-  Conzutti Mirijam  -  20/08/2014

I PROFILI DEL PERICOLO NELL'ORDINAMENTO PENALE - Alberto DONES

 

In esordio conviene osservare come tale sostantivo, derivante senza dubbio dal latino periculum, sia stato mutuato, dal vigente ordinamento, in un'accezione in verità prossima a quella ordinariamente fruita dalle locuzioni laiche conservando, pertanto, inalterato il significato di stato o condizione in cui vi sia il ragionevole timore di patire danno o pregiudizio. La ratio è quindi, in generale, additare peculiari contingenze, ricorrendo le quali, taluno tema un nocumento cui verosimilmente intenda reagire adottando presidi, condotte ed, in ultima analisi, ogni utile misura idonea a scongiurare il prodursi dell'evento infausto, preconizzato, con gradata certezza, sulla scorta di indizi sintomatici talora di comune patrimonio e comunque condivisi o riconoscibili da un consesso più o meno ampio. In modo non difforme, il corpus normativo pubblico, lungi dall'innovare ed anzi seguendo una consolidata opera di positivizzazione di quanto favorevolmente registrato nella realtà che si propone di disciplinare, ne elegge a strumento il significato ed il significante gemmando numerosi istituti che si informano a quel segno linguistico che diviene, sia pure in modo proteiforme, un duttile strumento di anticipazione di una tutela. Vi è dunque, da parte del legislatore, l'avvertita e diffusa esigenza di introdurre nell'ordinamento fattispecie che non esauriscano in modo anodino la funzione generalpreventiva, somministrando (i.e. minacciando) sanzioni di intensità variabile al prodursi di un evento dannoso tipizzato in via generale ed astratta, occorrendo dotarsi quindi di reazioni parimenti intense e nondimeno capaci di cogliere significativamente l'approssimarsi di quell'evento, disincentivandone la condotta prodromica od impedendone che sia portata ad ulteriori e più gravi conseguenze. Vedremo di seguito, senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni dei più significativi istituti, sostanziali e processuali, che esitano le superiori descritte esigenze non prima di avere determinato l'eventuale confine anticipatorio di quella cautela sanzionatoria, il limite cioè, prima del quale, l'intervento ordinamentale assumerebbe l'inequivoco sapore dell'arbitrio legato ai convincimenti etici, sociali o politici dell'interprete.

 

La cd offensività della condotta: Non è certo questa la sede per ripercorrere l'intenso dibattito legato a tale principio, comunemente desunto dagli artt. 13, 25 e 27 Cost. oltre che dall'art. 49 c.p., tuttavia appare conducente, per i fini che qui più immediatamente occupano, rammentare il ripetuto insegnamento del Giudice delle Leggi per il quale verbatim:"...il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto) quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato" (cfr. da ultimo Corte Costituzionale sentenza 265/2005 punti 4 e ss del considerato in diritto). Dal canto suo, sicuramente avvertito dell'importanza dei valori in gioco, la cd Commissione Grosso (istituita per la riforma del codice penale), normava all'art. 2 co.II :" Le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico". Del resto l'art. 49 co.II c.p. continua a prevedere l'esclusione della punibilità quante volte l'inidoneità dell'azione o l'inesistenza dell'oggetto rendano impossibile l'evento dannoso o pericoloso. L'azione di regolamento dei confini intesa a tracciare un legittimo perimetro di intervento è quindi, per così dire, definita in negativo, da una condotta cioè concretamente non idonea o da un bene giuridico non (più) registrabile in via originaria o sopravvenuta e quindi assente in rerum natura. Il pericolo è pertanto non già difetto dell'offesa, per avere attinto un'azione od omissione talmente remota da revocare in dubbio l'orientata consistenza di essa, bensì valutazione meditata con cui si sostituisce normativamente, all'evento, le condotte che immediatamente lo precedono secondo una ponderazione di volta in volta mutevole ma indefettibilmente ancorata all'offensività delle stesse, idonee quindi ad esprimere autonomamente un disvalore sia pure risolto nel mero rischio di pregiudizio ad un interesse. Il tema che si agita, secondo una logica consequenziale, è quindi quello della vicinitas, ideale o materiale, della condotta al bene, la cui misura è somministrata dall'idoneità offensiva dell'azione o dell'omissione. Si scorreranno ora in disamina, visti da questa particolare prospettiva, le plurime declinazioni di tale principio.

