-  Redazione P&D  -  24/03/2011

ESPOSIZIONE AD AMIANTO E RESPONSABILITA' PENALE: RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE - Roberto BARTOLI

Le uniche riflessioni sul tema possono essere così sintetizzate: la giurisprudenza più recente si richiama alla sentenza Franzese in termini più formali che sostanziali, con la conseguenza che quel rigore da essa richiesto nell’accertamento del nesso causale viene in realtà costantemente disatteso[2]. Sottesa a questa affermazione v’è quindi l’idea che la sentenza Franzese, adottando una soluzione rispettosa dei principi di garanzia, abbia segnato quel punto di svolta che si auspicava e che pertanto la giurisprudenza successiva tenda – per così dire – a tradire la soluzione indicata.

In verità, vi sono fondate ragione per ritenere che le cose stiano in termini molto più complessi. A me pare, infatti, non solo che la giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese si sia attenuta ai principi di diritto da quest’ultima enunciati, ma anche che i persistenti sospetti di scarso rigore nell’accertamento della causalità siano da imputare più alla stessa pronuncia delle Sezioni Unite che agli orientamenti posteriori.

In particolare, ad un’attenta analisi, ci si rende conto che la grande novità della sentenza Franzese non è stata tanto la strutturazione bifasica dell’accertamento causale, né l’accento posto sulla esclusione dei decorsi causali alternativi o comunque sulla necessità di una conferma ex post dell’ipotesi formulata ex ante. La grande novità sembra essere consistita piuttosto nell’aver introdotto il concetto di certezza c.d. processuale, basata sulla elevata probabilità logica o credibilità razionale, in sostituzione di quello della certezza c.d. assoluta[3]: «lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche – hanno affermato le Sezioni Unite – sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale […] Poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto […] l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico deduttivo, secondo i criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo in settori nevralgici per la tutela dei beni primari […] Tutto ciò significa che il giudice […] è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale”, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da “alto grado di credibilità razionale” o “conferma” dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare»[4].

Detto in altri termini, per la sentenza Franzese la credibilità razionale, e quindi il ragionamento induttivo su cui tale credibilità di basa, sembrano giocare un ruolo decisivo non solo sul piano processuale, al momento della verifica probatoria del decorso causale ipotizzato, ma anche sul piano sostanziale, al momento della spiegazione del decorso causale, vale a dire della ricostruzione in astratto dell’ipotesi del decorso causale, e ciò perché la verifica probatoria concreta, caratterizzata dalla certezza c.d. processuale, finisce per sostituirsi alla certezza c.d. assoluta che invece dovrebbe caratterizzare la ricostruzione sostanziale e astratta del decorso. In sostanza, le Sezioni Unite lasciano intendere che decisivo ai fini della ricostruzione del nesso causale non è tanto il rigore della generalizzazione esplicativa astratta, quanto piuttosto la credibilità della ricostruzione del fatto concreto, con la conseguenza che la spiegazione può conoscere anche una sorta di flessibilizzazione, compensata poi dalla solidità della verifica probatoria.

Ebbene, quali le conseguenze di questa sostituzione, già sul piano sostanziale, della certezza c.d. assoluta con la certezza c.d. processuale? Per quanto riguarda il decorso causale c.d. ipotetico, e cioè l’indagine sull’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, tale sostituzione non sembra creare particolari problemi. Essa, infatti, non solo è plausibile, ma addirittura si attaglia perfettamente alla struttura predittiva e stocastica del decorso causale c.d. ipotetico: basandosi quest’ultimo decorso su una prospettiva prognostica, la certezza “sostanziale” alla quale si tende non può che essere una certezza “induttiva”, normo-valutativa. In sostanza, in un contesto predittivo parlare di certezza impeditiva assoluta è logicamente, prima ancora che normativamente, un controsenso. Tutt’al più può avere un senso parlare di certezza in ordine al possibile fallimento del comportamento dovuto (es. Tizio doveva essere sottoposto immediatamente a un E.C.G. che tuttavia è risultato guasto). La prospettiva prognostica determina, in sostanza, un mutamento di paradigma rispetto al quale lo stesso concetto di certezza non può che mutare, configurandosi come una certezza normativa in definitiva concettualmente (qualitativamente) identica alla certezza c.d. processuale, in cui a dominare non è la scienza esplicativa, ma il ragionamento logico-argomentativo. E non è un caso che la giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese non solo si sia attenuta a tali indicazioni, continuando a riferirsi alle percentuali probabilistiche nella formulazione della prognosi, ma abbia anche offerto un contributo – per così dire – innovativo, dando rilievo alla c.d. “corroborazione dell’ipotesi”[5]. Così, ad esempio, nell’ambito della responsabilità medica, se da un lato si ritiene che l’evento non impedito sia imputabile sulla base di un’idoneità impeditiva basata su componenti percentualistiche, dall’altro lato si avverte l’esigenza di rafforzare il mero dato percentualistico attraverso considerazioni ulteriori che consentano di calarlo e verificarlo alla luce della situazione di fatto, con la conseguenza che il nesso “ipotetico” deve essere escluso allorquando ci si sia limitati a fare riferimento al comportamento alternativo lecito senza metterlo in relazione allo specifico caso concreto[6].

