Deboli, svantaggiati  -  Elvira Reale  -  25/03/2022

I prelievi coattivi dei bambini: da quando, da chi, perché e cosa fare

Associazione salute donna  e CTS di ‘Protocollo Napoli’

I casi degli ultimi mesi parlano di prelievi coattivi di minori e di utilizzo di articoli di legge inesistenti per quanto riguarda l’ allontanamento dei bambini dalla loro casa. Non esistono infatti leggi ad hoc che prevedano l’esecuzione di tali provvedimenti. Il giudice può decretare un allontanamento di un minore ma non vi sono regole che ne disciplinino l’esecuzione. 

Gli articoli in base ai quali l’AG rivendica la propria competenza nell’applicare  provvedimenti costrittivi: 330, 333, 403 , sono stati oggetto di  un chiarimento all’interno di una recentissima requisitoria di cassazione della PG Francesca Ceroni, Ricorso RG. n.21633/21: “Si ribadisce poi, per quanto sopra già osservato, che le norme che prevedono l'allontanamento con il ricorso alla forza pubblica (art.330, 333 cod. civ e art.68 cod. proc. civ.) del minore dalla residenza familiare, il suo collocamento in località segreta, il divieto di comunicare, sono rispettose del quadro costituzionale nell’ipotesi in cui la limitazione dei diritti del minore sia limitata nel tempo e strettamente funzionale alla sua incolumità. Solo l'emergenza (cfr. in proposito la circolare del Ministero degli Interni p.77841 del 4.8.2021, per la quale in questo campo la Polizia di Stato svolge funzioni di "pronto soccorso") può giustificare una limitazione della libertà personale, che può essere ristretta "nei soli casi e modi previsti dalla legge' (art. 13 Cost.) e quindi, allo stato della legislazione, può esserlo solo in conseguenza dell'adozione di misure cautelari, misure di sicurezza e misure di prevenzione, queste ultime tuttavia molto contestate. La materia è, come noto, soggetta a riserva assoluta di legge e nel sistema delle fonti che ci occupano non vi è disposizione che preveda "la restrizione della libertà personale " (art. 13 Cost.) del minore in questi casi. La disciplina dell'allontanamento coattivo con l'ausilio della forza pubblica e del collocamento sine die in struttura protetta, del divieto di comunicazione (l'analogia con il 41 bis O.P. non è peregrina), deve trovare espressa e integrale regolamentazione nella legge formale ordinaria o in un atto equiparato, nella specie inesistente, con conseguente illiceità di eventuali arbitrarie costrizioni della libertà personale del minore, che potrebbero anche essere fonte di danni risarcibili.

D’altra parte lo stesso Legislatore, con il recente intervento (1.206/2021), ha inteso dare un segnale estremamente chiaro in questa direzione, novellando il criticato art.403 c.c., effettivamente eccentrico rispetto al nostro assetto democratico, riducendone la portata applicativa e giurisdizionalizzando il procedimento, prevedendo tempi e modi estremamente stretti e rigorosi per l'intervento della pubblica autorità”.

La PG  in conclusione chiede, “ che il ricorso sia trasmesso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, trattandosi di questione di massima e particolare importanza. In ogni caso si chiede alla Corte di Cassazione, anche nel caso in cui dichiarasse il ricorso inammissibile, affermi il seguente principio di diritto: gli artt. 330, 333 cc e art.68 cpc, interpretati in senso conforme a Costituzione, consentono di disporre l'allontanamento coattivo del minore dalla residenza familiare unicamente nel caso in cui vi sia un rischio grave e imminente alla sua incolumità personale non altrimenti evitabile e consentono di collocarlo in luogo sicuro; preferibilmente in contesto parentale o amicale noto al minore, per il tempo strettamente necessario a scongiurarlo. Alla luce delle suesposte osservazioni si chiede dunque la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite e, in subordine, l'accoglimento per quanto di ragione”.

Condividendo il giudizio della PG Ceroni, ripercorriamo comunque la storia a grandi linee dell’avanzare di provvedimenti esecutivi vessatori e costrittivi per il minore. 

Alla fine del secolo scorso e prima dell’entrata in vigore della legge 54/06, non si riscontravano interventi coattivi dei minori riferibili al trasferimento di un minore da un genitore all’altro. 

