-  Mottola Maria Rita  -  27/06/2008

LA MATTINA DEGLI ESAMI - Maria Rita MOTTOLA

“La mattina degli esami”



Luca spalancò gli occhi e rimase immobile come paralizzato. La fronte sotto i riccioli neri era imperlata di piccole gocce di sudore, il suo cuore attanagliato da una morsa gelida come il presentimento di un’imminente catastrofe. Non aveva il coraggio di volgere lo sguardo verso la sveglia che rifletteva i numeri, verde mela, prova inesorabile della tragedia. La sveglia non aveva emesso lo sgradevole trillo e Luca era rimasto addormentato o meglio intorpidito in un torpore quasi catatonico. Dalla piccola apertura dell’uscio, quasi una fessura, si materializzò quasi inconsistente e incorporea la gatta bionda come le spighe mature dell’orzo, flessuosa fece ingresso nella stanza e balzò sul letto. Si accoccolò tra l’insenatura che il braccio teso lungo il corpo generava e inizio ad emettere quel suono magico e ancestrale, simile al brontolio del tuono in una notte afosa di mezza estate, lento fruscio e forza animale quel suono, tale da far vibrare in un ondeggiare cosmico anche il suo diaframma. Luca rigido e immobile riusciva a vedere il movimento sinuoso della coda folta e fulva e il ciuffo di peli bianchi che si affacciava dall’orecchio sinistro, quello illuminato dalla fioca luce che filtrava dalle leggere tende di lino della stanza. La presenza calmò il suo respiro e gli ridiede coraggio. Luca, ancora in preda a quella strana sensazione disperata, volse lo sguardo e lesse: zero, sei, due, tre. La scritta del colore d’occhi satanici gli apparve meno sinistra e quasi consolatoria. Non aveva sentito la sveglia perché, semplicemente, l’aveva puntata alle ore 6,30 e dunque non aveva ancora suonato! La gatta soddisfatta iniziò ad inarcare la schiena voluttuosamente ed allungare ora una zampa ora l’altra, allargando, ad una ad una, le dita estroflettendo gli artigli e spingendoli in avanti, per poi ritornare lentamente alla morbidezza tipica di un essere del tutto privo d’ossatura come lei sapeva essere. Luca seguì l’esempio e distese le sue braccia intorpidite dalla tensione ed allungò le gambe così che le dita toccarono la parete leggermente ruvida e i piedi quasi fuoriuscirono dal letto, sotto le lenzuola azzurrine. Rimase indeciso un momento se toccare la sveglia perché non emettesse quel gutturale suono o aspettare ancora, proprio per sentirlo e in una qualche misura esorcizzare la sua paura di non alzarsi per tempo. Scelse di pigiare il tasto preferendo il silenzio al brutale ammonimento dell’oggetto infernale.
Si alzò e sotto la doccia lasciò scorrere via i pensieri. Per un breve tempo la sua anima si sollevò leggera fuori di quello spazio lindo e profumato, e dimenticò non tanto l’appuntamento della mattina piuttosto l’ansia inconsapevole e, per un certo verso, del tutto immotivata dei giorni scorsi. Luca era molto preparato, amava lo studio, affascinato dal sapere e dai libri, persino il profumo dei libri gli donava una sorta di sottile e nobile piacere, aveva anche la fortunata predisposizione per l’astrazione e i suoi pensieri espressi in una bella parlata, non erano mai banali o limitati. Perché preoccuparsi tutto sarebbe andato per il meglio. E, questa era la cosa più importante, ben presto avrebbe lasciato quella scuola che sentiva come una costrizione, e vedeva come un luogo ove le qualità dei giovani, tesori preziosi e patrimonio di tutti, non erano per nulla comprese ed apprezzate, anzi spesso umiliate ed avvilite. Avrebbe lasciato la sua città ed avrebbe iniziato studi universitari che, senza ombra di dubbio, gli avrebbero consentito quella ricerca del sapere e della verità che così tanto lo appassionava. Si vestì lentamente e con accuratezza, spruzzo anche un lieve velo di un’essenza profumata, regalo di mamma, che non aveva mai apprezzato e scese per la colazione.