Per quanto riguarda il decorso causale c.d. reale, il ragionamento è invece diverso. Posto che rispetto a questo decorso entra in gioco una logica esplicativa in prospettiva ex post, il rapporto tra certezza assoluta e certezza c.d. processuale, basata sulla probabilità logica/credibilità razionale, necessita di alcuni chiarimenti. Ed infatti, se ai fini della spiegazione dell’evento la certezza c.d. processuale non si sostituisce a quella c.d. assoluta, non solo risulta rispettata la distinzione concettuale tra dimensione sostanziale e dimensione processuale del diritto penale, ma soprattutto risultano osservati i rispettivi princìpi di garanzia che governano tali dimensioni, e cioè, da un lato, il principio della personalità della responsabilità penale che ai fini della spiegazione di un evento richiede una spiegazione razionalmente controllabile, e quindi inevitabilmente scientifica; dall’altro lato, viene rispettato il principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio, il quale ammette ricostruzioni fattuali valutative, purché il giudizio si riveli per l’appunto fondato oltre ogni ragionevole dubbio. Perplessità invece sorgono se, ai fini della spiegazione dell’evento, la certezza c.d. processuale si sostituisce a quella c.d. assoluta, in quanto diviene possibile attenuare il rigore scientifico della generalizzazione esplicativa che si formula, aprendosi così margini per una possibile violazione del principio di garanzia della personalità della responsabilità penale.

E quanto appena affermato si comprende piuttosto bene con riferimento alla problematica della esclusione dei decorsi causali alternativi. Se infatti si ritiene che la certezza processuale si sostituisce a quella assoluta, l’esclusione dei decorsi causali alternativi diventa possibile anche se non si conoscono tutte le cause che possono determinare un certo evento, risultando sufficiente la presenza di alcuni elementi di fatto che siano idonei a rafforzare l’ipotesi. Se invece si ritiene che ai fini della spiegazione dell’evento sia necessaria la certezza assoluta, una legittima esclusione dei decorsi causali è plausibile solo se si conoscono tutte le possibili cause di verificazione di un determinato evento[7]. Detto in altri termini, parlare di certezza processuale in un contesto esplicativo è senza dubbio logicamente possibile, tuttavia sul piano normativo rischia di comportare una violazione del principio della personalità della responsabilità penale. E la giurisprudenza più recente, come vedremo tra poco, rispetto alla spiegazione dell’evento sembra essersi attenuta proprio a queste indicazioni “flessibilizzanti” elaborate dalla sentenza Franzese.

Ecco allora che, se volessimo compiere una sorta di primo bilancio “consuntivo” sulla giurisprudenza post Franzese, dovremmo riconoscere che essa si è attenuta agli insegnamenti di quest’ultima pronuncia, insegnamenti che tuttavia hanno offerto un contributo autenticamente rispettoso dei principi di garanzia per quanto riguarda il decorso causale ipotetico, mentre con riferimento al decorso causale reale vi sono fondate ragioni per ritenere che il suo magistero presenti ancora ambiguità tali da far sorgere qualche sospetto di violazione delle garanzie.


