-  Gasparre Annalisa  -  07/12/2015

SEQUESTRA LA FIGLIA PERCHE' NON NE CONDIVIDE LE SCELTE SENTIMENTALI - Cass. pen. 39197/15 - Annalisa GASPARRE

Padre egiziano non condivide le scelte sentimentali della figlia che vuole sposare un uomo da lei scelto.

Per convincerla a cambiare idea varie erano le pressioni psicologiche, insulti, vessazioni fino a rinchiuderla in un capannone, neppure idoneo ad abitazione; tale fatto ha integrato il reato di sequestro di persona. Alla vittima era stato sottratto anche permesso di soggiorno e passaporto.

I fatti venivano ricostruiti grazie a un Carabiniere che spiegava di aver verificato personalmente che la porta, una volta chiusa, non poteva essere aperta dall'interno, così essendo impedito alla ragazza di uscire. Inoltre, dichiarava che «la ragazza piangeva, urlava, chiedendo di uscire».

L'imputato aveva provato a sostenere che la ragazza si trovava nel capannone per sua scelta, per non vivere con la madre. Tuttavia, i giudici valorizzano che anche a voler dare credito a tale tesi, ciò non sarebbe sufficiente ad escludere la configurabilità del delitto di sequestro di persona: il consenso, infatti, non risulta «liberamente presto o mantenuto», giacché frutto di un «contesto vessatorio».

 

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 8 maggio – 28 settembre 2015, n. 39197​ - Presidente Bruno – Relatore Guardiano

In fatto e in diritto

1. Con sentenza pronunciata il 19.9.2014 la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il tribunale di Milano, in data 18.6.2009, aveva condannato M.S.E.A. alla pena ritenuta di giustizia in ordine al reato di cui all'art. 605, co. 1 e co. 2, n. 1, c.p., commesso in danno della figlia S..

2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore di fiducia, avv. A.R., del Foro di Milano, lamentando il vizio della manifesta illogicità della motivazione.

Il tema su cui verte il ricorso attiene alla corretta ricostruzione dei fatti in relazione alla ritenuta configurabilità dei delitto di sequestro di persona, che, secondo l'impostazione accusatoria, l'imputato ha commesso rinchiudendo la figlia all'interno di un capannone, non condividendo le sue scelte sentimentali, ritenute non conformi ai voleri familiari.

Ad avviso del ricorrente non è configurabile delitto di sequestro di persona perché, da un lato la scelta di vivere all'interno del capannone è da attribuire alla volontà della stessa persona offesa, dall'altro era possibile dall'interno aprire la porta ed uscire dal capannone, la cui porta il padre della persona offesa provvedeva a chiudere dall'esterno solo perché dall'interno non si poteva chiudere, essendo rotta la serratura. La stessa volontà del padre di non segregare la figlia si desume dalla circostanza che quest'ultimo era solito gettarle le chiavi all'interno. La corte fonda la sua decisione sulle dichiarazioni dell'agente operante B., il quale, intervenuto sul posto, ha riferito che la persona offesa piangeva ed urlava non potendo uscire, perché, come verificato dallo stesso teste, la porta, una volta chiusa dall'esterno, non poteva essere aperta dall'interno, tanto che, per potere consentire alla ragazza di uscire, fu necessario attendere l'arrivo del padre.

La corte territoriale, tuttavia, non ha considerato che il marito, della persona offesa ha riferito, la sera stessa dell'intervento dei Carabinieri, che la decisione di vivere nel capannone era stata presa dalla moglie d'accordo con il padre e che quest'ultimo chiudeva la porta dall'esterno perché da dentro non si poteva chiudere, precisando che l'imputato era solito gettare la chiave della serratura all'interno dei capannone quando andava via e che l'intervento dei Carabinieri era stato richiesto non per denunciare un sequestro di persona, ma per risolvere il contrasto con l'imputato restio ad accettare il matrimonio tra i due giovani, dopo un iniziale consenso.

La stessa persona offesa del resto, evidenzia il ricorrente, nel corso delle sommarie informazioni rese alla polizia giudiziaria, e della deposizione dibattimentale, ha affermato di avere scelto di vivere nel capannone, d'accordo con il padre, per allontanarsi dalla madre e che dall'immobile era possibile uscire aprendo la porta con un movimento della barra di chiusura trasversale interna, come dimostrato anche dalle fotografie prodotte in dibattimento dalla difesa.

3. II ricorso non può essere accolto, essendo inammissibili, sotto diversi profili, i motivi sui cui si fonda.

4. Ed invero va innanzitutto rilevato che le censure prospettate dal ricorrente si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, in quanto tali, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. V, 22.1.2013, n. 23005, rv. 255502; Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, rv. 235507; Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, rv. 235510; Cass., sez. III, 27.9.2006, n. 37006, rv. 235508).

Non può non rilevarsi, infatti, come il controllo dei giudice di legittimità, anche dopo la novella dell'art. 606, c.p.p., ad opera della I. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256, rv. 234148).

Esulando, pertanto, dal controllo demandato alla Suprema Corte la rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione, non costituisce vizio comportante controllo di legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per il ricorrente, più favorevole) valutazione delle emergenze processuali, come quella prospettata dal ricorrente (cfr. Cass., sez. V, 21.4.1999, n. 7569, rv. 213638).