Sua madre lo salutò sorridendo, con quel sorriso che Luca conosceva bene e che mascherava l’ansia e la tensione. Un blocco gli impediva di respirare regolarmente e non avrebbe potuto bere un bicchiere d’acqua, ma non voleva sentire la solita frase sulla necessità del carburante e preferì a piccoli morsi gustare la torta appena sfornata e talmente soffice e aromatica da scendere, silenziosamente, ad addolcire le pareti rattrappite del suo stomaco.
Mentre sedeva ancora rigido, sentì le sue braccia cingergli le spalle e le sue labbra sfiorare la guancia in un bacio morbido e caldo, non si sottrasse, come suo solito, ma la trattenne a sé per scaldarsi a quell’abbraccio.
La sagoma della gatta sorniona seduta sul davanzale della finestra si scagliava nella luce del mattino, immobile, solo la punta della coda abbandonata, impercettibilmente si muoveva. Luca salutò la mamma, prese il suo tascapane e uscì. Guidò la sua Bluette, che non avrebbe mai scelto, ma le era così cara perché dono dei nonni, come in trance, senza rendersi conto di essere ormai giunto davanti alla scuola, dovette invertire la marcia per raggiungere il parcheggio.
Durante la manovra comprese che qualcosa d’oscuro stava accadendo e la sensazione sgradevole dei giorni scorsi di tragedia immanente, trasformata in angoscia nella mattina, lo assalì nuovamente.
Ancora pensò che in pochi minuti tutto sarebbe terminato, finalmente liberato dal giogo di quell’ambiente ostile, avrebbe iniziato una nuova vita. Oggi però il pensiero di lasciare sola sua madre lo rattristava come non mai, perché lei sarebbe stata veramente sola. Vedova da ormai cinque anni non aveva voluto cercare un nuovo affetto, era circondata da molti amici sinceri e aveva un lavoro che le dava qualche soddisfazione, nulla di più. Luca sino a quel mattino non aveva compreso la volontaria solitudine della madre, non certo perché avrebbe preferito veder girare per casa, la sua casa, degli uomini diversi dal padre, ma perché lo aveva percepito quasi come un gesto d’egoismo. Mamma resta sola così mi sento in colpa se cerco di farmi una vita lontano da lei. Nutriva in cuor suo un certo rancore. Scese dall’autovettura e schiacciò la chiave per chiudere le portiere: nel sentire quel rumore simile allo squittire di un topetto, comprese che chiudere la porta sul suo presente non sarebbe stato facile come chiudere le portiere di Bluette. E comprese anche un’altra verità: sua mamma, la sua cara mamma, non era ancora pronta non aveva ancora potuto fare squich, aveva ancora colmo il cuore, colmo di un amore che la scaldava e la nutriva ancora e non poteva con un gesto chiudere con quel sentimento che la permeava in ogni sua fibra.
L’assalì una strana sofferenza e sentì una voce interiore, più che una voce un grido, che gli urlava di non andare via, di non lasciare la sua casa. Subito non comprese ma la sua anima fu invasa da un languore: non voleva lasciare suo padre. Perché in quella casa egli era presente, in ogni stanza si ascoltavano le sue parole, a dir il vero poche, si percepiva la sua voglia di vivere, la sua spensieratezza, quel disordine preciso e quell’ordine confuso proprio dei suoi gesti e delle sue creazioni artistiche. Andando all’università avrebbe perso irrimediabilmente suo padre, il suo ricordo si sarebbe affievolito e col tempo sfumato e impoverito. E questo Luca non poteva permetterlo. Forse egli confondeva questi sentimenti d’abbandono con l’attesa ansiosa degli esami. Era la sua vita in discussione non una prova che non riconosceva neppure come tale, ormai inquinata dai trascorsi in quella scuola che non lasciava emergere i difetti per porvi rimedio e non illuminava le qualità. Una prova che nulla avrebbe provato, almeno per lui, così immerso in quell’universo nitido di rispetto e di verità che avevano creato per lui i suoi genitori.
