Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  04/03/2023

Fondamento e ratio delle cause di giustificazione - Cecilia De Luca

    Le cause di giustificazione sono individuate dal legislatore agli artt. 50 ss. c.p., e costituiscono ipotesi tipiche, nonostante parte della dottrina e della giurisprudenza di merito abbia sostenuto la possibilità di estenderne la portata attraverso il procedimento analogico. In questa sede introduttiva occorre dare atto del carattere eterogeneo delle cause, che ha sollevato in dottrina dubbi riguardo la ratio sottesa alla categoria; in via di approssimazione, l’art. 50 c.p. prevede la scriminante del consenso dell’avente diritto, che esclude la punibilità quando l’offesa del bene giuridico tutelato sia stata autorizzata da chi possa validamente disporne; l’art. 51, invece, esclude la punibilità allorché il fatto tipico sia stato posto in essere nell’esercizio di un diritto ovvero in esecuzione di un dovere imposto da una norma giuridica o di un ordine legittimo della pubblica Autorità; l’art. 52 esclude l’antigiuridicità quando il soggetto attivo abbia agito per legittima difesa, mentre l’art 53 c.p. prende in considerazione l’uso legittimo delle armi da parte di un pubblico ufficiale; infine l’art. 54 c.p. disciplina lo stato di necessità, che ricorre quando il fatto risulti commesso per evitare un danno grave alla propria o altrui persona. Forti sono le differenze che caratterizzano, specie sul piano funzionale, le diverse scriminanti e che hanno diviso la dottrina riguardo l’individuazione della relativa ratio. Sul punto si sono divisi due orientamenti, di cui il primo ha inteso individuare un’unica e comune funzione delle cause di giustificazione ed il secondo ha invece ritenuto che ciascuna scriminante risponda ad una ratio autonoma e distinta. I sostenitori della c.d. teoria monista si sono a propria volta divisi in merito alla funzione da assegnare alla categoria delle scriminanti; in particolare, secondo una prima impostazione, le scriminanti risponderebbero al principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico, in forza del quale non è consentito sanzionare, specie in sede penale, una condotta che l’ordinamento stesso autorizza o impone. Tale ricostruzione si fonda principalmente sul disposto dell’art 51 c.p. che esclude la punibilità quando il soggetto abbia agito nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere giuridico; i sostenitori di tale impostazione osservano inoltre che la presenza di una causa di giustificazione esclude l’illiceità del fatto e la relativa sanzione non soltanto in relazione alla responsabilità penale, ma anche con effetti in ogni altra branca del diritto, ivi compresa dunque la responsabilità amministrativa, civile o disciplinare. Si è tuttavia rivelato che questa spiegazione in merito al fondamento e alla funzione delle cause di giustificazione mal si concilia con alcune ipotesi di scriminanti, come ad esempio il consenso dell’avente diritto, in cui l’offesa non è autorizzata dall’ordinamento ma dal titolare del bene leso; del pari, non è dato ravvisare una ratio di non contraddizione nel disposto dell’art. 52 c.p. o dell’art. 54, che prendono in considerazione il rapporto tra l’offesa realizzata dal soggetto attivo ed il pericolo di un’offesa futura, senza perciò tendere a prevenire un contrasto tra norme giuridiche. Alla luce delle descritte obiezioni è stata pertanto elaborata una seconda ricostruzione del fondamento delle cause di giustificazione e della loro funzione, sostenendo che l’istituto risponda ad un’esigenza di bilanciamento di interessi, che consente di escludere la punibilità allorché l’interesse di cui sia portatore il soggetto attivo risulti prevalente o quantomeno equivalente al bene giuridico leso dalla condotta. Anche questa ricostruzione è stata tuttavia criticata per il suo carattere parziale, che non si adatta a tutte le ipotesi di scriminanti individuate dal legislatore. Proprio il carattere parziale e non esaustivo delle teorie moniste ha indotto parte della dottrina a rinunciare ad una ricostruzione unitaria del fondamento e della ratio delle cause di giustificazione, ricercandoli in maniera puntuale per ciascuna di esse. Si è pertanto sostenuto che la funzione di prevenire contraddizioni all’interno dell’ordinamento giuridico sia propria delle scriminanti disciplinate ex art. 51 c.p. e, in particolare, dell’esercizio di un diritto e dell’adempimento di un dovere giuridico, nonché dell’uso legittimo delle armi, di cui all’art. 53 c.p., stante l’inerenza della condotta offensiva all’esercizio di una pubblica funzione, disciplinata legislativamente. Nel contempo si è fatto ricorso alla teoria di bilanciamento di interessi con esclusivo riferimento alla legittima difesa ed allo stato di necessità, in presenza dei quali il giudice penale è chiamata a valutare se sussista un’effettiva proporzione tra l’offesa arrecata e l’offesa pervenuta, bilanciando gli interessi in gioco. Parte della dottrina estende tale soluzione anche alla scriminante del consenso dell’avente diritto, precisando che in tal caso il consenso farebbe venir meno l’interesse della persona offesa, con conseguente prevalenza, nel bilanciamento, dell’interesse del soggetto attivo. A tale impostazione si contrappone tuttavia la teoria della carenza di interesse, che individua così una terza ed autonoma ratio della causa di giustificazione ex art. 50 c.p.: il venire meno dell’interesse renderebbe superfluo operare il bilanciamento. Il Mantovani sostiene infatti che le cause di giustificazione o scriminanti sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale non è perché la legge lo impone o consente. Esse sono “variabili storiche”, attraverso cui la dinamica dei mutamenti sociali penetra nel diritto penale e sposta, a seconda dei vari ordinamenti, i confini dell’illecito. Problematico è il fondamento e la collocazione dogmatica di queste. Anche il Mantovani sottolinea la distinzione tra il fondamento politico-sostanziale della illiceità del fatto, che si rinviene, secondo il dominante criterio pluralistico, nell’interesse mancante o nell’interesse prevalente o equivalente. Il fatto scriminato è lecito sotto il profilo penale ed extrapenale, cioè per l’intero ordinamento giuridico, stante l’unitarietà dello stesso;  perciò non giuridicamente sanzionabile e non impedibile, ad esempio mediante la legittima difesa, con eccezione per lo stato di necessità. Tuttavia profondamente diverse sono le ragioni della liceità, che illuminano la essenza delle varie scriminanti e giustificano i differenti limiti cui sottostanno. Il fondamento logico-giuridico è dato invece, dal “principio di non contraddizione”, per cui uno stesso ordinamento non può, nella sua unitarietà, imporre o consentire e, ad uno stesso tempo, vietare il medesimo fatto senza rinnegare se stesso e la sua pratica possibilità di attuazione. Onde le norme scriminanti posso essere situate in qualsiasi ramo del diritto. Il fondamento tecnico-dommatico, come lo definisce il Mantovani, consiste nell’assenza di tipicità del fatto scriminato. Le scriminanti, infatti costituiscono, sotto il profilo formale- descrittivo, elementi oggettivi negativi della fattispecie criminosa, che debbono cioè mancare perché esista il reato. Sotto il profilo sostanziale le scriminanti escludono l’offesa, costituendo dei limiti alla tutela del bene: in presenza di queste manca l’offesa per la semplice ragione che il bene non è più tutelato dalla norma. Vi sarà un’offesa in senso naturalistico, come ad esempio la perdita della vita nell’uccisione per legittima difesa; ma non un’offesa in senso giuridico, perché appunto giustificata. 


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