Deboli, svantaggiati  -  Redazione P&D  -  19/06/2022

Il barbiere - P.C.

   “Avevo tredici anni quando mi ammalai, una forma abbastanza grave di mononucleosi. Venezia, facevo la terza media, primavera, fra il secondo e il terzo trimestre. Non era sicuro della diagnosi il medico di famiglia, i miei temevano avessi la meningite; piangevano spesso di nascosto. La febbre sempre a più di trentanove; calava un po’ la mattina, alle sei del pomeriggio tornava. Mia madre mi faceva due punture al giorno di streptomicina; soffrivo, smaniavo.

   Unico divertimento i fumetti di quand’ero più piccolo, che mio padre, bricoleur dilettante, aveva rilegato in due libroni: li sfogliavo quando mi sentivo meglio, sopra un maestoso leggio - dono anch’esso di mio padre - appoggiato sulle coperte.

 Difficilmente scorderò cosa provai quando dopo sessanta giorni di letto, scomparsa la febbre, ritrovate un po’ le forze, uscii per la prima volta fuori casa.

   Era una mattinata di fine aprile, tutto quanto sembrava meraviglioso - mentre camminavo incerto, a braccetto di mia madre – per le calli intorno a campo Manin. Le carezze di un sole leggero, i passanti che incrociavo, il colore dei canali, i gradini dei ponti, i colombi; le gondole, qualche coetanea che non era andata a scuola, le vetrine e gli odori dei negozi.

  Metà della gioia che avvertivo sotto il sole, dinanzi alle botteghe di Calle della Mandola, dipendeva dal fatto che, durante i mesi precedenti, non avevo cessato di ripassarle nella memoria un solo istante, una per una.

  Mai mi ero rassegnato alla febbre, mai la compassione che leggevo negli occhi dei parenti mi era bastata: tutto il tempo a letto ero rimasto - indovinando quanto ciò mi aiutasse a guarire - con la mente all’odore del pane fresco, là fuori, alle vetrine del negozio di pantofole sul ponte. Alla cartoleria in Bacino Orseolo. 

  Anche al barbiere in Campo Manin (quello che era diventato il mio da qualche anno). Per settimane le sue poltrone profumate, benché non le avessi mai amate, quando ci stavo sopra, mi erano tornate in testa da malato, a ogni incontro con qualche specchio di casa; dove ricevevo l’immagine di un ragazzino smunto, con le ciocche rossastre   – il mio colore naturale - sempre più lunghe, attorcigliate.

 Entrare nel posto dove ci si taglia i capelli, dopo esserci arrivati con le proprie gambe, non è la prova migliore che si è guariti?”.   

 

 




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