 

Il tentativo come paradigma del pericolo: L'art. 56 c.p. aggancia la concreta somministrazione della pena ad una condotta idonea ed inequivoca che, pur senza consumare l'evento dedotto nella fattispecie di parte speciale, ne segna l'inizio della punibilità concettualmente collocata, pertanto, tra l'ideazione criminosa ed il perfezionamento del reato. Tale istituto fonda la sanzione sulla intrinseca pericolosità della condotta, tale, perché, da un lato, connotata da una concreta attitudine a consumare l'evento delittuoso e, dall'altro, univocamente orientata in tal senso cioè obiettivamente disvelante la prava voluntas.

L'istituto, letto in combinato disposto con una norma incriminatrice che tolleri il frazionamento della condotta o che non si descriva come già intrinsecamente anticipatoria, è all'evidenza dotato di una naturale vis espansiva capace di efficacemente sanzionare, entro i limiti descritti, chi si appresti a ledere un interesse penalmente rilevante   doppiando puntualmente i reati delittuosi inevitabilmente pensati in chiave di pregiudizio consumato al bene giuridico. Il legislatore appare peraltro ispirarsi a tale compiuta disciplina anche in punto di circostanze, affermandosi pertanto disposto ad irrigidire la dosimetria della pena per chi tenti di aggravare le conseguenze di un delitto (cfr. art. 61 n. 8 c.p.) od ampliando esponenzialmente la giurisdizione domestica per fatti ivi consumati solo parzialmente (cfr. art. 6 c.p.). Non è senza senso avvisare come, in tale ultimo caso, la nozione accolta sfugga, a rigore, alle previsioni del tentativo reputandosi sufficiente una condotta materialmente apprezzabile perfezionatasi entro i confini dello Stato, individuandosi la ratio nell'evitare qualunque pericolo di turbamento dell'ordinamento statuale rinunciando per l'effetto esplicitamente alla dogmatica dell'idoneità inequivoca, non versandosi tanto in tema di definizione di un fatto penalmente rilevante quanto e piuttosto di giurisdizione di uno consumato altrove.

 

