-  Mazzon Riccardo  -  12/05/2014

DANNO, RISARCIMENTO, RESPONSABILITA' E ATTIVITA' PERICOLOSE: VENDITA DI TABACCHI - Riccardo MAZZON

Solo recentemente può ritenersi affermata la tesi secondo cui attività quali la produzione e la vendita di tabacco devono qualificarsi quali attività pericolose, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2050 del codice civile; gran merito, in argomento, è da attribuirsi alla Corte d'Appello romana, quando afferma che la produzione e la vendita di tabacco deve qualificarsi quale attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., per la ragione che i tabacchi, avendo quale unica destinazione il consumo mediante fumo, contengono in sè, per la loro stessa natura e per la loro composizione bio-chimica, una potenziate carica di nocività - cfr. amplius il volume "Responsabilita' oggettiva e semioggettiva", Riccardo Mazzon, Utet, Torino 2012 -; potendo, dunque, derivare dal fumo un danno alla salute ossia un bene primario dell'uomo, tutelato dalla Carta Costituzionale (art. 32) come diritto fondamentale del cittadino, l'E.T.I. era obbligato ad usare ogni cautela (prima fra tutte quella di informare i consumatori) per evitare che il rischio si tramutasse in danno concreto, pur in assenza di una specifica disciplina di legge che gli prescrivesse specifici adempimenti, con ciò esigendosi una prova liberatoria, onde non rispondere, sul piano risarcitorio, della morte per tumore di un fumatore "attivo"; in altri termini, sull'E.T.I., quale esercente una attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., grava una presunzione di responsabilità, vincibile esclusivamente tramite la prova rigorosa dell'adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno, senza che basti la prova negativa di non avere violato alcuna norma di legge o di comune prudenza:

"di fronte al mancato superamento di tale presunzione, la condotta del consumatore diviene irrilevante; esiste infatti un rapporto causale tra cancro polmonare e fumo di sigaretta, nel senso che l'evento malattia può inquadrarsi tra le conseguenze normali ed ordinarie del fumo, ponendosi, quindi, nell'ambito delle normali linee di sviluppo della serie causale, secondo un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, pur in difetto di certezza assoluta, al di là di ogni ragionevole dubbio" (App. Roma, sez. I, 7 marzo 2005, n. 1015, GC, 2006, 6, 1297; ND, 2005, 699; DResp, 2005, 641; RCP, 2005, 476; FI, 2005, I, 1218).

La contraria tesi, infatti, secondo la quale all'attività di produzione e commercializzazione di sigarette non può applicarsi il regime di responsabilità previsto per l'esercizio di attività pericolose,

"all'attività di produzione e commercializzazione di sigarette non può applicarsi il regime di responsabilità previsto per l'esercizio di attività pericolose; va comunque escluso il nesso causale tra la distribuzione di sigarette e il carcinoma polmonare contratto da un fumatore abituale, ove quest'ultimo abbia consumato le sigarette nella piena consapevolezza della potenzialità dannosa del fumo e del fatto che la sua assunzione in maniera ripetuta e costante avrebbe potuto provocare una sorta di dipendenza (nella specie, peraltro, si è escluso che il fumatore avesse raggiunto una dipendenza da sigarette irreversibile)" (Trib. Roma 5 dicembre 2007, n. 23877, FI, 2008, 3, 985; RCP, 2008, 9, 1863)

fondata su considerazioni quali la notorietà, per l'individuo comune, del fatto che il fumo nuoccia alla salute,

"il fatto che il fumo nuoccia alla salute deve ritenersi rientrante, e da molto tempo, nel patrimonio di conoscenze dell'individuo comune; ne consegue che i prossimi congiunti di persona deceduta in conseguenza dell'uso smodato di sigarette non possono pretendere il risarcimento del danno dal produttore, perché il danno è stato causato dalla vittima a se stesso, ex art. 1227 c.c. Inoltre al produttore di sigarette non è applicabile la presunzione di responsabilità di cui all'art. 2050 c.c., in quanto la produzione e vendita di sigarette non può considerarsi attività pericolosa in quanto la potenzialità offensiva non deriva dalla qualità dei mezzi impiegati nè dalla natura intrinsecamente pericolosa del prodotto la cui lesività può ritenersi riconducibile esclusivamente dall'uso smodato da parte del consumatore" (Trib. Roma, sez. XII, 4 aprile 2005, CorM, 2005, 793; DeG, 2005; ND, 2005, 699)

nonché su annotazioni quali la liceità della produzione e vendita di sigarette e l'abitudinarietà del fumo - nonostante smettere di fumare sia difficile, s'afferma, milioni di persone vi riescono e non è corretto affermare che i fumatori perdono il controllo delle loro capacità decisionali; di qui se ne consegue che l'attività di produzione e vendita di sigarette non può ritenersi attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c. in quanto, poiché le singole sigarette non possiedono un'intrinseca potenzialità lesiva, la pericolosità del prodotto può derivare unicamente dall'uso smodato, consapevole e volontario, dei prodotti di tale attività; nè vengono adoperati mezzi pericolosi in quanto i macchinari impiegati per il confezionamento e lo smercio non presentano alcuna particolarità o potenzialità dannosa:

"neppure può il produttore di sigarette ritenersi responsabile per i danni da fumo ex art. 2043 c.c. posto che la produzione e vendita di sigarette è attività lecita, regolarmente autorizzata dallo Stato e che il fumo è un'abitudine, non una forma di dipendenza: nonostante smettere di fumare sia difficile, milioni di persone vi riescono e non è corretto affermare che i fumatori perdono il controllo delle loro capacità decisionali. Inoltre, con sicurezza sin dagli anni '30, i rischi che il fumo comporta erano largamente noti all'intera società italiana, sicché i fumatori, ben sapendo della nocività del fumo, e iniziando a fumare - e continuando - hanno accettato il rischio delle conseguenze di tate condotta: il danno che ne è derivato non è quindi risarcibile, ex art. 1227 c.c., non potendosi dolere dei danni subiti colui che tiene una condotta negligente non adottando cautele minime ed ampiamente conosciute di prudenza" (Trib. Brescia 10 agosto 2005, DResp, 2005, 1210) -,

può dirsi scardinata solo con la sentenza della Suprema Corte n. 26516 del 17 dicembre 2009, che massimizza l'affermazione del principio secondo cui la produzione e la vendita di tabacchi lavorati contengono in sé una potenziale carica di nocività per la salute umana:

"la produzione e la vendita di tabacchi lavorati costituiscono attività pericolose ai sensi dell'art. 2050 c.c., poiché i tabacchi, avendo come unica destinazione il consumo mediante il fumo, contengono in sé una potenziale carica di nocività per la salute umana; ne consegue che, ove il danneggiato abbia proposto una domanda risarcitoria - ai sensi dell'art. 2043 c.c. - nei confronti del produttore-venditore di tabacco, viola l'art. 112 c.p.c. ed incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che sostituisca a tale domanda quella, nuova e diversa, di cui all'art. 2050 c.c., la quale integra un'ipotesi di responsabilità oggettiva. (Nella specie, l'originaria domanda risarcitoria era fondata sul carattere ingannevole delle diciture Light e Extra Light apposte sulla confezione di una marca di sigarette)" (Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 2009, n. 26516, GCM, 2009, 12, 1704; FI, 2010, 3, 869).

 




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