-  Redazione P&D  -  04/07/2013

DISCRIMINAZIONI FONDATE SULLA DISABILITÀ E RAPPORTO DI LAVORO - Trib. Bologna, sez. lav., ord. 18.6.2013 – Walter CITTI

Il provvedimento del giudice di Bologna è particolarmente importante perchè si tratta della prima pronuncia giurisprudenziale in tema di discriminazioni fondate sulla disabilità, che riferimento alle definizioni di 'disabilità' e di 'soluzioni ragionevoli' di accomodamento delle posizioni lavorative a favore dei disabili proprie del diritto dell'Unione europea e, nello specifico, della direttiva n. 2000/78.

Essenziale è far rilevare che il concetto di 'disabilità' non viene espressamente definito dalla direttiva 2000/78, né la direttiva rimanda alle leggi nazionali degli Stati membri ai fini della definizione.

Secondo, dunque, la giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia europea, quando un concetto contenuto in una norma di diritto comunitario non viene espressamente definito dalla norma medesima, né la norma contiene un rimando alle legislazioni nazionali degli Stati membri, le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell'Unione europea, soprattutto quando sono in gioco diritti fondamentali quali quello all'uguaglianza, fanno sì che al concetto medesimo deve essere data un'autonoma ed uniforme interpretazione valida in tutto lo spazio comunitario, facendo riferimento al contesto della norma e all'obiettivo perseguito dalla legislazione medesima (in questo senso, fra l'altro, causa 327/82 Ekro, paragrafo 11 e Caso C -323/03, Commissione c. Spagna, paragrafo 32).

Di conseguenza, nel considerare se una persona possa o meno rivendicare la protezione dalla discriminazioni fondate sulla disabilità nel settore dell'impiego di cui alla direttiva europea, non è corretto fare riferimento alla legislazione italiana in materia di handicap e ai criteri seguiti dalle apposite commissioni mediche italiane ai sensi dell'art. 4 della legge n. 104/92, ovvero alle norme per il diritto al lavoro dei disabili (l. n. 68/99), che –come è noto- applicano misure positive di tutela del diritto al lavoro limitatamente alle persone affette da disabilità che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 % ovvero del 33% per quanto concerne le persone invalide del lavoro.

Il concetto di 'disabilità', da cui discende anche la protezione dalle discriminazioni accordata dalla direttiva, deve essere dunque interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea riferita alla direttiva 2000/78. Le sentenze di riferimento sono quella relativa al caso Chacon Navas c. Eurest Colectividades SA (C-13/05, sentenza 11 luglio 2006), e soprattutto la sentenza 11 aprile 2013 nella causa HK Denmark c. Pro Display A/S (cause riunite C-335/11 e C- 337/11).

La prima, in relazione a quanto affermato sopra circa il carattere autonomo ed uniforme da dare al concetto di disabilità contenuto nella Direttiva 2000/78, alla luce degli obiettivi della direttiva medesima, ha così affermato:

«41. Come risulta dal suo art. 1, la direttiva 2000/78 mira a tracciare un quadro generale per la lotta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, alle discriminazioni fondate su uno dei motivi menzionati in tale articolo, tra i quali compare l'handicap.

42 Tenuto conto del detto obiettivo, la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78 deve, in conformità della regola ricordata al punto 40 della presente sentenza, essere oggetto di un'interpretazione autonoma e uniforme.

43 La direttiva 2000/78 mira a combattere taluni tipi di discriminazione per quanto riguarda l'occupazione e le condizioni di lavoro. In tale contesto, deve intendersi che la nozione di «handicap» va intesa come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale.

44 Nondimeno, utilizzando la nozione di «handicap» all'art. 1 della direttiva di cui trattasi, il legislatore ha deliberatamente scelto un termine diverso da quello di «malattia». È quindi esclusa un'assimilazione pura e semplice delle due nozioni.

45 Il sedicesimo 'considerando' della direttiva 2000/78 afferma che la «messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull'handicap». L'importanza accordata dal legislatore comunitario alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione dell'handicap dimostra che esso ha previsto ipotesi in cui la partecipazione alla vita professionale è ostacolata per un lungo periodo. Perché una limitazione possa rientrare nella nozione di «handicap» deve quindi essere probabile che essa sia di lunga durata. (sottolineatura nostra)

46 La direttiva 2000/78 non contiene alcuna indicazione che lasci intendere che i lavoratori sono tutelati in base al divieto di discriminazione fondata sull'handicap appena si manifesta una qualunque malattia.

47 Dalle considerazioni che precedono consegue che una persona che è stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente per causa di malattia non rientra nel quadro generale tracciato dalla direttiva 2000/78 per lottare contro la discriminazione fondata sull'handicap.