La plurisogettività eventuale atipica: Come noto, con tale locuzione, si addita l"istituto disciplinato dagli artt. 110 e ss. c.p. chiamato ad assolvere dal codificatore - salve le eccezioni previste in talune leggi speciali (cfr. esemplificativamente art. 9 dlgs 74/00 che appare abdicarne per evidenti ragioni di politica criminale e di interna coerenza il predicato) - una funzione essenzialmente incriminatrice, cui quella ulteriore di disciplina ne esaurisce gli esiti sostanziali, tale da consentire la sussumibilità, di un numero potenzialmente infinito di condotte storiche, entro i confini normativi della concorsualità osservandosi, quale unico limite apprezzabile, quello dell"efficienza causale dell"agito atipico. Non v"è dubbio infatti che in un sistema di diritto sostanziale, orientato a dedicare al complesso fenomeno dell"eziologia materiale ben due articoli (40 e 41 c.p.), si rinvenga ontologicamente in quel combinato disposto, non casualmente collocato entro il medesimo titolo e capo che annovera il delitto tentato, la ragione che, ad un tempo, giustifica ed induce la rilevanza penale di quel coacervo di comportamenti non descritti nelle fattispecie di parte speciale e che, nondimeno, aspirano ad una tipicità ove causalmente apprezzabili. Si spiega quindi come intanto si dia plurisoggettività eventuale in quanto le condotte innominate abbiano apprezzabilmente concorso al prodursi dell"evento o del pericolo additato dalla norma incriminatrice, sanzionandosi pertanto una condotta intrinsecamente pericolosa giacché foriera di un valutata determinazione o di un mero rafforzamento di un altrui proposito delittuoso. L"inclusione della tipicità per così dire soggiunta dall"art. 110 c.p. rinviene pertanto l"insuperabile confine del cd. omnimodo facturus registrabile quante volte l"ideata azione od omissione appaia così rigidamente strutturata da non tollerare alcuna altrui sollecitazione ideale o materiale. Discende da quanto precede che, così enucleato il modulo razionale che delinea il concorso di persone, è agevole indicarne il convincimento che lo suppone e precede: l"opzione è, in ultima analisi, quella di attingere una pluralità indeterminata di condotte, ablandone l"intrinseca pericolosità riconosciuta in considerazione dei superiori criteri, pericolosità all"evidenza indicabile nell"avvertita esigenza che, una azione materiale, sia resa più insidiosa o pervicace dalla criminogena simbiosi con altrui coincidenti volizioni. La sensibilità del legislatore è tale peraltro che l"ordito normativo non rinuncia a superare le premesse concettuali che inducono l"enucleazione e la positivizzazione dell"istituto: non appaia superfluo rammentare, sia pure entro un"ermeneusi costituzionalmente orientata, reati quali l"art. 414 c.p., in cui la funzione incriminatrice cede il passo ad una tipicità causalmente orientata che, pure ricevendo la compiuta elaborazione di parte generale, si determina a superare il nucleo fondante il concorso morale segnandone la collocazione topografica tra le fattispecie incriminatrici che, nell"occasione, tipizza l"esaltazione o la (co)determinazione, storico nucleo del reato pluripersonale.

 

Il dolo eventuale: La forma più lieve di volizione di un fatto si afferma prospetticamente in almeno quattro diversi moduli interpretativi il cui comune denominatore appare il diverso atteggiarsi del pericolo in seno al binomio che compone il dolo ossia la rappresentazione, prima, e la volontà, poi, di determinare un certo evento: secondo una prima approssimazione l"eventualità risiederebbe nella mera accettazione del rischio che un certo accadimento si produca; in seconda battuta, assai più maturamente, si è proposto di arricchire la prosa ermeneutica innestando il grado di possibilità con cui si percepisca l"obiettiva contiguità dell"evento dedotto; di seguito non si è mancato di evidenziare il criterio dell"indifferenza che additerebbe la rappresentazione di due o più eventi in relazione ai quali l"agente paleserebbe una fattuale insensibilità al prodursi dell"uno o degli altri; da ultimo il costo dell"evento come prezzo della propria condotta (cd. formula di Frank) che, a ben vedere, appare più una lettura speculare dei primi che non un autonomo criterio interpretativo dell"istituto. La creazione, di matrice pretoria, additante l"ennesima insinuazione del pericolo appariva, peraltro, smentita dal Guardasigilli dell"epoca che non mancava di osservare come la previsione di un evento non potesse mai trasmodare nella volizione dello stesso: lo sportivo temerario, questa l"esemplificazione originariamente portata, che si accinge ad un esercizio rischiosissimo prevede di potervi lasciare la vita eppure egli vuole tutt"altro che la morte. Come insegna l"elaborazione giurisprudenziale successiva, la pur felice metafora non ha impedito il consolidarsi degli orientamenti succintamente illustrati che, con vari accenti e declinazioni, hanno di fatto introdotto il pericolo sin nell"ideazione di un fatto di reato intendendo sfumare il grado di intima percezione e determinazione con cui l"agente muove ad una certa condotta. Non si revoca in dubbio la plausibilità razionale dell"elaborazione che tuttavia appare connotare di sé persino la previsione, secondo la più diffusa ermeneusi, in chiave di fattiva e probabilistica produzione di un fatto, trasformando, il momento di volizione ideativa, in un evento con dolo di pericolo.

