-  Dragone Massimo  -  14/02/2011

INFEZIONE CONTRATTA CON EMODIALISI: NON C'E' L'INDENNIZZO, MA LA STRUTTURA DEVE RISARCIRE IL DANNO DA CONTAGIO - Massimo DRAGONE

Per alcuni anni, tra il 1988 il 1991, una signora, prima di sottoporsi al trapianto di rene che pone definitivamente fine ai suoi problemi renali, si sottopone continuativamente, per tre giorni la settimana, al trattamento emodialitico.
Com'è noto la dialisi consiste nella purificazione del sangue della persona affetta da insufficienza renale mediante una macchina nella quale confluisce il sangue del paziente che, dopo essere stato purificato, viene reimmesso nel circolo sanguigno del dializzato attraverso secondo ago inserito in una sua vena.
Dopo alcuni anni la signora scopre di essere affetta dal virus dell’epatite C

Poiché nel corso della dialisi era stata trasfusa, ella ipotizza, in un primo tempo, di aver subito il contagio per via ematica. Propone quindi la domanda di indennizzo per ottenere i danni da trasfusione ai sensi della legge 210/1992 che, tuttavia, viene respinta dal Ministero della Salute, sul presupposto che la causa dell'infezione fosse ascrivibile alla dialisi e non alle trasfusioni di sangue.
Nel giudizio civile davanti al Giudice del Lavoro, avente ad oggetto la richiesta d'indennizzo viene svolta una c.t.u. che conferma l'eziologia della dialisi, escludendo invece il ruolo causale delle trasfusioni nella trasmissione del contagio virale.
La vicenda approda sino in Cassazione.
Nel proporre il ricorso la danneggiata sostiene che l’emodialisi, per le sue caratteristiche, costituisca una sorta di "autotrasfusione" e dunque debba ritenersi tutelata dalla legge 210/1992 che, seppure non contempla espressamente tale ipotesi, sarebbe tuttavia da interpretarsi estensivamente. 

La Cassazione, con l'allegata sentenza n. 17975/08, si esprime tuttavia negativamente, in particolare rilevando che: "per trasfusione deve intendersi il passaggio del sangue da una ad altra persona, o direttamente o previa raccolta e conservazione del sangue e somministrazione dello stesso o di un suo derivato ad un utilizzatore. Non rientra nel concetto di trasfusione il prelevamento del sangue da un soggetto ed iniezione dello stesso sangue nella stessa persona (autotrasfusione ovvero circolazione extra corporea)". Per i giudici di legittimità, invero, manca il "rischio che la legge ha inteso tutelare, vale a dire il rischio che il donatore sia affetto da un'infezione la quale viene trasmessa al donatario. Un soggetto che riceve il suo sangue non può essere soggetto a rischio di contrarre nuove infezioni rispetto a quelle di cui è portatore". 
Sottolinea anche il supremo Collegio che "ove si ipotizzi che la macchina destinata a <<ripulire>> il sangue dell'emodializzato sia sporca per altre sostanze lasciate da altro paziente, la fonte di risarcimento del danno non sarà la legge n. 210/1992, ma la responsabilità contrattuale per danni che lega l'azienda ospedaliera al paziente". 

Nel frattempo la danneggiata aveva proposto causa civile contro l'ospedale presso cui aveva effettuato il trattamento sanitario dialitico, sostenendo la responsabilità contrattuale della struttura. In tale causa veniva espletata in primo grado una c.t.u. medico legale ove si confermava, ancora una volta, la probabile sussistenza di un nesso causale tra la dialisi e l'infezione da HCV. 