2. Le questioni poste dalla responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto: tra causalità e colpa

Il tema della responsabilità penale derivante dalla esposizione dei lavoratori ad amianto consente di approfondire proprio le questioni appena accennate. Da un lato, infatti, si tratta di un tema in cui la ricostruzione del decorso causale reale risulta particolarmente problematica. Volendo fare una sorta di comparazione, si può dire che mentre nell’ambito dell’attività medico-chirurgica la ricostruzione del decorso reale si presenta rarissimamente volte incerta e dibattuta, trattandosi di un’attività che tende – per così dire – ad acquisire i progressi scientifici, sia perché si basa di per sé sulle conoscenze scientifiche esplicative di catene causali produttive di eventi, sia perché tali progressi sono consentanei agli interessi dei medici, come anche dei pazienti; al contrario, rispetto all’attività lavorativa tale ricostruzione costituisce un problema in quanto si tratta di attività non solo di regola scollegata al sapere scientifico esplicativo, ma che tende anche a porsi in tensione con i progressi scientifici, i quali, rivelando pericolosità di vario genere, sono visti come potenziali ostacoli per l’attività produttiva. Dall’altro lato, la responsabilità penale da amianto consente di approfondire anche il versante del decorso causale ipotetico, potendosi tranquillamente dire che in essa si trovano concentrate quasi tutte le problematiche poste dalla c.d. causalità della colpa.

In particolare, per quanto riguarda il decorso causale reale, i problemi che si devono affrontare sono fondamentalmente due: quello della spiegazione del decorso e quello della esclusione dei decorsi causali alternativi. In ordine al decorso causale ipotetico, si pongono invece addirittura quattro questioni: quella, per certi aspetti preliminare, delle conoscenze che devono stare alla base della elaborazione di una regola cautelare (prevedibilità c.d. in astratto o ex ante); quella della concretizzazione del rischio, per cui l’evento verificatosi, e che si doveva evitare, deve concretizzare il rischio che la regola cautelare intendeva contenere (prevedibilità c.d. in concreto o ex post); la questione della reale efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, per cui tale comportamento deve risultare effettivamente in grado di contenere il rischio (evitabilità c.d. in astratto o ex ante); e la questione del rapporto tra regole rispettate ed eventuale residuo di una responsabilità colposa derivante dalla violazione di regole cautelari ulteriormente imposte.

Le ipotesi della responsabilità da amianto pongono infine un ultimo problema, quello della prevedibilità dell’evento, e più in generale del fatto tipico, da parte del soggetto agente, problema che apre alla c.d. misura soggettiva della colpa.


3. La spiegazione dell’evento. L’orientamento giurisprudenziale meno recente fondato sull’aumento del rischio

Per quanto riguarda la spiegazione dell’evento morte connesso alla esposizione dei lavoratori ad amianto, preliminarmente si deve osservare come le prime volte in cui si è posta tale questione la giurisprudenza (precedente alla sentenza Franzese) non abbia adottato la prospettiva esplicativa ex post, ma si sia basata invece sul paradigma causale fondato sul c.d. aumento del rischio, vale a dire su un paradigma decisamente inaccettabile per violazione del principio di personalità della responsabilità penale.