 

Erlaubtes Risiko ovvero il pericolo assentito: L'espressione, come noto, deve la più compiuta elaborazione scientifica alla dottrina tedesca che ha l'indubbio merito di avere indagato l'esistenza di una nozione di rischio diffusa o vagante giacché capace di involgere interi settori dell'economia reale predicando, quale naturale portato concettuale, un non meglio definito jus tollendi che si eserciterebbe al rinnovato e talora quotidiano prodursi di eventi significativamente pericolosi. Esso costituirebbe un limite alla responsabilità colposa esigibile in considerazione dell'indubbia utilità sociale discendente da azioni connesse esemplificativamente alla circolazione di persone o cose (marittima, aerea, ferroviaria, stradale) o alla ricerca medica, limite che troverebbe quali espliciti presupposti operativi la liceità intrinseca o provvedimentale di quell'attività ed il rispetto delle norme cautelari che l'ordinamento pone a presidio dei beni giuridici potenzialmente esposti a pregiudizio. Non si è mancato di osservare come, la puntuale osservanza di quegli obblighi, renderebbe forse superfluo il ricorso alla dogmatica del rischio consentito non potendosi esigere altro dall'agente che l'adozione di ogni precauzione generale ed eventualmente contingente che la scienza ed esperienza suggeriscono. Ecco allora che la valutazione dell'opportunità di assentire quelle attività umane pare allocarsi dunque, non in seno alla giurisdizione, ma in un momento ad essa precedente quale quello politico legislativo. Fondamentale a riguardo Cass. 25.03.1971 resa in occasione del disastro del Vajont secondo cui:" L'esercizio lecito di attività pericolose è da ritenere consentito nella misura in cui risponde ad obiettive esigenze di interesse collettivo o pubblico di ordine primario; dall'altro, nei limiti in cui sia possibile predisporre le misure necessarie affinché l'attività stessa non finisca per risolversi in danno, anziché in beneficio, per la società, nei suoi singoli componenti o nella collettività. In coerenza all'anzidetto criterio, occorre poi distinguere secondo che esposti alla gravità del rischio siano gli stessi soggetti partecipi all'attività pericolosa, ovvero degli estranei o, più ancora, la collettività. In tali ultime due ipotesi l'esigenza di un'adeguata tutela preventiva della sicurezza ed incolumità pubbliche si presenta con carattere di assoluta prevalenza rispetto all'interesse sociale dell'opera da realizzare, arrivando a condizionare la liceità stessa dell'opera in questione." Vi è dunque, secondo il giudice di legittimità, la possibilità di predicare un controllo postumo incidentale circa il grado di ponderazione che il legislatore, prima, e le autorità amministrative, poi, hanno esercitato nel consentire un'attività umana? Il tema, si osserva superfluamente, attiene dunque, per un verso, al bilanciamento di interessi che l'ordinamento è chiamato ad operare e, per l'altro, all'eventuale sindacato che la giurisdizione può compiere. In un diacronico dialogo tra Corti, la Consulta (cfr Corte Costituzionale 85/2013) così riassume e risolve icasticamente i termini delle questione:"Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri....La qualificazione come primari dei valori dell'ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato - dal legislatore nelle statuizioni delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale."