A sintesi di un orientamento giurisprudenziale realmente puero-centrico  citiamo due sentenze di cassazione:

  • n. 6312/1999:  “ogniqualvolta il minore manifesti sentimenti di ripulsa ed ostilità nei confronti del genitore, il Giudice deve sospendere gli incontri... sospensione legittima e necessaria indipendentemente dalle cause, dalle responsabilità dei genitori e dalle motivazioni addotte dal minore... Ciò che conta è tutelare immediatamente il minore, salvo verificare in altra sede la responsabilità del genitore a livello individuale...in piena realizzazione della Teoria puerocentrica” (Cass. civ., 22 giugno 1999, n. 6312). 
  • - E ancora la n. 317/1998  da cui emerge come massima che  Il Giudice può disporre che in caso di divorzio egli non sia costretto a incontrare il padre non affidatario” (Cassazione Sezione Prima Civile n. 317 del 15 gennaio 1998, Pres. Finocchiaro, Rel. Spirito).

La vicenda processuale  racchiusa nella sentenza 317/1998   è la seguente: Il Tribunale di Bari, dichiarando cessati gli effetti civili del matrimonio concordatario tra i sigg. A.G. e R.L. ha disposto l’affidamento alla madre del loro figlio minore, precisando che il padre aveva la facoltà di vedere il figlio “subordinatamente, peraltro, e al consenso, volta per volta, del minore”.
La Corte d’Appello ha confermato questa decisione. Il padre è ricorso in Cassazione sostenendo che il diritto di visita del genitore non affidatario non può essere subordinato al consenso del minore. La cassazione ha rigettato il ricorso del padre in nome degli artt. 9 e 12 della Convenzione di New York. 

Queste sentenze di cassazione sono  quindi esemplificative di un clima diverso autenticamente centrato sull’interesse del minore, sul rispetto dei sentimenti e della volontà del minore come leggi e convenzioni indicano. La legge  54/06 sul piano legislativo non introduce concetti diversi ma indica solo che il giudice deve valutare in  prima istanza l’ipotesi affido condiviso ( art. 155 della legge ) ma contestualmente ( valuta prioritariamente… oppure…) deve valutare anche  l’ipotesi affido esclusivo, esplicitando (art. 155 bis) i motivi per cui non è praticabile l’affido condiviso.

Art.    155. – (Provvedimenti riguardo ai figli). Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

    Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.

La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.

    «Art. 155-bis. – (Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso). Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.

    Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma. Il giudice, se accoglie la domanda, dispone l’affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvi, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell’articolo 155. Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli, rimanendo ferma l’applicazione dell’articolo 96 del codice di procedura civile”.

Ma malauguratamente la legge 54, impropriamente detta dell’affido condiviso come sua unica vocazione e mission (la legge 54 è fatta abbiamo visto anche dell’articolo 155 bis che ne detta i limiti, ma comunque anche in prima istanza il giudice può determinare l’affido condiviso oppure l’esclusivo che sono due opzioni inserite nell’art.155)  si intreccia con l’adesione in Italia, da parte di una classe psicologica che si formerà e formerà scuole di formazione, alla teoria della PAS (Parental Alienation Syndrome), la cui prima (o tra le prime) trattazione in Italia si deve ad un volume del 1997 in cui viene tradotto un articolo di Gardner inventore della teoria. 

Possiamo considerare l’avvento di questo ‘nuovo corso’ a partire dalla legge 54/06 (anche se una sentenza sulla PAS è antecedente alla  legge e riguarda il tribunale di Alessandria decreto n. 318/99) come sinergia  tra il mondo giudiziario e la  cd psicologia giuridica /forense (quest’ultima, nata come associazione nel 1996, si espande sul tema della conflittualità familiare perseguendo attraverso convegni e seminari la diffusione delle sue teorie) nel passaggio da un orientamento puerocentrico  in linea di diritto ad un altro pragmaticamente  adultocentrico, dove il minore decade con i suoi diritti personali ed avanza la prospettiva dei genitori che lamentano da un lato  la manipolazione del minore e, dall’altro, come soluzione finale del problema, richiedono gli interventi coattivi del giudice per regolare l’affido. 