Sulla tutela dei disabili in materia di licenziamento

48 Un trattamento sfavorevole basato sull'handicap va contro la tutela prevista dalla direttiva 2000/78 unicamente nei limiti in cui costituisca una discriminazione ai sensi dell'art. 2, n. 1, di quest'ultima.

49 Secondo il suo diciassettesimo 'considerando', la direttiva 2000/78 non prescrive l'assunzione, la promozione o il mantenimento dell'occupazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l'obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili.

50 Ai sensi dell'art. 5, della direttiva 2000/78, sono previste soluzioni ragionevoli per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili. Secondo detto articolo ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione, a meno che tali provvedimenti richiedano al datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.

51 Il divieto, in materia di licenziamento, della discriminazione fondata sull'handicap, sancito agli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, osta a un licenziamento fondato su un handicap che, tenuto conto dell'obbligo di prevedere soluzioni ragionevoli per i disabili, non sia giustificato dal fatto che la persona di cui trattasi non è competente, capace o disponibile a svolgere le mansioni essenziali del suo posto di lavoro.

52 Da tutte le considerazioni che precedono risulta che la prima questione va risolta dichiarando che:

– una persona che è stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente a causa di malattia non rientra nel quadro generale stabilito dalla direttiva 2000/78 per la lotta contro la discriminazione fondata sull'handicap;

– il divieto, in materia di licenziamento, della discriminazione fondata sull'handicap, sancito agli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, osta a un licenziamento fondato su un handicap che, tenuto conto dell'obbligo di prevedere soluzioni ragionevoli per i disabili, non sia giustificato dal fatto che la persona di cui trattasi non è competente, capace o disponibile a svolgere le funzioni essenziali del suo posto di lavoro.»

Riassumendo le indicazioni che possono essere tratte dalla sentenza della CGE nel caso Chacon Navas, si può concludere che una persona può rivendicare il diritto alla protezione offerta dalla direttiva 2000/78 contro le discriminazioni fondate sulla disabilità, in presenza di un handicap fisico, mentale o psicologico suscettibile di ostacolare per un lungo periodo di tempo la sua partecipazione alla vita professionale. In questo senso e solo entro questi ambiti, il concetto di disabilità dovrà essere distinto da quello di 'malattia in quanto tale', solo il primo essendo suscettibile di far scattare la protezione offerta dalla direttiva 2000/78.

A chiarire ulteriormente la questione, è intervenuta la seconda sentenza della CGUE citata (HK Denmark c. Pro Display A/S). In questo procedimento, l'Avvocato generale della Corte di Giustizia europea, nelle conclusioni presentate nel procedimento C-335/11 e C-337/11, già si era espresso in favore della tesi di una non irreconciliabilità in assoluto tra le nozione di malattia e quelle di handicap: «dalla sentenza Chacon Navas non si desume che, se una malattia è la causa di una disabilità, è preclusa la sua qualificazione come disabilità [... per cui...] occorre distinguere tra la malattia quale possibile causa della minorazione e la minorazione che ne deriva [...con la conseguenza... ] che è ricompresa nell'ambito di tutela della direttiva anche la limitazione duratura derivante da una malattia, che comporta un ostacolo alla partecipazione alla vita professionale». In altri termini, se vi è una limitazione alla partecipazione alla vita professionale di natura duratura, derivante da una menomazione fisica o mentale, allora siamo in presenza di una disabilità protetta dalla direttiva n. 2000/78, senza rilevanza del fatto che tale menomazione derivi da handicap congeniti o da incidenti o sia la risultante di malattie insorte nel corso della vita dell'individuo. (Le conclusioni dell'Avvocato generale della CGUE presentate il 6.12.2012 nelle cause riunite C-335/11 e C-337/11 sono scaricabili al link: http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=131499&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=767302)

La Corte di Giustizia europea ha fatto propria la posizione dell'Avvocato generale della Corte così argomentando:

«36 Va rammentato che la nozione di «handicap» non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa. Per tale motivo la Corte, al punto 43 della sentenza Chacón Navas, citata, ha dichiarato che la nozione in discorso va intesa come una limitazione che deriva, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale.

37 Dal canto suo, la Convenzione dell'ONU, ratificata dall'Unione europea con decisione del 26 novembre 2009, ossia dopo la pronuncia della sentenza Chacón Navas, citata, alla sua lettera e) riconosce che «la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». In tal modo, l'articolo 1, secondo comma, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri».

38 Alla luce delle considerazioni svolte ai punti 28-32 della presente sentenza, la nozione di «handicap» deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

39 Inoltre, dall'articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell'ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere «durature».