 

L'art. 61 n. 11 quinquies c.p.: La rammentata circostanza aggravante comune, tale per collocazione ed effetto sanzionatorio, deve la propria introduzione alla L. 119/2013 la quale ha inteso, in seno ad un quadro normativo interdisciplinare ispirato ad un significativo irrigidimento sanzionatorio, aggravare la pena quante volte - consumando delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, la libertà personale o il delitto di cui all'art. 572 c.p. - il fatto avvenga in presenza o in danno di un minore o di una gestante. Orbene, mentre l'ipotesi del nocumento all'infradiciottenne o alla futura puerpera, appare inserirsi in un consolidato orientamento tuzioristico che si volge a ceti ontologicamente vulnerabili (cfr. esemplificativamente l'intera L. 194/78 o gli artt. 98 o 112 co.I n. 4 c.p.), degno di menzione, per quello che qui più immediatamente interessa, è l'esplicitata volontà di esigere un identico inasprimento ove la condotta storica si perfezioni alla mera presenza di costoro. Non v'è dubbio quindi come il legislatore, ritenendosi soddisfatto da tale relazione di tempo e luogo, individui in essa il pericolo, alternativamente additato, di un turbamento della gravidanza o di una ordinata ed equilibrata crescita psicofisica in vista della maggiore età. L'anticipazione della tutela assume i connotati, quindi, di una astrazione difficilmente superabile solo che si consideri la complessiva disciplina orientata alla imputazione dei cd. accidentalia delicti. Giova infatti ricordare come l'art. 59 co.II c.p. precisi che:"Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa." potendosene pertanto agevolmente inferire, in ossequio ai principi generali, che, se da un lato, si impone il delitto doloso o preterintezionale come unico reato cui possa accedere l'aggravante di nuovo conio, dall'altro, il mero errore di fatto o di diritto che abbia a cadere sulla stessa, non ne ostacolerà la concreta operatività. Il prodotto si incrementa esponenzialmente laddove poi la fattispecie si profili plurisoggettiva: l'art. 118 c.p., che letto rigorosamente a contrario imporrebbe la comunicazione obiettiva di tutte le aggravanti diverse da quelle tassativamente elencate, condurrebbe all'innaturale conseguenza di un'imputazione aggravata per tutti i compartecipi una volta che, ad almeno uno di essi, fosse monosoggettivamente imputabile. Sennonché occorre adottare una interpretazione ortopedica della norma che tuteli il principio di colpevolezza accolto dal Costituente che elide forme di responsabilità, non solo per fatti altrui, ma anche per condotte o segmenti di essa incolpevoli ove attingano elementi significativi del reato. Discende da quanto precede che, onde evitare effetti perniciosi di dubbia tenuta costituzionale, ciascuno dei concorrenti potrà vedersi legittimamente contestata la circostanza di pericolo di cui è parola a patto che ricorrano i requisiti già indicati dall'art. 59 co.II c.p. ossia la conoscenza o quantomeno la conoscibilità di essa. Condivisa in linea generale tale interpretazione, essa si impone ove si discuta di circostanze di mero pericolo idonee, per quanto visto, ad accedere a fatti di reato già intrinsecamente pericolosi e ciò al fine di selezionare costruzioni normative compatibili con una tollerabile anticipazione della tutela.

 

