-  Redazione P&D  -  21/02/2015

IL METODO SPALLATO OVVERO COME LAVORARE MEGLIO PER LAVORARE MENO - Gemma BRANDI

Lettera a un giovane agente di Polizia Penitenziaria

Gemma Brandi - Psichiatra psicoanalista - Direttore Salute Mentale Adulti Firenze 1-4 e IIPP

In questo momento di vergogna collettiva degli operatori penitenziari per frasi che denotano sprezzante cinismo e arrogante superficialità, vorrei ricordare un giovane agente di Polizia Penitenziaria calabrese che conobbi nella seconda metà degli anni ottanta. Si chiamava Spallato, ma era un uomo formatosi in antitesi rispetto al suo cognome, un ragazzo assolutamente basato e centrato.

Intanto perché parlo di cinismo. Se la sofferenza, quella sperimentata consapevolmente dal soggetto o esportata all"esterno, è quanto giustifica il lavoro di ogni operatore sanitario, sociale, giudiziario, della sicurezza e dunque meriterebbe il rispetto che si porta al proprio lavoro, per quanto complesso sia affrontarla, ci sono individui che non sperimentano colpa per azioni di per sé colpevoli: rallegrarsi per un reato, perché il suicidio rimane tale almeno per il diritto canonico; rallegrarsi per la fine disperata di una vita, colpa quanto meno etica. Il cinismo -letteralmente vivere come un cane- ben al di là della omonima scuola di pensiero, comporta una indifferenza incompatibile con ogni attività che impone il confronto diuturno con la sofferenza. Il cinico è colui che, avendo pagato in anticipo, si sente autorizzato a compiere qualsiasi azione riprovevole senza sperimentare colpa alcuna. Forse varrebbe la pena tenere conto del fatto che il degrado imboccato dalle carceri italiane nell"ultimo ventennio -e a girare dalle altre istituzioni: scuola, strade, sanità, giustizia…- alimenta tendenze ciniche strutturali e le corrobora, per il tramite di un diffuso, persistente, gratuito supplizio, che nel caso del carcere accomuna agenti e reclusi trasformando la pena in punizione e il lavoro in tormento, e confermando una intima sensazione creditoria. Questo non giustifica gli atteggiamenti oggi sotto accusa, ma da una parte li rende meno inspiegabili, dall"altra permette di non escludere la possibilità di prevenire degenerazioni che trovano buon gioco anche a causa della indifferenza cinica di fronte al grido di aiuto che dal carcere si leva, e non solo al di là delle sbarre. Il problema è che il crimine sembra avere poco a che fare con il bello che ancora paga, specie a chi non abbia una spiccata sensibilità artistica e si fermi alla declamazione delle forme scontate della bellezza, incapace di avvertire l"incanto delle vicende umane, la ricchezza creativa della sofferenza, l"ispirazione artistica della trasgressione che pure riempie le pagine della letteratura e delle pellicole cinematografiche da sempre. Sono queste forme nascoste del bello che spingono una diciottenne newyorkese di oggi a sostenere, non importa quanto consapevolmente, che il carcere è cool, come sanno bene i fratelli Taviani!

E ora un breve accenno alla superficialità. I terribili commenti sulla morte di un cittadino romeno, di un erede di quei Daci che furono l"unico popolo europeo non barbaro oltre i confini ellenici e italici, suscitano il collettivo orrore e la pressoché unanime condanna. Solo un atteggiamento superficiale può averne sostenuto la diffusione: la superficialità che sta dietro l"uso acritico della rete da una parte, ma anche quella superficialità/vizio supremo di cui parla Oscar Wilde in De profundis, la lettera che scrisse da detenuto, autoaccusandosi di superficialità appunto. L"agire deve essere preceduto da un pensiero e accompagnato da una convinzione: né l"uno, né l"altra è dato intravedere nelle macabre frasi riportate dalla cronaca.

E ora veniamo a Spallato. Non ricordo il nome del giovane agente dagli occhi azzurri, un Gran Normanno solido, "gettato" ventenne a lavorare in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Ero allora una psichiatra poco più che trentenne, con una formazione e una esperienza già solide. Osservai che, quando nella sezione in cui operavo, era di servizio Spallato, l"area era tranquillissima, ciò che di media non accadeva. Un giorno lo chiamai per sapere da lui quale fosse la sua interpretazione della disparità di comportamento che mi ero trovata a registrare ed egli mi rispose così: "Dottoressa, ho fatto un esperimento: se non rispondo alle domande continue degli internati, se non sono garbato e disponibile nei loro confronti, smonto dal turno stanchissimo. Se invece presto attenzione alle loro richieste e faccio il possibile, non l"impossibile badi, per soddisfarne i bisogni, torno in caserma riposatissimo...". Chiamai questo "il metodo Spallato", il metodo che consiste nel lavorare meglio per lavorare meno e per essere in armonia con il proprio sentire. Quel giovane aveva scoperto da solo, senza studi e senza pratiche, quale fosse la condotta che pagava con i malati di mente, e direi con gli uomini in generale: una forma di rispetto gentile per l"altro, per quanto umile e fastidiosa possa apparire la sua condizione, senza strafare, senza arrampicarsi sugli specchi.

Il carcere forma o deforma. Di Spallato non ho saputo più niente. Talvolta mi domando dove sia oggi, dove lavori, dove applichi e se applichi ancora il suo metodo. Certo quell"uomo non aveva inclinazioni ciniche e voglio sperare che il carcere lo abbia ulteriormente formato, come ha fatto, farà, potrebbe fare con molti operatori penitenziari e in tal caso anche con molti detenuti.




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