A fronte di un affidamento di un comune ad una società in house, una società che ha ritenuto che la scelta operata dall’amministrazione civica fosse illegittima ha presentato ricorso avanti al Tar Lombardia, lamentando che:
Il Tar Lombardia, sez. staccata di Brescia, sez. I, con sentenza 8 aprile 2021, n. 329, ha accolto il ricorso. Richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 100/2020, che ha ribadito che la motivazione prevista dall’art. 192, comma 2 del Codice dei contratti pubblici “è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali”, i giudici amministrativi hanno considerato la motivazione addotta dal comune affidante non sufficientemente giustificata.
A giudizio della Sezione bresciana, il comune avrebbe dovuto svolgere “analisi ed indagini pertinenti al mercato, anche affidate a soggetti indipendenti e specializzati, condotte facendo riferimento a contesti paragonabili”.
Nella stessa pronuncia, il Tar lombardo ha evidenziato che la società ricorrente non aveva interesse, invece, all’annullamento della deliberazione del consiglio comunale attraverso la quale il comune aveva deciso di mantenere la partecipazione nella società in house. Al riguardo, i giudici amministrativi hanno sottolineato che un ente locale possa partecipare ad una società in house, pur rimanendo non affidante di un determinato servizio.
Contro la decisione di primo grado ha proposto ricorso la società in house. Il Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza 19 ottobre 2021, n. 7023, ha riformato la sentenza di primo grado, evidenziando quanto segue:
In definitiva, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che il comune abbia “fatto buon governo della propria funzione amministrativa”, poiché esso ha “preso in considerazione sia la soluzione organizzativa e gestionale praticabile attraverso il soggetto in house, sia la capacità del mercato di offrirne una equivalente, sotto i profili della “universalità e socialità, efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego delle risorse pubbliche””.
L’in house providing quindi, in quanto soluzione organizzativa e giuridica “seconda” rispetto al ricorso al mercato, risulta comunque legittima, nell’ambito della discrezionalità amministrativa di cui godono gli enti pubblici, alla presenza di motivazioni oggettive e di istruttorie ampie e congrue.
Da registrare, infine, che il medesimo Consiglio di Stato (sezione consultiva per gli atti normativi, 7 ottobre 2021, n. 1614, num. Affare 01073/2021) ha ribadito che le linee guida elaborate da ANAC in materia di affidamenti in house siano da sospendere al momento, atteso che, inter alia, la normativa è in evoluzione, in specie avuto riguardo a quanto previsto, proprio in tema di affidamenti in house, dall’art. 10 (rubricato “Misure per accelerare la realizzazione degli investimenti pubblici) del d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito dalla legge 29 luglio 2021, n. 108. Quest’ultimo provvedimento normativo ha ampliato l’area applicativa del ricorso all’in house providing, introducendo una disciplina ad hoc della motivazione del ricorso alla formula del modello gestionale in house, in deroga al mercato. Alla luce della disposizione citata, le pubbliche amministrazioni devono operare una “valutazione della congruità economica dell’offerta avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione e la motivazione del provvedimento di affidamento dà conto dei vantaggi, rispetto al mercato, derivanti dal risparmio di tempo e di risorse economiche, mediante comparazione degli standard di riferimento della società Consip S.p.A. e delle centrali di committenza regionali”.