40 Va inoltre aggiunto che, come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni, non risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia. Infatti, sarebbe in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell'handicap.

41 Pertanto, si deve constatare che, se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78.

42 Per contro, una malattia che non comporti una simile limitazione non rientra nella nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78. Infatti, la malattia in quanto tale non può essere considerata un motivo che si aggiunge a quelli in base ai quali la direttiva 2000/78 vieta qualsiasi discriminazione (v. sentenza Chacón Navas, cit., punto 57)».

Facendo espresso riferimento alla sentenza della CGUE dell'11 aprile scorso, il giudice di Bologna ha dunque concluso che l'handicap sofferto dall'infermiere professionale ricorrente, l'"epilessia notturna", non costituisce una semplice malattia, in quanto non è una patologia transeunte, bensì un fattore fisico/neurologico suscettibile di ostacolare per un lungo periodo di tempo la partecipazione della persona alla vita professionale, per cui il ricorrente ricade ratione personae nella sfera di applicazione della protezione accordata dalla direttiva n. 2000/78, non influendo il fatto che gli sia stata riconosciuta la condizione di disabilità ai sensi delle leggi 104/92 o 68/99 solo successivamente alla sua partecipazione al bando di concorso in oggetto.

Il giudice del lavoro di Bologna giustamente ritiene che il caso in questione ricada nell'ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 2000/78.

L'art. 3 della direttiva 2000/78 infatti così prevede:

«Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione».

L'unica eccezione al divieto di discriminazioni fondate sulla disabilità anche per quanto concerne l'ambito dell'accesso all'occupazione e le procedure di selezione e di assunzione, sussiste quando la 'caratteristica protetta', per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui viene espletata, costituisce un requisito essenziale e determinate per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purchè la finalità sia legittima e il requisito proporzionato (art. 3 c. 1 della direttiva 2000/78).

Tuttavia, essendo questa un'eccezione al principio generale di eguaglianza che costituisce un diritto fondamentale, riconosciuto a livello internazionale (vedi considerando n. 4 alla direttiva), esso deve essere interpretato restrittivamente e soprattutto, nel caso di persone affette da disabilità, non potrà essere invocato senza che prima il datore di lavoro abbia attuato quelle misure adeguate ed appropriate destinate ad adattare il luogo di lavoro e la posizione lavorativa in funzione dell'handicap sofferto dalla persona, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi, gli orari di lavoro, attraverso una diversa ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento, così ottemperando a quel obbligo di predisporre e offrire 'soluzioni ragionevoli di accomodamento' per le persone disabili, previsto dall'art. 5 della direttiva quale specifica e vincolante obbligazione per il datore di lavoro in presenza di un lavoratore disabile, cui il datore di lavoro non può sottrarsi se non quando le soluzioni di accomodamento implichino un onere finanziario sproporzionato (si veda in proposito anche i considerando n. 20 e 21 alla direttiva n. 2000/78):

«Articolo 5

Soluzioni ragionevoli per i disabili

Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili ».

Quindi, in conclusione, solo dopo che il datore di lavoro abbia messo in atto tutti quei ragionevoli accomodamenti per adattare il posto di lavoro all'handicap sofferto dal lavoratore, anche in termini di distribuzione degli orari di lavoro e di compiti e mansioni lavorative tra i lavoratori disponibili, al fine di garantirgli di espletare pienamente il proprio contributo professionale, potrà essere valutata la capacità o l'idoneità del lavoratore disabile di svolgere le funzioni essenziali di una data posizione lavorativa.

Al contrario, nel momento in cui venisse valutata l'idoneità di un lavoratore disabile facendo riferimento esclusivo a mansioni lavorative fisse e rigide non suscettibili di alcun ragionevole e non sproporzionato accomodamento, in termini di ripartizione di orari di lavoro e di redistribuzione dei lavoratori in organico o da assumere tra compiti e mansionari diversi, concludendosi per l'inidoneità del lavoratore disabile, necessariamente ci troveremmo di fronte ad una 'discriminazione diretta' del lavoratore fondata sulla disabilità, vietata dalla direttiva europea n. 2000/78. (Coerente con questa conclusione, anche se in via di analogia, facendosi riferimento a fattispecie diversa, appare la sentenza della Corte Costituzionale, 16 maggio 1989, n. 255, secondo cui anche il lavoratore disabile può essere soggetto al periodo di prova (art. 11 c. 2 legge n. 68/99), ma la prova "deve riguardare mansioni compatibili con lo stato d'invalidità o di minorazione fisica del lavoratore" e "la valutazione sull'esito della prova non deve essere assolutamente influenzata da considerazioni di minor rendimento dovute all'infermità o alle minorazioni").