Tuttavia il Tribunale dichiarava la prescrizione, ma la Corte d'Appello di Venezia, con l'allegata sentenza, ritiene che il termine prescrizionale non fosse decorso, non essendo trascorsi 10 anni dalla data della “piena consapevolezza” della “genesi della malattia", eziologicamente riconducibile alla dialisi.
Nel condannare l'ospedale al risarcimento del danno, la Corte veneta osserva, in primo luogo, che sussiste il nesso causale, dovendo ritenersi che "la malattia è stata contratta dalla signora….. attraverso l'emodialisi", "secondo la regola della normalità causale del <<più probabile che non>> ".
In proposito assume rilevanza l'assenza di fattori alternativi di contagio ("… Non sono emerse dalle cartelle cliniche dei ricoveri… né in generale dalla documentazione in atti delle indagini svolte dal c.t.u., notizie relative a eventi o comportamenti nel passato della signora… che possano rappresentare rischio di contrarre l'infezione da HCV…; non risulta aver fatto uso di droghe o avere tenuto uno stile di vita improntato a promiscuità sessuale; né aver avuto rapporti sessuali con persone affette da epatopatia o a rischio di epatite…"). 

Sussiste pertanto la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria la quale, pur avendo l'onere di fornire la prova liberatoria, nulla ha invece ha dedotto o dimostrato. In particolare, secondo quanto allegato dalla danneggiata e confermato dal c.t.u., benché alla data del presumibile contagio virale non fosse ancora disponibile il test anticorpale dell'HCV (reso obbligatorio in Italia con il D.M. 21 luglio 1990), tuttavia all'epoca la comunità scientifica si era attivata per predisporre misure idonee, quanto meno a ridurre il rischio di contagio.
Confermando quindi il consolidato orientamento della Corte di Cassazione S.U. n. 576/2008, la sentenza ricorda come "già nel 1988 erano prescritte cautele per la selezione dei donatori di sangue ai fini della riduzione dei rischi di trasmissione di virus epatici, quali: 1) selezione epidemiologica dei donatori; 2) ricerca dell’HBsAg (esclusione se positivo); 3) ricerca dell'anti-HBc (esclusione se positivo); 4) determinazione delle ALT (esclusione se alterate). L'applicazione dell'insieme di queste procedure, se non eliminava, riduceva la possibilità di trasmissione del virus epatico nAnB, in seguito identificato come HCV” .
Era quindi onere della struttura sanitaria dimostrare di aver posto in essere nella fattispecie concreta tutte quelle cautele e precauzioni raccomandate dalla buona pratica clinica o prescritte dalla normativa dell'epoca, secondo un generale "principio di precauzione". Infatti l'emodialisi, al pari delle trasfusioni di sangue, costituisce trattamento sanitario "pericoloso", stante il rischio che esso possa provocare la trasmissione al paziente di virus noti, ovvero non ancora individuati seppure identificabili come agenti patogeni trasmissibili per via parentelare. 

Con riguardo al danno non patrimoniale, la Corte d'Appello ritiene di personalizzarne la liquidazione in via equitativa. In proposito considera che la danneggiata avuto varie conseguenze sul piano fisico, sociale, ma soprattutto nei "rapporti interpersonali incluso, altresì, di disagio psichico di sentirsi <<soggetto contagioso>>". Pertanto il giudice veneziano ritiene equo aumentare di un terzo la percentuale del danno biologico permanente quantificato in sede di c.t.u.
infine, quanto al danno morale, la Corte afferma espressamente come "tale voce di danno meriti di essere liquidato in misura significativa, posto che la malattia di cui si tratta determina una modifica nello stile di vita e un evidente condizionamento nei rapporti con i terzi, che non possono non comportare sofferenze e disagio in chi li patisce".
Appare quindi più questione terminologica, che sostanziale, l'affermazione finale della sentenza, secondo cui "non esiste nel nostro ordinamento l'autonoma categoria del danno esistenziale inteso quale pregiudizio delle attività non remunerative della persona", essendo evidente che i pregiudizi di carattere squisitamente esistenziale sono stati nella fattispecie liquidati all'interno del danno morale-non patrimoniale.
Infine, all'importo complessivo liquidato titolo di danno non patrimoniale vanno aggiunti gli interessi legali sul capitale, di anno in anno rivalutato previa sua dei valutazione dalla data del fatto, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale.




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