Il pericolo quale presupposto dell'incidente cautelare: L'art. 274 c.p.p. si occupa della puntuale descrizione delle esigenze di volta in volta fondanti le misure tassativamente indicate nelle successive disposizioni cui evidentemente non sfuggono nemmeno quelle cd interdittive topograficamente collocate agli artt. 287 e ss. stesso codice. Appare agevole, prescindendo evidentemente dalle contingenti finalità processuali o sostanziali che il legislatore intende assolvere, additare un identico nucleo destinato tuttavia a declinarsi in ragione di tali singole opzioni, tutte rigorosamente accomunate dalla ricorrente nozione di un pericolo concreto in vista del quale l'ordinamento anticipa e legittima, a taluni effetti, limitazioni progressivamente più ampie alla libertà personale. Interrogandosi su tale locuzione appare profilarsi il dubbio circa la pretesa identità dell'accezione fruita nella triplice direzione cui le cautele si volgono, avendo peraltro a mente come la L. 81/'87 art. 2 n. 59 (recante delega al Governo per l'emanazione di un nuovo codice di procedura penale) paventava la nozione di pericolo con espresso riguardo alla sola possibile fuga della persona. Il tema che si agita sullo sfondo è pertanto quello che indaga il significato di pericolo concreto risolvendosi, a seconda delle prospettazioni semanticamente accoglibili, nella necessità, in tal senso, di un atto idoneo ed inequivoco, del profilarsi di una occasione semplicemente prossima e favorevole o infine di un giudizio squisitamente prognostico che si giovi delle modalità del fatto, di eventuali precedenti dati comportamentali e dell'entità della futura probabile irroganda sentenza di condanna. Non sfugga come le interpretazioni offerte si pongano in posizione di gradata ampiezza, consentendo coerentemente una altrettanto progressiva invasività della giurisdizione cautelare chiamata a scrutinare emergenze via via più sfumate e, per ciò solo, maggiormente esposte all'immanente rischio di una eccessiva discrezionalità. Se tuttavia, da un lato, le prime approssimazioni hanno l'indubbio pregio di ancorare la misura ad un oggetto per così dire ponderabile, dall'altro, appaiono sterilizzare il fine ulteriore del procedimento cautelare ovvero somministrare, accanto ad una ragionevole e proporzionata tutela della collettività, la sopravvivenza processuale dell'azione penale e, con essa, delle indagini che la precedono e fondano. Ecco allora che, in tale ottica autarchica, la misura attinge precipue finalità endoprocedimentali orientate a perpetuare l'effettività della giurisdizione fondando il superamento del solo dato obiettivo e giustificando, per l'effetto, una visione di matrice prognostica che veda oltre il compimento o l'approssimarsi di azioni, omissioni od eventi criminogeni. E' appena il caso di evidenziare come, alla identica ricostruita logica del pericolo, si ispiri la recente introduzione di un istituto di natura precautelare quale l'art. 384 bis c.p.p. disciplinante l'allontanamento d'urgenza dalla casa familiare operato dalla polizia giudiziaria concorrendo la flagranza di delitti tassativamente indicati. Esso si pone dunque in posizione di sostanziale continuità con i rammentati approdi interpretativi nulla aggiungendo l'attualità del pericolo, binomio già espressamente fruito dal legislatore nell'art. 274 c.p.p..

 

Dalla pericolosità della condotta alla pericolosità sociale: Secondo l'espressa dizione dell'art. 203 c.p. "...è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati." Si soggiunge al comma successivo che la pericolosità sociale è desunta dalle circostanze indicate nell'art. 133 c.p.. D'altro canto gli artt. 37 e 39 d.p.r. 448/88 dispongono, dopo avere agganciato la somministrazione di una misura di sicurezza alle ulteriori condizioni di cui all'art. 224 c.p., che l'infradiciottenne è pericoloso "quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e la personalità dell'imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o delitti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata." Appare evidente, sin dal mero raffronto delle due discipline, come la probabilità di una indeterminata recidiva, disegnata dal legislatore del 1930 quale presupposto per l'irrogazione di una misura di sicurezza, divenga, per il minore, prognosi di condotte di peculiare intensità criminale sdoppiando, in modo inedito, ciò che, per definizione, dovrebbe essere unitario ossia la nozione di pericolosità sociale. Ora, in disparte l'inutilizzabilità di perizie criminologiche quantomeno nella fase cognitiva, occorre riflettere se realmente l'ordinamento supponga indagini prospettiche ontologicamente differenti o si verta in tema piuttosto, mutuando i concetti dell'insiemistica, di cerchi gradatamente concentrici. Non vi è dubbio come il vulnus della normativa più risalente possa essere colto nella sostanziale indeterminatezza della futura eventuale recidiva che, all'evidenza, potrà riguardare anche fatti di contenuto disvalore, lacuna che il legislatore più recente ha inteso colmare indicando, anche in ragione del contenuto afflittivo della misura, il novero di condotte soggette a prognosi con una actio finium regundorum che (de)limita l'indagine a reati in grado di destare sicuro allarme sociale. Orbene, se l'orizzonte è, senza dubbio, meno ampio non lo è tuttavia la qualità della prospettiva che muove l'interprete non differendo i criteri del rito minorile da quelli indicati nelle circostanze cd improprie di cui all'art. 133 c.p., vero paradigma della discrezionalità del giudicante. V'è di più. Come noto in SSUU 9163/05 la Corte di Cassazione, scrutinando la compatibilità dei cd gravi disturbi della personalità con la tradizionale nozione del vizio di mente, ha inteso avvertire l'interprete nel senso di esigere tra il fatto di reato ed il disturbo mentale un nesso eziologico che consenta di ritenere il primo quale espressione del secondo, stimando l'imputabilità quale status del soggetto attivo tale da rendere rimproverabile il fatto penalmente rilevante in quanto consumato da chi si palesi capace di colpevolezza. La sollecitazione ermeneutica può trovare adeguato riscontro anche in punto di pericolosità sociale potendosi esigere, come già indicato da avvertita dottrina, una positiva sintomaticità tra reato e predittiva pericolosità onde correlare i due concetti inscrivendo il primo quale dichiarazione anamnestica di futura recidiva.

