Varie  -  Redazione P&D  -  18/12/2016

UN PUSHER DI NOME CUPIDO – Sara COSTANZO



Quando ero "giovane" spopolava nel mio gruppo di amiche un libro con un titolo decisamente ad effetto: "Donne che amano troppo" di Robin Norwood.
Qualcuna lo aveva letto, trovato a dir poco indispensabile, imprestato con fare entusiasta all"amica più cara. E cosi di seguito. Ogni volta più liso, sottolineato, annotato con brevi e calzanti spaccati di vita vissuta. Un libro sulla dipendenza affettiva. Infarcito di storie vere di ogni tipo, di frasi ad alto impatto terapeutico, di vademecum fitti fitti di consigli.

Siete state fin da piccole abituate a mettere da parte i ostri bisogni, a far finta di non averne?
Sentite di essere state abbandonate o comunque non "abbastanza amate"?
Siete emotivamente attratte da persone violente, dipendenti, "emotivamente" poco disponibili?
Nel fondo del vostro cuore sentite di non valere abbastanza, di dovere "meritare" l"affetto di chi vi sta accanto o – peggio- di non averne diritto alcuno?
Avete la tendenza a negare aspetti rilevanti della realtà a favore di sogni irrealizzabili?
Il vostro "compassionevole" desiderio di aiutare è solo un modo per nascondere la paura che avete di perdere il controllo?
Fareste qualsiasi cosa e vi assumereste qualunque fardello pur di evitare che la persona che amate vi lasci "irrimediabilmente" sole?

Per la prima volta, mesi e mesi di oneste sofferenze amorose trovavano cittadinanza in una sindrome di tutto rispetto; consigli un tempo improvvisati si trasformavano in tecniche di fine psicologia e donne sconosciute ci raccontavano le nostre storie e i nostri pensieri.
Un pusher di nome Cupido insomma. Non più cosi cieco, cosi illogico, cosi irrimediabilmente trasportato dal destino. A spiegarci la assurda "capacità" che avevamo nello di sceglierci sempre l"uomo sbagliato, di sostare nel dolore cosi a lungo da dimenticare come brillano i colori della serenità.

Da allora di libri sulla love addiction ne sono stai scritti (e letti) parecchi. Anche dagli addetti ai lavori, da chi tra sostanze e comportamenti autodistruttivi è abituato a vivere. Perché delle dipendenze patologiche, le "donne che amano troppo " soffrono molti dei travagli: la mancanza di "autonomia" , l"incapacità a vivere relazioni realmente intime, l"illusione di superare, attraverso il comportamento distorto, l"incolmabile senso di vuoto che ci si porta dentro, compulsione, dissociazione. E molti altri ancora. 

Donne che nel fondo del loro cuore sentono che non sono mai state realmente amate, accudite, contenute, viste. Quando erano bambine, quando era il momento di dipendere sul serio, di affidarsi. Che continuano a cercare in un uomo quel qualcosa di assolutamente totalizzante, quell" accudimento senza limite cui danno il nome di amore: che impedisca loro di andare in pezzi, che dia loro un"identità, il senso stesso di esistere. Terrorizzate dall"abbandono, spaventate a morte dalla vicinanza vera. Imprigionate in giochi dolorosi e senza fine. 

Donne che non conoscono, nella pelle, nel cuore, nelle ossa, cosa si prova a "stare bene"; che continuano a ricercare, a non rifiutare, l"unico modello di vita che conoscono. E che forse, nel fondo del loro essere, "sperano" contro ogni logica di poter finalmente cambiare.

E come per tutte le dipendenze il cammino procede lungo una linea che va dalle astrazioni del "perfettamente nomale" a quella del "totalmente patologico": dalla storia di Pilar, alle infinite piccole "patologie" della vita di ogni giorno.
Perché vero è che le donne, in quello strano e assurdo gioco di anteporre le ragioni di un uomo alle proprie, ci cascano spesso. In quel mondo dove i sensi si ottenebrano, il raziocinio pare vacillare e i consigli delle amiche perdersi tra le braccia del "grande amore che non mi ricapita più". Dove i limiti del consentito si allargano senza un"apparente spiegazione, le negazioni diventano parte del vivere ordinario e l"infelicità si traveste di vita quotidiana. 

Dove  continui a credere che il suo lavoro sia più importante del tuo, le sue esigenze più fondate; che non c"è alternativa all'infelicità, che prima o poi capirà che tu sei la sola donna della sua vita. Dove la sua rabbia ti fa sentire in colpa, le sue reiterate promesse paiono assolutamente fondate, le scuse più assurde ti sembrano credibili. 

Ancora ricordo la "vicenda" di una mia cara amica.
Perché non mi hai detto che sei sposato? Chiese più incredula che arrabbiata all" "uomo più meraviglioso che le fosse mai capitato di conoscere".
Beh, sai…è che non volevo rovinare quello che c"era tra noi…rispose lui con il tono arrendevole e suadente di un bambino che marina la scuola per andare a vedere il mare. E il fatto che si frequentassero quasi ogni giorno da circa un anno sembrò, di fronte a tanto desiderio di salvaguardare ciò che c"era tra loro, niente altro che un dettaglio irrilevante...




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