La relazione tra i genitori occupa la scena e viene definita conflittuale o altamente conflittuale e i rimedi, a partire dalla teoria della PAS sul piano della psicologia forense,  riguardano essenzialmente  la costrizione del minore al rapporto con il genitore rifiutato (generalmente il padre) che,  dopo la riforma del diritto di famiglia, legge 151/75, ritorna ad occupare la scena, grazie al riposizionamento della centralità del ruolo paterno e, parallelamente,  grazie al costrutto  misogino della PAS  (madre malevola, simbiotica e alienante ). In effetti l’intervento costrittivo per il minore nell’ambito di una conflittualità genitoriale prende piede grazie all’apporto di questa psicologia e del suo legame ancora oggi vivo e vegeto  con Gardner e la sua teoria.  Per trovare l’inizio dell’abbraccio tra questa nuova prassi della costrizione del minore a vivere dove e con chi non vuole vivere, possiamo riferirci ad un’altra data storica, quella del 2012, che ha visto per la prima volta accendersi i riflettori sulla traduzione  manu militari di un bambino di 9 anni da scuola: si tratta del noto caso del bambino di Cittadella. 

E su quell’episodio che scende in campo la società di psichiatria  con il presidente di allora Mencacci  che dice: “Queste tesi sono quindi soprattutto sostenute da alcune aree psicologiche, mentre la Società italiana di psichiatria non riconosce questo disturbo come una patologia. La PAS non essendo basata su studi fondati e replicabili e poggiando solo su supposizioni e senso comune, non sufficienti a definire una condizione patologica, non giustifica interventi terapeutici specifici. Come è possibile, per una condizione non ascrivibile a disturbo, sindrome o malattia riconosciuta dal mondo scientifico, indicare una terapia?”.

Da questo momento storico in poi si è visto come l’azione costrittiva del giudice ordinario e minorile si sia allargata a comprendere, non più solo il riconosciuto  stato di abbandono e/o i  maltrattamenti patiti dal minore, ma soprattutto l’elusione del cd diritto alla bigenitorialità o  l’elevata conflittualità, che danno luogo sempre più spesso allo spostamento del minore dal suo abituale ambiente di vita e dal genitore collocatario all’altro  genitore, spesso denunciato per violenza, o comunque non presente nella vita del minore fino alla separazione.  

A partire dalla legge 54 (ma ribadiamo, nella sua distorsione interpretativa) abbiamo nei fatti un ampliamento dell’applicazione di provvedimenti di natura costrittiva,  contenuti generalmente nell’art. 403 c.c. (per i quali non vi era stata finora particolare discussione) essendo in generale ristretto all’ambito delle emergenze, eseguite dai servizi e poi sancite dal PM minori (vedi  le ultime modifiche all’art. 27 della legge 206/21 :“Quando il  minore  è  moralmente  o materialmente  abbandonato  o   si   trova   esposto,   nell'ambiente familiare, a grave pregiudizio e  pericolo  per  la  sua  incolumità psico-fisica e vi e' dunque emergenza di provvedere”). 

Questo ampliamento ha portato anche a dover fare i conti con l’opposizione dei soggetti in causa che come genitori non sono assenti (abbandono) o che come i minori si trovano bene accuditi con il genitore presso cui sono collocati, fino a quel momento, costituendo questi  un saldo punto di riferimento per loro. Il genitore di riferimento poi è anche quello  con cui  hanno vissuto senza che questi abbia pregiudicato in alcun modo il loro sviluppo, se non per l’accusa di aver  ostacolato la  presenza dell’altro genitore, nei casi di separazione legale o di fatto.

Dal momento dell’ampliamento di queste prassi,  si è anche  strutturato  un pregiudizio - per responsabilità di una parte della psicologia aderente nella prima fase alla PAS - che ricollegandosi  a quelli dell’ ordinamento ante legge 1975, veicola il messaggio di una figura paterna di  maggiore rilievo rispetto alla madre nello sviluppo infantile; questo pregiudizio considera quindi  l’assenza paterna come un grave vulnus per lo sviluppo futuro del bambino, addirittura superiore al vulnus determinato dal trauma attuale e certo di separazione dalla madre, quando essa sia genitore di riferimento per il bambino, e dal suo abituale contesto di vita.

