa per le ragioni che seguono. Il consenso ex art. 50 c.p., perché esso scrimina sulla base dell’interesse mancante e della conseguente indifferenza dell’ordinamento giuridico, mentre  la liceità dell’attività medica, nel caso di specie del chirurgo,  si fonda sull’utilità sociale della stessa e, quindi, sul conseguente giudizio giuridico di prevalenza dell’interesse da essa espresso; e perché esso non abbraccia le menomazioni permanenti dell’integrità fisica, mentre l’attività medico-chirurgica sottostà al solo limite del bilanciamento dei rischi-benefici. L’adempimento del dovere ex art. 51 c.p. e lo stato di necessità ex art. 54 c.p., perché prescindendo essi dal consenso del paziente, possono portare a negarne l’autodeterminazione, e, pertanto, sono e debbono restare del tutto estranee all’attività medico-chirurgica. Rileva bensì la scriminante dell’art. 51 c.p., trattandosi di attività giuridicamente autorizzate per la loro utilità sociale, e quale servizio pubblico, come si desume dall’art. 32 Cost. e da tutta la legislazione che riconosce, disciplina, favorisce e finanzia tali attività. Tuttavia tra i requisiti ed i limiti della autorizzazione legislativa vi è, innanzitutto, il consenso del soggetto e può rilevare la urgente necessità terapeutica ai fini della sufficienza del consenso presunto, che non sono le scriminanti ex artt. 50 e 54. E proprio in ragione della sottostante autorizzazione giuridica, e nei limiti di essa, diventa legittima l’assunzione dell’obbligo di garanzia, cioè di cura, da parte del medico, pur sempre sulla base del consenso del paziente, con la fonte nel rapporto contrattuale tra medico e paziente o di lavoro del medico con la struttura sanitaria, e non rientra nell’adempimento del dovere ex art. 51 c.p. I limiti dell’autorizzazione giuridica e dell’obbligo di garanzia dipendono dal “tipo di ordinamento”. Corollario dell’ordinamento incentrato su una concezione “utilitaristica” dell’uomo è, infatti, il principio dell’indisponibilità dell’essere umano, che trova l’unico limite logico, secondo l’utilitarismo statuale-collettivistico o maggioritario, nella utilità pubblica o “dei più”, come confermano ricorrenti e abominevoli esperienze storiche, cui fa riscontro l’ “obbligo di curarsi” del singolo e, quindi, del non rifiuto delle cure; secondo l’utilitarismo edonistico-individualistico, invece, nel consenso del soggetto, che legittima la tendenza ad una illimitata liberalizzazione. Corollario dell’ordinamento incentrato, come il nostro, sulla “concezione personalistica” dell’uomo, religiosa e laica, è il “principio della indisponibilità” della persona umana manu aliena che si articola nel: 1) “principio della salvaguardia della vita, integrità fisica e salute” del soggetto, ex artt. 32 Cost, 5 c.c., che comporta la liceità dell’attività “terapeutica”, nei limiti del bilanciamento tra benefici e rischi del trattamento; della “sperimentazione terapeutica”, nei limiti di tale bilanciamento, visto in rapporto anche alla trattabilità o meno della malattia con terapie già collaudate, finché, cioè, sussiste il c.d. tentativo di cura o miglior cura; della “sperimentazione pura”, nei limiti dell’art. 5 c.c.; del “prelievo da vivente” a scopo di trapianto, nei limiti dell’art. 5 c.c. (prelievi di sangue, tessuti, ecc.), con conseguente divieto del prelievo degli organi unici, ma anche doppi; del “prelievo da cadavere”, nei limiti della morte unica a tutti i fini, encefalica, scientificamente certa, anche se accertata con metodi precoci; della “scelta medica” tra più mezzi terapeutici, se tutti scientificamente seri e nessuno di provata superiorità terapeutica o, altrimenti, di quello avente tale superiorità. Ulteriori limiti si possono rinvenire nell’ “idoneità tecnica” della struttura e del personale sanitario ed il rispetto della leges artis, nonché “l’utilità e serietà scientifica” dell’esperimento; 2) nel “principio della salvaguardia della dignità della persona umana”, che comporta l’illiceità del trapianto, futuribile definito dal Mantovani, del cervello, con la conseguente mostruosità di un nuovo “uomo artificiale”; della conservazione in vita della testa isolata dal corpo; dell’ibernazione del soggetto vivo o vitale per farlo rivivere quando la medicina avrà