Più precisamente, in ordine al concetto di aumento del rischio si possono distinguere diverse ipotesi. Anzitutto, v’è quella in cui nonostante l’esistenza del decorso causale reale (la spiegazione dell’evento) e l’idoneità del comportamento alternativo lecito ad impedire l’evento, la mancata adozione del comportamento alternativo lecito ha comunque aumentato (ovvero mancato di diminuire) il rischio di verificazione dell’evento: si tratta di una ipotesi di aumento del rischio che riteniamo ammissibile, sia perché risultano positive le verifiche di conferma concernenti il decorso causale reale e quello ipotetico, sia perché, una volta superate tali verifiche, l’imputazione dell’evento non può che avvenire in termini probabilistici in virtù della struttura prognostica del giudizio di efficacia impeditiva. In secondo luogo, v’è l’ipotesi di aumento del rischio in cui, dopo aver ricostruito il decorso causale reale ed aver individuato il comportamento alternativo lecito astrattamente idoneo ad impedire l’evento, si afferma la responsabilità, senza tuttavia aver verificato se quest’ultimo comportamento sarebbe stato realmente in grado di impedire l’evento, senza cioè escludere le possibili ipotesi di fallimento del comportamento alternativo lecito (es. imprevedibilità in astratto per totale assenza di conoscenze empiriche; imprevedibilità in concreto per mancata concretizzazione del rischio; inevitabilità in astratto, dovuta alla assoluta incapacità nomologica della condotta a contenere il rischio; inevitabilità in concreto, dovuta alla presenza di peculiari fattori reali che avrebbero neutralizzato l’efficacia della condotta diligenza): questa ipotesi di aumento del rischio è inammissibili per la semplice ragione che alla fin fine si imputa l’evento basandosi su un comportamento congetturalmente idoneo, ma nella realtà inefficacia, con la conseguenza che l’evento è imputato in assenza di un reale nesso tra la condotta omessa e la vicenda concreta. Infine, v’è l’ipotesi di aumento del rischio in cui si imputa l’evento a prescindere addirittura dalla stessa ricostruzione del decorso causale reale, ragionando in termini di mera idoneità della condotta a cagionare o impedire un determinato evento: e questa ipotesi è da ritenersi a maggior ragione inammissibile, poiché, mancando la spiegazione del decorso reale, il comportamento che si ritiene criminoso può risultare del tutto sganciato dall’evento (es. omesso salvataggio del bagnino, quando tuttavia il decesso non è dovuto ad annegamento, ma ad infarto).

Ebbene, le prime sentenze che hanno affrontato il problema della causalità in tema di amianto hanno fatto riferimento a quest’ultima tipologia di aumento del rischio, affermando che per l’esistenza del nesso causale «è sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea a produrre la malattia»[8]. In termini ancor più puntuali, si può osservare come il problema della idoneità del comportamento alternativo lecito a ridurre il rischio sia stato affrontato prima di quello della spiegazione causale e, rispetto a quest’ultima, si sia affermato che «è nozione consolidata che il rischio di tumore del polmone e di mesotelioma sono correlati alla dose esposizione (durata per intensità di esposizione) e che in oncologia clinica sperimentale è acquisita la nozione secondo la quale riducendo la dose (in durata o in intensità) si ottiene una riduzione della frequenza dei tumori»; per poi concludere che «la correlazione del rischio di tumore al polmone e di mesotelioma con la dose di esposizione (durata per intensità) è dimostrata anche dalla letteratura che indica che alla diminuzione della dose di amianto diminuirebbe la probabilità delle patologie correlate»[9] [corsivi nostri].

Alla luce di quanto appena detto si deve osservare come d’altra parte anche la giurisprudenza più recente rischi a volte di adottare soluzioni basate sull’aumento del rischio. Ed infatti, in alcune sentenze successive alla Franzese si trova affermato che «dovrà riconoscersi il rapporto di causalità non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani ovvero ancora quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa»[10].

Di per sé si tratta di un’affermazione assolutamente condivisibile, perché è indubbio che una condotta omissiva (consista essa nella autentica omissione oppure nella omissione di cautele) assume rilevanza allorquando la sua adozione avrebbe consentito di impedire l’evento o comunque di ritardare la sua verificazione. Tuttavia, è necessario ribadire che questo tipo di ragionamento può essere compiuto soltanto quando v’è assoluta certezza esplicativa in ordine al fatto che un certo evento è frutto di un determinato decorso causale sul quale poteva innestarsi il comportamento alternativo lecito avente efficacia impeditiva. Detto in altri termini, occorre sempre tenere presente che si può iniziare a prendere in considerazione le problematiche del decorso causale ipotetico, soltanto quando la verifica esplicativa del decorso causale reale ha dato esiti positivi[11].


3.1. Gli orientamenti più recenti basati sulla spiegazione dell’evento: tra dose-dipendenza e incertezza scientifica

Gli orientamenti successivi a quello appena esaminato hanno abbandonato il paradigma dell’aumento del rischio, adottando invece quello della spiegazione causale. Tuttavia, in questa nuova prospettiva si è aperta la questione della dose-dipendenza o meno delle patologie derivanti dall’esposizione all’amianto.

