-  Redazione P&D  -  15/12/2010

IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE GENETICA NELLA RECENTE PRASSI INTERNAZIONALE - Cristina CAMPIGLIO

L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 (aggiornata nel 2007 dal praesidium della Convenzione europea) così enuncia il principio di non discriminazione: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”. Questa disposizione è destinata a divenire vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (recante modifica ai Trattati istitutivi dell’Unione europea e della Comunità europea): il nuovo art. 6.1 del Trattato sull’Unione europea, infatti, attribuisce alla Carta “lo stesso valore giuridico dei trattati”. Come ha tenuto a precisare lo stesso praesidium, il divieto è limitato alle “discriminazioni ad opera delle istituzioni e degli organi dell’Unione stessi nell’esercizio delle competenze conferite ai sensi dei trattati e ad opera degli Stati membri soltanto quando danno attuazione al diritto dell’Unione”: esso non riguarda in altre parole le discriminazioni operate dai privati. Delle tre nuove tipologie di discriminazione enunciate nella Carta, la più problematica è forse quella su base genetica: presentando contorni incerti, essa infatti può colpire anche soggetti affetti da patologie solo ‘parzialmente’ ereditarie (e dunque assumere dimensioni allarmanti), come pure soggetti solo ‘potenzialmente’ portatori di malattie o disabilità di origine genetica.
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