vinto la malattia di cui è affetto, ma in un mondo che non è più il suo; del trattamento rianimatorio una volta accertata la morte encefalica irreversibile per evitare la degradazione dell’ “uomo pianta” e delle “banche viventi di organi”; della psicochirurgia o psicoterapia, volte non a curare la malattia mentale, ma a modificare la personalità, ad esempio, per estirpare la criminosità o neutralizzare i dissenzienti politici; delle manipolazioni genetiche, volte alla ibridazione uomo-animale o alla riproduzione di uomini in serie; della locazione del ventre materno, degradante la donna ad organismo riproduttore ed il nato a res commerciabile e commissionabile; 3) nel “principio di eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani”, ex art. 3 Cost., che si oppone alle discriminazioni in materia di sperimentazioni e prelievi, e di scelte tragiche, o attuate attraverso la programmazione e selezione genetica di uomini, inferiori o superiori; 4) nel principio del “consenso” reale, informato, specifico, oppure presunto, nel caso di impossibilità materiale di consentire e di urgente necessità terapeutica, del soggetto o del rappresentante legale, se trattasi di attività terapeutica o terapeutico-sperimentale. Per la sperimentazione pura occorre il consenso reale, specifico, spontaneo, informato, ed altresì personale. Il principio personalistico si oppone, contro l’utilitarismo collettivistico o maggioritario, agli interventi extraconsensuali che da sempre vengono effettuati, secondo una temibile mentalità, dimentica che i poteri-doveri del medico trovano il fondamento primario nel consenso del paziente, mai sacrificabile per il progresso e la felicità dei più. E, contro l’utilitarismo individualistico-edonistico, agli interventi consensuali, che superino i limiti oggettivi sopraelencati. Anche la c.d. “libertà di cura” non è diritto a qualsiasi trattamento, richiesto dal medico, ma libera scelta tra i soli trattamenti di documentata terapeuticità o, comunque, con le garanzie ed i limiti delle sperimentazioni terapeutiche. Sul solo consenso del soggetto si fonda invece il trattamento estetico puro, di mera vanità, diverso quindi da quello estetico-terapeutico, che è scriminato nei limiti dell’art. 5 c.c. Sulla base dell’art. 51 c.p. e nei limiti suddetti è giustificato il trattamento medico-chirurgico come tale, cioè per le lesioni e sofferenze in cui si concreta. Non certo, invece, l’esito infausto, poiché esso non rientra nella autorizzazione legislativa della attività del medico-chirurgo, ma anzi contrasta con la finalità di questa, che è quella di autorizzare le cure, non di far morire. Il medico, se rispetta i suddetti limiti, oggettivi e soggettivi, va esente da ogni responsabilità, dolosa e colposa. Altrimenti risponderà: di omicidio o lesioni dolosi o colposi, se ha agito col consenso del paziente e tali eventi sono dovuti alla violazione doloso o colposa dei suddetti limiti oggettivi; dei reati ex artt. 605, 610, 613, qualora ne ricorrano gli estremi, se ha agito senza il consenso e l’esito è positivo; di omicidio preterintenzionale, se ha agito senza il consenso e l’intervento, non consentito e non urgentemente necessario, ad esempio in occasione di altro intervento consentito, comporti una lesione personale, da cui derivi la morte; o del reato dell’art. 586, se la morte è dovuta a delitto doloso, ex artt. 610 e 613. Dunque, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza di legittimità sono pervenute, con riferimento all’attività del medico, in particolare del chirurgo, alla non ammissibilità ed utilità del ricorso alle scriminanti atipiche, quali il c.d. stato di necessità generalizzato o la non meglio definita  “scriminante medica”, equiparabile alla “scriminante sportiva” e fondata sulla “accettazione del rischio consentito”, dal momento che la condotta del medico non assume rilevanza penale già sul piano della tipicità, ferma la responsabilità del sanitario allorché agisca in violazione delle cc.dd. leges artis, incorrendo in colpa.

Estratto dalla tesi di laurea: "Il principio platonico-aristotelico di non contraddizione come fondamento dell'ordinamento giuridico."

In allegato il saggio integrale con note


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