Più precisamente, posto che le fibre di amianto inalate producono essenzialmente tre diverse patologie, vale a dire: l’asbestosi (patologia non tumorale del polmone), il carcinoma (patologia tumorale del polmone) e il mesotelioma (patologia tumorale della pleura o del peritoneo); e posto che risulta scientificamente pacifica la dose-dipendenza dell’asbestosi e del carcinoma polmonare[12]; per quanto riguarda il mesotelioma, il discorso si presenta decisamente più complesso: se da un lato, infatti, risulta scientificamente pacifico che per innescare il meccanismo patogenetico del mesotelioma è sufficiente una dose bassa e che tale meccanismo fa esplodere la neoplasia maligna dopo un lungo periodo di latenza (mi pare si possa parlare di legge scientifica addirittura universale)[13]; dall’altro lato, si è posto il problema se esista o meno un rapporto inverso tra entità della esposizione e durata della latenza ovvero, detto in altri termini, se le tre patologie debbano essere trattate in modo analogo in quanto tutte in definitiva dose-correlate oppure distinguendo tra asbestosi e carcinoma (dose-dipendenti) e mesotelioma (la cui riduzione della latenza sarebbe dose-indipendente).

Le conseguenze applicative derivanti dall’adozione dell’una o dell’altra soluzione sono molto rilevanti, e per comprenderle compiutamente si deve muovere dalla consapevolezza che nelle imprese in cui si lavorava con l’amianto, durante l’ampio arco temporale in cui si sono sviluppate le patologie, si è spesso verificata una successione nelle posizioni di garanzia. Ebbene, partendo dalla conseguenza più significativa, se si ritiene che tutte le patologie siano dose-dipendenti (rectìus, che la latenza del mesotelioma si riduca all’aumentare delle esposizioni), e che quindi in definitiva non si debba distinguere tra le diverse tipologie, l’esposizione successiva risulta rilevante, in quanto l’aumento della dose di amianto inalata è in grado di accorciare la latenza della malattia o di aggravare gli effetti della stessa, con la conseguenza ulteriore che le successive omissioni di cautele possono assumere rilevanza. Se invece si ritiene che il mesotelioma sia dose-indipendente e che quindi si debba distinguere tra le diverse patologie, mentre per l’asbestosi e per il carcinoma polmonare l’esposizione successiva è rilevante, al contrario per il mesotelioma non lo è, con la conseguenza che non sono punibili le successive omissioni di cautele.

Ma vi sono anche altre conseguenze, di una certa importanza soprattutto sul piano processuale, che non possono essere sottaciute. Anzitutto, se si muove dall’idea che anche “il mesotelioma è dose-dipendente”, non risulta necessario descrivere l’evento con rigore e quindi stabilire con esattezza la causa della morte, essendo sufficiente ricondurre il decesso all’amianto, quale che sia poi in realtà la patologia che viene in gioco[14]. In secondo luogo, in virtù della dose-dipendenza, se nel corso del processo si viene a conoscenza che la vittima ha subìto altre esposizioni oltre a quella ipotizzata, la stessa ipotesi non risulta inficiata. Se infatti si scopre che in precedenza vi sono state altre esposizioni, quella successiva avrà concorso a diminuire la latenza; se invece si scopre che successivamente vi sono state altre esposizioni, quella successiva non interromperà il nesso, potendosi anzi estendere la responsabilità anche a queste esposizioni. In sostanza, anche a voler ammettere che il lavoratore fosse stato esposto ad amianto nell’ambiente generale o in altri contesti lavorativi precedenti o successivi, la riduzione dell’esposizione in ambito lavorativo attraverso l’adozione delle misure cautelari, avrebbe ridotto il carico di fibre complessivamente inalato e quindi dilatato la durata della latenza, con conseguente responsabilità per chi ha omesso le cautele. Ed ancora: la dose-dipendenza della riduzione della latenza consente di trovare comunque dei soggetti responsabili, in quanto, proprio a causa della lunga latenza, a volte i titolari delle posizioni di garanzia al momento della inalazione innescante, risultano. al momento del processo. deceduti. Infine, se si adotta la soluzione della rilevanza delle esposizioni successive si risolve a priori un notevole problema probatorio che invece si porrebbe adottando l’altra soluzione. Ed infatti, là dove si ritenga che le esposizioni successive non rilevano, in presenza di una successione di soggetti nelle posizioni di garanzia, si pone il problema di individuare il momento in cui la dose innescante potrebbe essere stata inalata. Tale problema non sussiste quando non v’è una pluralità di soggetti oppure quando il periodo di latenza consente di individuare “al di là di ogni ragionevole dubbio” il soggetto responsabile. Ma quando queste condizioni vengono meno, pur sussistendo il nesso causale, può tuttavia essere molto difficile raggiungere la prova che la dose innescante sia stata inalata proprio durante il periodo in cui uno degli imputati è ritenuto il responsabile[15]. In sostanza, se esiste un rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita e risposta tumorale (o comunque riduzione della latenza) si attenua l’interesse per l’individuazione del periodo di inalazione della dose innescante, individuazione spesso molto difficile da provare.

