-  Simona Arcangeli  -  08/03/2016

INFORTUNI SUL LAVORO: INTERPRETAZIONE ESTENSIVA DELL'ART. 2087 c.c. - Cass. n. 3306/16 - Simona ARCANGELI

Qualora il tipo di attività lavorativa esercitata renda prevedibile il verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro (in ragione, ad esempio, della movimentazione di somme di denaro)  il datore di lavoro è tenuto a tutelare l"integrità psicofisica dei dipendenti adottando misure di sicurezza idonee a prevenire e contrastare l"attività criminosa posta in essere da terzi.

L"obbligo di tutela dell"integrità psicofisica del lavoratore previsto dall"art. 2087 c.c. secondo la Corte di Cassazione deve essere interpretato in senso ampio: il datore di lavoro, infatti, è tenuto a tutelare il dipendente non solo dai rischi insiti nello svolgimento dell"attività lavorativa (attraverso il rispetto delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali) ma anche dalle eventuali aggressioni derivanti dall"attività criminosa posta in essere da terzi, benché tali pericoli non siano strettamente collegati allo svolgimento della prestazione lavorativa e, quindi, non siano coperti dalla tutela antinfortunistica prevista dal D.P.R. n. 1124/1965.

L'interpretazione estensiva della predetta norma, osserva la Corte, è giustificata sia dal rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.) che dal rispetto dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) ai quali deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro (in tal senso anche Cass. 22 marzo 2002, n. 4129).

Alla luce di tali argomentazioni la Suprema Corte ha accolto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata da un dipendente che, in conseguenza delle ripetute rapine avvenute presso l"ufficio ove svolgeva le sue mansioni (comportanti movimentazione di somme di denaro), aveva subito un infarto miocardico acuto, ritenendo che, in relazione alla concreta situazione di pericolo dell'incolumità del personale verificatasi nella reiterazione delle rapine a mano armata e considerata la mancata adozione di misure di sicurezza da parte del datore di lavoro, fosse configurabile la responsabilità datoriale a norma all"art. 2087 c.c..

 

Cassazione civile n. 3306/16

Svolgimento del processo

La Corte d'appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva respinto la domanda di X, dipendente di OMISS fino al 31 marzo 2003, di risarcimento del danno biologico e morale, in rispettive misure di Euro 100.000,00 e di Euro 35.000,00, a seguito di infarto miocardico acuto nel marzo 1997 per enorme carico di lavoro e ripetute rapine, ben quattro tra ottobre 1996 e settembre 1997, nell'ufficio postale di (OMISSIS) nei pressi di (OMISSIS), sprovvisto di adeguate protezioni e di cui direttore), con sentenza 6 maggio 2010, condannava la società datrice al pagamento, in favore del lavoratore e a titolo di danno morale, della somma di Euro 10.000,00 già rivalutati, oltre interessi legali dal 30 settembre 1997 e rifusione delle spese dei due gradi, in misura della metà (con la compensazione della residua tra le parti, a cui carico solidale poste quelle di C.t.u., in ragione della metà ciascuna), con rigetto nel resto dell'appello del lavoratore.

A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, contrariamente al Tribunale ed in esito a critico esame, la preclusione della domanda risarcitoria per effetto della lettera riservata 6 marzo 2003 e del verbale di accordo dinanzi alla Commissione Provinciale 28 marzo 2003 (in quanto chiaramente relativi alla definitiva liquidazione del rapporto sotto il profilo retributivo, senza alcun cenno alla pretesa risarcitoria ai sensi dell'art. 2087 c.c. successivamente introdotta); nel merito, negava tuttavia il nesso causale tra le rapine subite ed il carico di lavoro sostenuto e il danno psico-fisico allegato (infarto miocardico ed episodio ipertensivo occorsi), sulla base delle risultanze della C.t.u. medico-legale diffusamente richiamata. Riteneva invece provata (e liquidabile nella misura suindicata) la lesione subita per la prolungata soggezione a minaccia a mano armata, in assenza delle misure protettive a carico datoriale ai sensi dell'art. 2087 c.c..

Con atto notificato il 7 - 12 maggio 2011, OMISSIS ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste il lavoratore con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2113, 1362 e 1175 c.c., art. 110 c.p.c. e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per erronea esclusione della rinuncia contenuta nel verbale di accordo del 28 marzo 2003, comprensivo di ogni diritto anche indirettamente collegabile al rapporto di lavoro, nella già avvenuta maturazione del diritto risarcitorio fatto poi valere e nella debita assistenza sindacale del lavoratore, pertanto consapevole dell'efficacia dell'accordo anche in riferimento ad esso, così rinunciato.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2059 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per erronea assunzione dell'inidoneità delle misure di sicurezza adottate, conformi alle prescrizioni standard ed alla tipologia del piccolo ufficio di provincia, non soggetto ad esposizione rischiosa per ubicazione e volume di attività, in contrasto con i principi in materia affermati dalla giurisprudenza di legittimità, diffusamente richiamata.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c. e art. 185 c.p. e vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per erroneo riconoscimento del danno morale del lavoratore, in difetto di sua allegazione specifica, di prova della sua esistenza e del nesso causale dall'inadempimento datoriale, pure esclusa la sua autonomia categoriale dalla generale voce di danno non patrimoniale, alla luce di arresto giurisprudenziale di legittimità (Cass. s.u. 26972/2008).