5. L'inammissibilità dei ricorso si apprezza anche per la manifesta inammissibilità dei motivi che lo sostengono.

Non appare revocabile, in dubbio, infatti, che, con riferimento all'episodio verificatosi l'8 luglio dei 2008, l'unico per il quale la corte territoriale ha affermato la responsabilità dell'imputato, rispetto ad una pluralità di condotte illecite ipotizzate nel capo A) dell'imputazione, la persona offesa fosse prigioniera nel capannone innanzi indicato, senza possibilità di uscirne, contro la sua volontà.

In questo senso il contenuto della testimonianza dell'agente operante B., la cui attendibilità non è messa in discussione dal ricorrente, non si presta ad equivoci, come correttamente rilevato dalla corte territoriale.

Il teste, infatti, da un lato ha chiarito di avere personalmente verificato che la porta, una volta chiusa, non poteva essere aperta dall'interno, il che impediva alla persona offesa ogni possibilità di uscita, anche perché, come rilevato dal giudice di appello, dalle fotografie acquisite agli atti si evince che le finestre del capannone erano dotate di sbarre, sicché si era dovuto attendere l'arrivo del padre (dotato delle chiavi), giunto sul posto dopo tre quarti d'ora, per restituirla alla libertà; dall'altro che la ragazza "piangeva, urlava", chiedendo di uscire, come rilevato anche nella sentenza pronunciata dal giudice di primo grado, la cui motivazione sul punto è stata specificamente riportata nella sentenza oggetto di ricorso, di cui costituisce parte integrante (cfr. pp. 2-5; 6-7 della sentenza di secondo grado).

Tale ultima circostanza, che rende palese la volontà della persona offesa di recuperare la propria libertà di movimento, in uno con il particolare riferito dal B. sulla inidoneità dei capannone ad essere adibito ad abitazione (cfr. p. 6 della sentenza oggetto di ricorso), contraddice la tesi difensiva sul consenso prestato dalla persona offesa ad essere rinchiusa nel capannone, da cui poteva uscire solo per volontà del genitore.

D'altro canto va rilevato che, ove anche si volesse dare credito alla versione difensiva dei consenso della persona offesa ad essere rinchiusa in un luogo inidoneo ad essere destinato ad​ abitazione, ciò non sarebbe sufficiente ad escludere la configurabilità del delitto di sequestro di persona.

Come affermato da un risalente, ma ancora condivisibile arresto del Supremo Collegio, infatti, in tema di sequestro di persona deve ritenersi rinunciabile, in nome di convinzioni religiose, una certa sfera della propria libertà personale, nonostante sia un bene costituzionalmente protetto, ma solo quando, tra l'altro, il consenso non sia viziato da violenza o minaccia (cfr. Cass., sez. V, 9.5.1986, n. 10841, rv. 173954).

Orbene nel caso in esame il preteso consenso non risulta liberamente prestato o mantenuto, in quanto si inserisce in un contesto vessatorio, descritto dalla persona offesa anche nella deposizione più "sfumata" resa in dibattimento rispetto a quanto rivelato nella denuncia da lei sporta lo stesso 8 luglio del 2008 e nelle sommarie informazioni rilasciate il 14 luglio del 2008, caratterizzato, come evidenzia la corte territoriale, da reiterati comportamenti dell'imputato volti ad esercitare una indebita pressione psicologica nei confronti della figlia, insultandola; sottraendole il permesso di soggiorno ed il passaporto​ ​(senza i quali, come le rappresentò, anche se fosse scappata di casa per andare a vivere con il marito), avrebbe avuto seri problemi con le autorità italiane; denunciando il genero, nella convinzione che la figlia fosse andata a vivere con lui (cfr. pp. 2-3). Appare, pertanto, evidente come la condotta dell'imputato integri gli elementi costitutivi del delitto di sequestro di persona.

Al riguardo appare sufficiente rammentare che, secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, ai fini della privazione della libertà rilevante per la configurabilità dei reato di sequestro di persona non si richiede una privazione assoluta, essendo sufficiente anche una relativa impossibilità di recuperare la propria libertà di scelta e di movimento, né alcun rilievo assumono, da una parte, la maggior o minore durata della limitazione, purché questa si protragga per un tempo giuridicamente apprezzabile, e, dall'altra parte, la circostanza che il sequestrato non faccia alcun tentativo per riacquistare la propria libertà di movimento, non recuperabile con immediatezza, agevolmente e senza rischi. Il reato, infatti, è configurabile anche quando il soggetto passivo riesca a riappropriarsi della propria libertà, dopo una privazione giuridicamente apprezzabile che segna il momento consumativo del sequestro: con la precisazione che a tal fine non occorre pervenire a una quantificazione minima temporale, giacché può bastare una privazione della libertà limitata a un tempo anche breve, anche limitato ad alcuni minuti (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 18/04/2014, n. 35076).

6. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va, dunque, dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000). Va, infine, disposta l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell'art. 52, co. 5, d. Igs. 30/06/2003 n. 196.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52, d. Igs. 196/2003, in quanto imposto dalla legge.




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