Questo pregiudizio che riporta al potere del padre è oggi responsabile delle azioni giudiziarie  invasive e borderline nella vita affettiva e relazionale del minore, costretta a subire deviazioni inconsulte ed illogiche. In altri termini  ci si è trovati di fronte al tema cogente delle esecuzioni di provvedimenti che non si possono attuare né con  la compliance del genitore collocatario, presente e vigile nella vita del minore,  né con il consenso  del minore che non è né oggetto di incuria né di maltrattamento; ovvero di fronte a provvedimenti che per essere attuati risultano altamente incisivi sui diritti fondamentali e costituzionali  delle persone, adulti e minori. Questi provvedimenti non mettono al sicuro la vita dei minori dall’abbandono, dall’incuria o da abusi ma, come oramai predicano gli psicologi cultori della nuova ideologia della  bigenitorialità  uber alles,  li metterebbero al sicuro da futuri e indeterminati rischi evolutivi da ‘assenza del padre’. 

Al di là dell’ideologia sottostante a questa inversione di orientamento bisogna poi chiedersi attraverso quali attori viene attuata l’esecuzione dei provvedimenti  del giudice quando comportano prelievi forzosi del minore.

Gli organismi interessati all’esecuzione che compaiono nei provvedimenti routinari dei giudici ordinari e minorili sono i servizi sociali e le forze dell’ordine.

Cominciamo a vedere da alcuni decreti come avviene il riferimento ad essi e in quali ruoli.

Leggiamo infatti in un decreto del tribunale per i minori: “L'esecuzione del provvedimenti del TM è demandata istituzionalmente al competente S.S.”; in un altro decreto leggiamo: “…Dispone… che  il minore venga collocato presso adeguata Casa Famiglia, a cura del Servizio sociale competente, con l'ausilio di neuropsichiatra competente e con l'ausilio di personale specializzato, in servizio presso Ufficio Minori”. 

E ancora: Tribunale Ordinario di … “dispone che il Comune di …. ed il Comune di …., d’intesa con le parti, provvedano a dare immediata attuazione all’odierno provvedimento, a tal fine, autorizza sin d’ora l’uso della forza pubblica per garantire il rispetto delle statuizioni assunte dal Tribunale”.

E ancora l’intervento del giudice tutelare nella questione dell’esecuzione, una volta chiuso in via definitiva il procedimento presso il tribunale ordinario: “dispone l’attuazione del dispositivo della sentenza di cui in premessa per mezzo dei Servizi Sociali di ……, con l’ausilio di personale di supporto psicologico e medico, autorizzandoli ad avvalersi, ove necessario, del personale appartenente alla Sezione di PG, aliquota Polizia di Stato”.

Da questi provvedimenti emerge che la prima figura istituzionale chiamata a dare attuazione ai decreti del giudice in materia di collocamento del minore è il servizio sociale. Ma vediamo cosa dice l’ordinamento che riguarda la sua  attività.

L’art. 128, l. 31 marzo 1998, n. 112 definisce «“Servizi Sociali” tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere o superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia». 

La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi dei Servizi Sociali (l. 8 novembre 2000, n. 328) stabilisce che tale sistema è chiamato ad intervenire a sostegno di minori in situazioni di disagio, tramite l’aiuto al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (art. 22, lett. c)

Ancora l’art. 1, 4° comma, l. 23 marzo 1993, n. 84  stabilisce l’autonomia della professione dell’assistente sociale che ha un ruolo non di esecutore ma di collaborazione con l’AG: «Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell’albo professionale» che recita: «... nella collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale».

Al ruolo autonomo di prevenzione e protezione dei minori  in capo ai servizi sociali, che codici deontologici e discipline di comportamento asseriscono e confermano, si affianca cosi quello di collaborazione con l’autorità giudiziaria; mai però si evince da leggi e codici un loro ruolo di mero esecutore di provvedimenti. 

Meriterebbe poi una riflessione  a parte il tema delle esecuzioni degli ordini anche qualora vi sia la  sottoposizione istituzionale (e non è il caso del servizio sociale) di un servizio all’AG; anche in questo caso un servizio avrebbe sempre la responsabilità individuale di applicare/eseguire un ordine con ogni evidenza lesivo dell’integrità psico-fisica di una persona e dei suoi diritti costituzionali.  

In questo quadro così definito, desta stupore e perplessità quando si prende atto  del coro unanime, tra giudici e forze dell’ordine, che parla di esecuzione in capo ai servizi sociali. 