Il primo motivo di ricorso, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2113, 1362 e 1175 c.c., art. 110 c.p.c. e vizio di motivazione, per erronea esclusione della rinuncia contenuta nel verbale di accordo del 28 marzo 2003 anche alla pretesa risarcitoria in questione, è infondato.

Ed infatti, l'interpretazione dell'atto negoziale è riservata in via esclusiva al giudice di merito (Cass. 11 marzo 2015, n. 4886; Cass. 3 agosto 2007, n. 17067; Cass. 19 maggio 2006, n. 11756), con operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto (Cass. 15 aprile 2013, n. 9070) insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di una verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e del controllo di sussistenza di una motivazione logica e coerente (Cass. 27 febbraio 2009, n. 4851; Cass. 9 febbraio 2009, n. 3187; Cass. n. 10 giugno 2008, 15339; Cass. 19 maggio 2006, n. 11756; Cass. 3 maggio 2003, n. 6724; Cass. 18 novembre 2003, n. 17427).

Nel caso di specie la Corte d'appello, con esauriente, congrua e logica motivazione (per le ragioni esposte a pgg. 3 e 4 della sentenza), ha esattamente applicato il principio di diritto, secondo cui l'azione del lavoratore diretta al riconoscimento di diritti connessi al pregresso rapporto di lavoro non può essere preclusa da formule di rinuncia generiche ed onnicomprensive, in contrasto con i principi enunciati in materia di rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro, laddove non risulti accertato - con indagine di fatto di competenza del giudice del merito - che vi sia stata la consapevolezza da parte del lavoratore della possibile esistenza di determinati diritti e la effettiva volontà di rinunciarvi (Cass. 2 ottobre 2013, n. 22540).

Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2059 c.c. e vizio di motivazione, per erronea assunzione dell'inidoneità delle misure di sicurezza adottate dalla società datrice, è pure infondato.

Anche qui la Corte territoriale ha correttamente applicato i principi regolanti la materia, secondo cui il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 c.c., il superamento della quale comporta la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge (Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003): con estensione dell'obbligo dell'imprenditore di tutela dell'integrità fisiopsichica dei dipendenti all'adozione e al mantenimento, non solo di misure di tipo igienico - sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività anche non collegate direttamente allo stesso come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica prevista dal D.P.R. n. 1124 del 1965 e giustificandosi l'interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129). E ciò è stato in particolare ritenuto proprio in riferimento ad una rapina ad un ufficio postale, rendendo l'art. 2087 c.c. necessario l'apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell'integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell'attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonchè delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale (da ultimo: Cass. 20 novembre 2015, n. 23793; Cass. 13 aprile 2015, n. 7405).

E nel caso di specie, la Corte fiorentina ha tenuto debito conto della mancata adozione di misure protettive idonee, in relazione alla concreta situazione di pericolo dell'incolumità del personale verificatasi nella reiterazione delle rapine a mano armata, senza alcuna reazione di precauzione da parte della società datrice, rimasta assolutamente inerte: come accertato dalla Corte territoriale con argomentazione motiva corretta e logicamente congrua (per le ragioni esposte a pgg. da 4 a 6 della sentenza).

Senza, infine, dimenticare che si tratta comunque di un accertamento in fatto, di esclusiva competenza del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità (arg. ex Cass. 7 marzo 2006, n. 4840).

Anche il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c. e art. 185 c.p. e vizio di motivazione, per erroneo riconoscimento del danno morale del lavoratore, è infondato.

Il dipendente postale ha, infatti, chiaramente allegato il danno morale denunciato (così come risulta dall'esposizione del fatto, a pgg. 1 e 2 della sentenza), comprovato dalla sofferenza emotiva, indubbiamente intensa, conseguita a P.G. dalle due rapine subite sul posto di lavoro (come si legge al penultimo e terz'ultimo capoverso di pg. 12 della sentenza).

Tale danno trova positivo riscontro anche nell'episodio ipertensivo insorto il giorno successivo alla seconda rapina e per cui il lavoratore fu ricoverato cinque giorni in ospedale (così a pg. 7 della sentenza) ed è stato correttamente liquidato in via equitativa, in relazione "alle modalità della vicenda" (Cass. 26 giugno 2013, n. 16041): come appunto accertato dalla Corte territoriale (all'ultimo capoverso di pg. 12 della sentenza).

E ciò nella permanente vigenza del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 c.c. (sia pure nei limiti indicati da Cass. 15 gennaio 2014, n. 687 e da Cass. 23settembre 2013, n. 21716), anche secondo una lettura costituzionalmente orientata, per la quale esso non disciplina un'autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale distinta da quella prevista dall'art. 2043 c.c., ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, tra i quali è da annoverare la necessità (anche in caso di lesione di diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria) che la lesione sia grave e che il danno non sia futile (Cass. 16 dicembre 2014, n. 26367; Cass. 9 aprile 2009, n. 8703): nella piena compatibilità con la responsabilità datoriale a norma dell'art. 2087 c.c. (Cass. 3 febbraio 2015, n. 1918).

Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna OMISSIS, alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 2.500,00 per compenso professionale, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2016




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