 

La pericolosità reale: E' questo l'inesplicito presupposto della confisca misura di sicurezza prevista dall'art. 240 c.p.. Secondo il Guardasigilli dell'epoca il bene sarebbe confiscabile allorquando si maturi il convincimento che, ove il soggetto attivo del reato continui a disporne, potrebbe conservarsi in lui "viva l'idea e l'attrattiva del reato" (Rel. Min. Prog. Cod. pen. Lav. prep. V, I, 245). Muove da identica considerazione anche l'ablazione obbligatoria del comma II ripugnando all'ordinamento che il reo mantenga il provento della propria azione criminosa. Vi è dunque l'introduzione di una nozione di pericolo che appare declinarsi non tanto in senso obiettivo quanto e piuttosto personalmente, quale concreta influenza circa la futura condotta del reo che potrà positivamente giovarsi, in esito alla disposta misura, dell'assenza di suggestioni recidivanti. Non la cosa in sé quindi ma la relazione che, con essa, ha intessuto il condannato ed il ruolo dalla stessa concretamente svolto. La presenza od il carattere di ciò che si confisca deve pertanto la propria natura ad una fictio, non potendo invero dubitarsi come sia l'agito del reo a trasferire e ad imporre lo stigma della pericolosità ad un certo compendio. Ecco dunque che, rivelata la genuina intenzione del legislatore, la cd pericolosità reale appare esclusivamente una peculiare proiezione di quella sociale che, in un certo modo, ne ripete i caratteri. Occorrerebbe ora interrogarsi, ove fondate le esposte considerazioni, se il decreto di archiviazione, quantomeno per l'espropriazione obbligatoria relativa alle cose intrinsecamente criminose, consenta o meno l'adozione della misura. La situazione è particolare non essendosi esercitata nemmeno l'azione penale di talché dovrebbe ritenersi che la liaison dangereuse sia spezzata o addirittura mai costituita sennonché apparirebbe paradossale obbligare l'Ufficio del P.M. al promovimento (inutile) dell'azione, invero già percepita dall'accusa destituita di giuridico fondamento, onde poi solo potere legittimamente invocare l'acquisto a titolo originario dello Stato. Si deve quindi convenire, in discontinuità con quanto si delibava sotto l'impero del codice abrogato, che, in linea di principio e salvi i rimedi in esecuzione, anche il provvedimento archiviatorio consente tale peculiare acquisto pubblico rilevando, nell'occasione, il principio di economia processuale sotteso all'art. 125 disp. att. c.p.p..

dott. Alberto Dones




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