Una diversa ipotesi che riguarderebbe la presenza di servizi sociali solo a tutela del minore e delle sue condizioni psico-fisiche, nella esecuzione dei provvedimenti dei giudici, potrebbe far ricadere il compito dell’esecuzione sulle Forze dell’ordine, abilitate in generale a eseguire interventi coattivi quando i soggetti sono colpiti da ordini restrittivi della loro libertà. 

Ma neanche questa ipotesi è sostenibile. Prima di tutto perché il genitore da cui si vuole allontanare il bambino non ha commesso alcun  reato e non è destinatario  di una misura restrittiva, in secondo luogo perché rimane in piedi sempre, in questi casi, il rifiuto e la resistenza del minore a seguire i servizi in un luogo diverso dalla propria casa e dal contesto dei suoi affetti e relazioni.

Per cui anche se si risolve il problema dell’adulto con artifici legali o sanitari (in un ultimo caso si è appreso dell’utilizzo della misura di un TSO- trattamento sanitario obbligatorio - per la madre nel restringere la sua libertà) rimane l’impossibilità di agire la forza materiale sul minore, per il quale non vi sono elementi legali e sostanziali per agire manu militari. 

Infatti le FFOO non hanno regole di ingaggio in questi casi per mettere in campo la forza bruta, volta a superare le resistenze del minore; infatti a questo riguardo  ritroviamo statuizioni  chiare nei loro documenti ufficiali.  

Nel vademecum per le forze di polizia (2014), preceduto da un protocollo di intesa dell’aprile del 2013, di definisce l’attività nell’ambito degli allontanamenti dei minori dal proprio nucleo di origine: “Allontanamento dei minorenni dalla famiglia di origine. Provvedimento dell’Autorità giudiziaria minorile che, nell’ambito della sua competenza civile di tutela e protezione, dispone che un minorenne sia allontanato dalla famiglia di origine per essere collocato presso una struttura di accoglienza presso l’altro genitore a motivo di situazioni di rischio, stato di abbandono, alta conflittualità di coppia. L’esecuzione dei provvedimenti civili è affidata ai servizi sociali territoriali, solo in caso di estrema necessità,  può essere disposto  l’utilizzo della Forza pubblica, in ausilio agli operatori sociali competenti”

E così le FFOO individuano il loro ruolo nei confronti dei minori solo a supporto e solo se chiamate in causa  come ausilio ai Servizi sociali, confermando in questo modo di non avere alcun ruolo come esecutori diretti dei provvedimenti del Tribunale nei casi di collocamento di minori in struttura o presso l’altro genitore o presso altre famiglie. Si sottolinea comunque il dato già emerso, di gravità rilevante per il cambiamento di paradigma nella tutela del minore per le FFOO  che, dal 2014, prevedono interventi coattivi non solo per fronteggiare lo stato di abbandono ma anche la conflittualità familiare ( e non invece si badi bene, la violenza domestica).  

Da questo quadro sui ruoli dei primi attori coinvolti nell’esecuzione di provvedimenti circa l’allontanamento dei minori rimane comunque  fuori la possibilità di esercitare violenza fisica mediante le FFOO che hanno un ruolo di supporto dei Servizi sociali,  i quali rimangono, secondo i giudici, unici esecutori ufficiali  dei provvedimenti  giudiziari sui minori.  

Se le cose stanno così in punta di legge e regolamenti, rimane di fatto che molteplici sono state le violazioni di leggi e regolamenti, provate da video che hanno registrato e documentato le prassi che hanno consentito l’uso della forza nei prelievi dei bambini.  

Queste prassi quindi senza un fondamento legale o un regime autorizzativo preciso, si muovono in una zona borderline in cui i compiti ed i ruoli degli operatori chiamati a intervenire non sono specificati  ma rimangono nell’ambiguità del non detto. Per quanto riguarda i servizi sociali si parte dall’assioma che siano gli interlocutori privilegiati del  tribunale per i minorenni, in un ruolo di collaborazione ma anche di piena autonomia professionale che è direzionata all’aiuto alle famiglie  e alla tutela dei minori; si passa poi, con un salto logico e giuridico, al loro ruolo di esecutori dei provvedimenti - del tribunale civile e per i minorenni- che riguardano la ricollocazione dei minori presso strutture o presso l’altro genitore o altri parenti del minore. 

