-  Redazione P&D  -  05/04/2017

Il danno morale da rottura del vincolo familiare ai parenti di fatto - Trib. di Roma, 20553/2016 - Pietro Roccasalva

La decisione annotata si apprezza per il valore innovativo della scelta e per la semplicità con cui mette in rilievo il nucleo essenziale del danno da perdita del rapporto parentale.

Il Tribunale riconosce il diritto al risarcimento del danno a tre soggetti non legati alla vittima dell"illecito da alcun legame parentale o di affinità ma da una mera affezione «riconducibile ai rapporti di natura familiare», nata all"interno di un"esperienza ultraventennale di vita in comune.

Le tre persone, che per semplicità possiamo aggettivare come padre, nonno e fratello "acquisiti", sono titolari di un interesse giuridicamente rilevante, la cui lesione, per il Tribunale, (può) genera(re) un danno risarcibile.
In proposito, la decisione è chiarissima: «è dato presumere che la coabitazione del defunto già dai suoi primi mesi di vita con il marito di sua madre ed i suoi parenti ed il protrarsi di essa per un lungo periodo [...] abbia necessariamente creato, tra i conviventi un forte legame affettivo ed uno stabile vincolo di solidarietà familiare», la cui rottura ha causato un danno morale (sofferenza).

In vero, ci si poteva aspettare dal Tribunale, data la novità del riconoscimento del danno, soprattutto in capo al "nonno" acquisito, un maggiore approfondimento del contra ius, nel senso di delineare l"esatta lesione dell"interesse giuridico riconosciuto e garantito dall"ordinamento, non riconducibile a un mero interesse di fatto.

Forse la scelta di trattare quanto basta e non di più la suddetta situazione giuridica lesa è stata dettata dalla consapevolezza di opinare in una materia in cui spesso, nella "Dottrina delle Corti", in luogo della ragione prevale l"opinione.
L"impressione, pertanto, è che il Tribunale abbia preferito limitare l"analisi alla sola essenza del danno parentale.

Di esso, infatti, la decisione in commento ne mostra sinteticamente l"ontologia negativa, cioè la sofferenza. E, al contempo, la stessa decisione afferma che la sola sofferenza, come emblema elementare della richiesta del risarcimento del danno parentale, non basta, perché è necessario un secondo elemento presupposto: la rottura di un vincolo sodale di un progetto di vita in comune.

E nella sentenza questi due requisiti sono ben messi in rilievo e, soprattutto il secondo, diviene il protagonista della parte più lunga della motivazione dedicata alla prova e alla determinazione del quantum.
Detto ciò, il Tribunale applica all"innovativa fattispecie sottoposta al suo giudizio, due dati oramai consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di danno parentale:

. 1)  il presupposto del diritto al risarcimento del danno non è il rapporto di parentela in sé ma la sofferenza patita in conseguenza della rottura del rapporto;

. 2)  la mera esistenza di un rapporto di parentela riverbera i suoi effetti solo sul piano dell"onere probatorio e non su quello della titolarità del diritto.

Quanto al numero uno, il giudice, apertamente, ne coglie il senso più profondo ed equipara il caso concreto a quello della famiglia legittima o naturale: «pur non sussistendo tra gli attori ed il defunto [...] un legame di sangue sulla scorta del quale presumere la perdita di un rapporto c.d. parentale, è agli atti la prova che tra i medesimi fosse comunque una stabile comunione di vita data, anzitutto, dalla continuità della convivenza». Ciò rende la sentenza originale rispetto al panorama giurisprudenziale, dove il danno parentale all"interno dei rapporti di fatto è, ad oggi, risarcito pacificamente soltanto al convivente more uxorio e non anche ad altre situazioni similari (l"amicizia, l"affiliazione alla medesima organizzazione associativa ecc.).

Di recente, la Corte di Cassazione (sez. IV penale) ha affermato che «la risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto causata da atto illecito penale richiede, dunque, oltre all"esistenza del rapporto di parentela, il concorso di ulteriori circostanze tali da far ritenere che la morte del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo valido sostegno morale, rilevando che deve tuttavia considerarsi come il legislatore non abbia inteso estendere la tutela ad un numero, a volte indeterminato, di persone le quali, pur avendo perduto un affetto non hanno una posizione qualificata perché venga in considerazione la perdita di un sostegno morale concreto. Perciò, per quei soggetti, quali i nonni e gli zii, che non hanno un vero e proprio diritto ad essere assistiti anche moralmente dai nipoti, si rende necessario, oltre il vincolo di stretta parentela, un presupposto (ad esempio, ma non necessariamente, la convivenza) che riveli la perdita appunto di un valido e concreto sostegno morale (presupposto che la Corte di merito non ha ravvisato)» (sent. n. 11428 del 2017).

La pronuncia della S.C., che fa eco a un"opinione diffusa, a differenza del Tribunale romano, ritiene il rapporto di parentela una "posizione qualificata" necessaria della situazione giuridica tutelata dall"ordinamento.

Invece, per il Tribunale, ciò che conta è la stabilità della relazione umana e non un suo aspetto formale.
L"ordinamento, sembra dire il giudice romano, tutela il vincolo affettivo tra persone all"interno di una relazione stabile, a prescindere se vi sia o meno un contraltare giuridico di tipo parentale.

Ecco, quindi, la giusta luce attraverso la quale leggere il danno parentale: la sofferenza derivante dalla rottura ingiusta di una relazione umana stabile.
In questo senso, anche la "posizione qualificata" di cui opina la S.C. nella sentenza citata, deve essere riferita al "vincolo affettivo tra persone" e non solo "al vincolo affettivo tra parenti e affini".

La tesi fatta propria dalla S.C., invero, sembra confondere il piano della prova del danno subito, con quello della tutela dell"interesse giuridico.
In questo senso, riprendendo il secondo dei due punti sopra ricordati, l"esistenza del rapporto di parentela riverbera i suoi effetti solo sul piano della prova e non anche su quello della tutela.

Precisamente, tanto più è stretto il vincolo parentale quanto più automatico sarà il ricorso alle presunzioni: dal fatto noto che a chiedere il risarcimento siano i genitori, il coniuge, i figli, i fratelli della vittima, è lecito risalire al fatto ignorato che l"attore abbia effettivamente patito un danno morale, senza necessità di ulteriori allegazioni. Invece, nel caso di parenti non prossimi (zii, nipoti, nonni) che chiedono il risarcimento del danno parentale, il ricorso alle presunzioni non può essere automatico ma dovrà essere l"attore a dimostrare di avere effettivamente sofferto per la perdita del parente. E, sotto questo profilo, il Tribunale di Roma fa buon governo delle regole sulla ripartizione dell"onere probatorio, dedicando all"argomento la seconda parte della motivazione.

In definitiva, la decisione romana merita certamente un plauso perché opera a ridosso del limite esterno del danno parentale e consacra il metodo storico evolutivo della responsabilità civile, tenendo in debito conto che, oggi, la condizione in cui nascono e si sviluppano stabilmente le relazioni umane non è soltanto la "società naturale fondata sul matrimonio" immaginata dalla Carta costituzionale.

In questa direzione, la sentenza in commento ci comunica che la pluralità di relazioni possibili, giuridicamente rilevanti, da cui può scaturire una sofferenza da risarcire, è la nuova frontiera incombente del danno parentale.




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