-  Rossi Stefano  -  22/04/2014

DISCRIMINAZIONE RAZZIALE E VIOLENZA SESSUALE - Cass. pen., 17.4.2014, n. 17004 - Stefano ROSSI

In premessa si deve accogliere, rispetto al significato del termine "discriminare", la tradizionale definizione riscontrabile in diverse voci enciclopediche e diffusa nel senso comune, per la quale discriminare non significa solo distinguere, ma piuttosto distinguere altri da noi, riservandogli un trattamento peggiorativo. Assumiamo come valida, ai nostri fini, l"accezione che del termine viene accolta nel linguaggio giuridico e, in particolare, nell"ambito del diritto costituzionale, secondo la quale "la discriminazione viene identificata con una differenza di trattamento normativo che presenta caratteri di arbitrarietà e irragionevolezza".

Occorre subito distinguere, nel campo specifico del diritto penale, fra forme di manifesta e volontaria discriminazione razziale nei confronti degli soggetti autori di reato appartenenti alle minoranze etniche, forme di discriminazione nei confronti delle vittime appartenenti alle minoranze etniche, forme di discriminazione in base alla classe sociale e correlate discriminazioni di tipo economico.

In generale, le parole di odio si possono servire di molteplici possibilità linguistiche: le etichette denigratorie, le etichette categoriali, gli scherzi di odio (particolarmente rivelatori della sottovalutazione del pregiudizio così rinsaldato), il ricorso agli insulti, fino ad integrare fattispecie punite come reato (ingiuria, diffamazione, istigazione).

Queste variabili linguistiche e argomentative presentano due tratti comuni: provengono dal gruppo dominante (o maggioranza) e sono impiegate con intenti offensivi, al punto che il transito dai discorsi di odio (hate speeches) ai reati di odio (hate crimes) è postulato come esito inevitabile.

Quello oggetto della sentenza della Cassazione qui commentata è il tipico caso dell'espressione di parole d"odio, aggravato dalle circostanze (la violenza sessuale) nel corso delle quali tali asserzioni sono state pronunciate.

Nel caso in esame non si è trattato, infatti, solo di epiteti basati sul colore della pelle (la donna venne apostrofata dai ricorrenti come "negra"), ma di offese che riguardavano l'appartenenza della donna ad una razza, espressioni dunque la cui connotazione e finalità discriminatoria era evidente, attributive nella specie alla donna somala di abitudini sessualmente perverse (la donna, infatti, venne fatta destinataria di frasi del tipo: "tutte le negre fanno bocchini", frase attribuita all"imputato); mentre, quanto all"altro imputato, unitamente agli altri appartenenti al gruppo, le sputava addosso nel momento in cui tutti accompagnavano il gesto con parole offensive, dicendole che era una "sporca negra" e che "tutti gli africani sono sporchi".

Non v"è dubbio che, nel ritenere configurabile l"aggravante dell"odio razziale, si sia fatto buon governo della giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione (l"unica decisione difforme, rimasta isolata nella giurisprudenza di legittimità, è, infatti, quella richiamata dalla difesa nel ricorso, espressione di un orientamento ormai abbandonato: Sez. 5, n. 44295 del 17/11/2005 - dep. 05/12/2005, Paoletich, Rv. 232539), che, sul punto, ha ritenuto gli estremi dell"aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3 D.L. n. 122 del 1993, conv. in legge n. 205 del 1993), nell"uso dell"espressione "sporco negro", in quanto idonea a coinvolgere un giudizio di disvalore sulla razza della persona offesa (Sez. 5, n. 22570 del 28/01/2010 - dep. 11/06/2010, P.G. in proc. Scocozza, Rv. 247495; Sez. 5, n. 38217 del 12/06/2008 - dep. 07/10/2008, Matta, Rv. 241640; Sez. 5, n. 37609 del 11/07/2006 - dep. 15/11/2006, P.M. in proc. Ragozzini, Rv. 235199).




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