Mosse i primi passi, legato da una rigidità che gli impediva di procedere speditamente come suo solito e aprì lo sguardo sul piazzale che gli rimandava una scena surreale: un capannello di giovani più nutrito di quello che si aspettava, - tutti a sentire i suoi orali? - e tre uomini che entravano nella scuola. Non avevano occhiali scuri e il classico abito elegante, con i pantaloni a sigaretta un po’ corti sulla caviglia, insomma non portavano una scritta FBI, ma avevano un certo non so ché, un piglio deciso, uno sguardo inquisitore che rivelava la loro vera natura di poliziotti. Vide anche un suo compagno, fulvo di capelli, dalla pelle diafana, chiazzata di macchie rosee. Luca si era sempre chiesto se le lunghe dita sottili che terminavano a spatola portassero anche delle ventose che avrebbero completato il suo aspetto di geco. Luca si avvicino e sentì distintamente ma come in sogno Geco che ripeteva con voce monotòna: è una sciocca! È un’insopportabile sciocca! - mentre il suo colorito virava gradatamente al grigio per raggiungere picchi di quel colore indefinibile dei suoi occhi così che il tutto appariva di un unico incredibile colore, con l’eccezione del ciuffo scarmigliato di capelli rosso mattone. Luca fu avvicinato da Peter che concitato iniziava a narrargli l’accaduto. La Sciocca aveva ottenuto il massimo del punteggio nelle prove scritte tra lo stupore, o meglio senza alcuno stupore, dei suoi compagni. E ciò era ormai annunciato. Ma non le era stato sufficiente, con gretta arroganza, aveva beffeggiato Iolanda, ragazza intelligente di modesta famiglia, preoccupata di ottenere il massimo dei voti perché ciò le avrebbe consentito l’accesso ad una scuola privata promotrice di una borsa di studio, spiegandole che per ottenere il successo è necessaria la scaltrezza. E Iolanda non aveva resistito era corsa accalorata, offesa e amareggiata dal Presidente e lo aveva provocato invitandolo a fare qualcosa. E il Presidente della Commissione aveva fatto qualcosa: aveva chiamato la Polizia che stava accertando in che modo e chi aveva consegnato il giorno prima delle prove le relative tracce al Geco e alla Sciocca.
Luca vedeva i suoi compagni attraverso un velo evanescente, gli apparivano come quei guitti che dipinti d’oro o di bianco mimano movimenti lenti o restano immobili ai lati delle strade per un obolo. Non era un velo di tristezza quello che gli confondeva la vista. Sino ad un momento prima aveva come un grumo di pensieri, un nodo doloroso radicato nel bel mezzo della sua schiena tra le scapole, che lo bloccava nei movimenti e nei pensieri, dal quale partiva una corrente gelida che si irradiava alle spalle e risaliva lentamente sino al collo e alla nuca. Ora il nodo si era sciolto e un calore piacevole e rigenerante pian piano invadeva le sue membra. Incontrò con lo sguardo le mani di Geco che ormai si era assestato su un colorito verde sbiadito tendente all’avorio e ne fu certo le sue dita a spatola erano munite di ventose. Probabilmente la punizione sarebbe ricaduta su tutti e forse avrebbe dovuto rinviare di un anno il suo ingresso all’università, avendo così il tempo di riflettere e comprendere quale via fosse quella giusta. Il velo che copriva i suoi occhi erano, in effetti, lacrime, lacrime di sincera commozione. Giustizia era fatta. Alzò lo sguardo al cielo terso ove il sorriso di suo padre irradiava ogni cosa.




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