Ebbene, per quanto riguarda la spiegazione dell’evento, registrata l’esistenza di pochissime pronunce che hanno aderito alla spiegazione causale basata sulla dose-indipendenza della riduzione della latenza[16], si possono distinguere due orientamenti giurisprudenziali. Per un primo indirizzo senza dubbio maggioritario, tutte e tre le patologie sono – per così dire – dose-dipendenti. Così, la Corte di Cassazione ha affermato che sussiste un «rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata dell’esposizione) e risposta tumorale: aumentando la dose di cancerogeno, non solo è maggiore l’incidenza dei tumori che derivano dall’esposizione, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita perduti o, per converso, anticipazione della morte. Questo processo è stato dalla Corte [di merito] riferito non solo al tumore polmonare o broncogeno ma anche al mesotelioma»[17]. E più di recente si è fatto riferimento a «un riconoscimento condiviso, se non generalizzato, della comunità scientifica – peraltro fatto già proprio da sentenze di merito e di legittimità […] sul rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata della esposizione) e risposta tumorale, con la conseguente maggiore incidenza dei tumori e minore durata della latenza della malattia nelle ipotesi di aumento della dose di cancerogeno»[18].

Per altro orientamento, invece, presente solo nella giurisprudenza di legittimità, si deve distinguere tra asbestosi e carcinoma, da un lato, e mesotelioma pleurico, dall’altro. E se in tale prospettiva non ci si spinge fino ad affermare l’esistenza di una diversa spiegazione causale (dose-dipendenza asbestosi e carcinoma, dose-indipendenza riduzione della latenza del mesotelioma), tuttavia si pone in risalto come mentre per l’asbestosi esiste certezza in ordine alla spiegazione, al contrario con riferimento al rapporto tra esposizione e latenza del mesotelioma permangono dubbi esplicativi: così, in ordine all’asbestosi, si è notato che «i giudici di merito, nel comparare tale patologia con il mesotelioma pleurico, hanno evidenziato che l’asbestosi è una malattia “dose-correlata”, nel senso che il suo sviluppo e la sua gravità aumentano in relazione alla durata di esposizione alla inalazione delle fibre»[19]; mentre rispetto al mesotelioma si è posto in evidenza come «la sentenza impugnata solo apparentemente motiva sulla sussistenza della legge scientifica di copertura, in quanto, dopo avere delineato due orientamenti teorici prevalenti, della “dose risposta” (meglio conosciuta come “teoria del multistadio della cancerogenesi”) e quello contrapposto della irrilevanza causale delle dosi successive a quella “killer”, dichiara di aderire al primo orientamento, senza però indicare dialetticamente le argomentazioni dei consulenti che sostengono detta tesi e le argomentazioni di quelli che la contrastano e le ragioni dell’opzione causale. In sostanza il giudice di merito, più che utilizzare la legge scientifica, se ne è fatto artefice»[20]. Tale indirizzo, poi, tende a cassare le sentenze con rinvio affinché i giudici di merito si attengano al seguente principio: «nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al “sapere scientifico”, la funzione strumentale e probatoria di quest’ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità, ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti»[21]. 

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tratto da www.dirittopenalecontemporaneo.it




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