 La ricollocazione poi non ha regole scritte e riconosciute che riguardino le modalità di attuazione, se non il fatto che un provvedimento può contenere il ricorso all’ausilio delle FFOO, senza mai sottoscrivere in alcun caso quando e come prevedere l’uso della forza. Si passa così in genere, da un primo decreto/provvedimento che dà la responsabilità al servizio sociale di operare per un ricollocamento del minore ad un secondo decreto che, in mancanza della riuscita del primo provvedimento, impone o sollecita di ricorrere alle FFOO in ausilio dei servizi sociali e a tutela delle persone impegnate nell’operazione o con l’incarico di ‘rimuovere ostacoli mobili o immobili’ sul percorso dell’esecuzione. 

Esiste quindi in questa tipologia di  decreti una zona buia che riguarda il  ‘come agire’ se il minore oggetto del provvedimento, si oppone e si rifiuta, o se i genitori si frappongono al compito di prelievo. Questa zona buia viene colmata da prassi  anche fantasiose da parte degli operatori, che cercano di trovare una loro giustificazione nel comportamento della madre che viene deferita all’autorità giudiziaria civile e penale come responsabile di maltrattamento nei confronti del figlio per averlo esposto ad azioni di forza o averlo alienato al padre,  o per non aver condotto il figlio in struttura, vincendo le sue resistenze, e quindi alla fine la responsabilità ultima è delle donne, madri, che hanno eluso i  provvedimenti dei giudici.

Questo quadro molto opaco, da cui si evince un rimpallo di responsabilità (giudice, servizi sociali, forze dell’ordine, madri) relativamente ai prelievi forzosi dei minori, ci porta  a considerare le seguenti posizioni e responsabilità personali dei principali attori.

  • Le FFOO , chiamate a supporto, ma  senza mandato  e senza regole d’ingaggio per esercitare la coercizione sul corpo di un minore, si assumono la responsabilità diretta dell’utilizzo della forza bruta contro bambini inermi e madri; 
  • gli/le operatori/trici appartenenti al sistema socio assistenziale  si rendono inadempienti rispetto loro ruolo di tutela dei minori,  quando assistono ad azioni di violenza su minori senza intervenire a bloccarle;  
  • gli/le operatori/trici socio sanitari, che chiamati dai Servizi sociali o su esplicita richiesta dei tribunali, abdicano alla loro autonomia diagnostica-valutativa del caso, e si piegano ad un intervento che ha come esito immediato un gravissimo trauma per un bambino venendo meno all’imperativo della loro professione, primum non nocere.

Dall’evidenza di queste responsabilità personali si deve intervenire a ragione  con un deferimento di questi operatori ai rispettivi ministeri e per i professionisti anche ai rispettivi ordini professionali.

Infine cosa si potrebbe fare di diverso rispetto ad un  provvedimento del giudice di allontanamento forzoso di un minore per evitare di ricadere nell’art. 388 c.p.?

La risposta sembra semplice, e non si comprende perché questa strada sia  praticata da pochi: 

  • per le FFOO,  non eseguire e sospendere, mediante un rapporto all’AG in cui si rappresentano le condizioni in cui si trova il minore; e comunque non eseguire in assenza di istruzioni scritte di prelievo ‘par mani e braccia  del minore’. A questo punto rientriamo nella responsabilità morale di ciascuno dei protagonisti  che potrebbe, anche in presenza di  ordini scritti, non eseguire ed impugnare l’ordine;
  • per gli operatori dei Servizi sociali, declinare la disponibilità ad eseguire, non riscontrando da un lato la presenza di  condizioni di rischio attuale per  il  minore e, dall’altro, stante le reazioni del minore, facendo una valutazione costi-benefici, in medias res e articolata  intorno alla risposta hic et nunc del minore al provvedimento;
  • per gli operatori sanitari, non accedere in radice a richieste di questo genere che esulano dalla loro missione e dalla loro autonomia professionale che prevede di svolgere un percorso diagnostico  trattamentale autonomo e non dettato dall’agenda di un tribunale; nel caso siano immessi nel procedimento dai loro dirigenti, posizionarsi a tutela del minore per arginare la risposta traumatica, dando indicazioni alle FFOO presenti di sospensione del provvedimento in ragione della salute e della sicurezza del minore. 

In allegato il testo integrale dell'articolo con note


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