Il giudice del lavoro di Bologna, dunque, giustamente ha ritenuto che l'Azienda Ospedaliera di Bologna, con la mancata assunzione dell'infermiere risultante idoneo con prescrizioni perchè affetto da "epilessia notturna" con conseguente impossibilità di svolgere turni di lavoro notturni, abbia commesso una violazione del divieto di "discriminazioni dirette" fondate sulla disabilità in quanto non avrebbe considerato l'obbligo –scaturente dall'art. 5 della direttiva 2000/78, di immediata e diretta applicazione nell'ordinamento interno, nonostante il mancato recepimento nei termini prescritti- di individuare soluzioni ragionevoli per l'adattamento delle mansioni di lavoro del lavoratore disabile in oggetto al suo handicap, anche attraverso una redistribuzione e ripartizione dei compiti e ruoli lavorativa tra gli infermieri professionali in organico o in assunzione entro l'AOL medesima. Una riorganizzazione del personale non poteva ritenersi eccessivamente onerosa e sproporzionata per il datore di lavoro tenendo conto tanto della durata del contratto di lavoro (sei mesi), quanto del contesto lavorativo di una grande azienda ospedaliera con oltre 4.000 dipendenti come personale ospedaliero a disposizione (secondo le parole della CGE, "in tutti i casi in cui disposizioni di una direttiva appaiano...incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti d'attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva,..." - sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker c. Finanzamt Munster-Innenstadt -).

La questione che ha determinato il contenzioso dinanzi al giudice di Bologna nasce anche dal fatto che il legislatore italiano, nel trasporre la Direttiva n 2000/78 con il d.lgs. n. 216/2003 e successive modifiche, ha omesso di prevedere norme che applichino integralmente e con portata generale il principio delle soluzioni ragionevoli (reasonable accomodation) per i disabili di cui all'art. 5 della direttiva. Ne consegue che in Italia, allo stato attuale - ed il caso in esame sembra confermarlo- la protezione dei disabili nel settore lavorativo non ha portata generale secondo la nozione comunitaria di disabilità prevista dal diritto comunitario, bensì concerne solo quelli che ottengono lo specifico riconoscimento previsto dalla legge interna n. 68/99 con riferimento alla quote di capacità lavorativa residua inferiore al 55% o al 70% per i disabili da infortunio sul lavoro. Ugualmente, l'obbligo di ragionevole adattamento delle posizioni lavorative alla condizioni dei lavoratori disabili non ha portata generale, così come invece richiesto dalla direttiva 2000/78, bensì riguarda solo taluni datori di lavoro e non concerne tutti gli aspetti della relazione di impiego, incluso quello dell'accesso all'impiego, ovvero della selezione e del reclutamento del personale.

Per tali ragioni, la Commissione europea ha avviato nei confronti della Repubblica Italiana un procedimento di infrazione del diritto UE di fronte alla Corte di Giustizia europea (Caso C- 312/11 dd. 20 giugno 2011, in Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea dd. 30.07.2011 C-226/19, in http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2011:226:FULL:IT:PDF).

Come giustamente rileva il giudice del lavoro di Bologna, il caso in questione solleva la questione dell' incompatibilità della mancata assunzione per accertamento di idoneità lavorativa con prescrizioni - nelle circostanze riassunte del caso - con gli obblighi assunti dall'Italia sulla base della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, in ragione dell'adesione alla medesima da parte del nostro Paese in data 30 marzo 2007 e della successiva ratifica con legge 3 marzo 2009, n. 18 e del fatto che alla suddetta Convenzione ONU ha dato autonoma adesione anche l'Unione europea, per effetto della decisione del Consiglio Europeo del 26 novembre 2009 (G.U. UE 27.1.2010 L/35), e successiva ratifica avvenuta il 23 dicembre 2010.

Ne consegue che la Convenzione ONU non è solo strumento di diritto internazionale pattizio, ma è divenuta parte integrante del diritto dell'Unione europea. Ai sensi dell'art. 216, paragrafo 2 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, risulta che gli accordi internazionali conclusi dall'Unione europea vincolano le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri. Gli accordi internazionali conclusi dall'Unione europea costituiscono, dalla loro entrata in vigore, parte integrante dell'ordinamento giuridico dell'Unione e le norme del diritto dell'Unione derivato devono, pertanto, essere interpretate in maniera per quanto possibile conforme agli obblighi di natura internazionale dell'Unione (Si vedano anche le citate conclusioni dell'Avvocato generale della CGUE presentate il 6.12.2012 nei procedimenti C- 335/11 e C-337/11, paragrafo 26).

Orbene, la Convenzione ONU introduce un concetto 'evolutivo' e preminentemente 'sociale' di disabilità, quale condizione risultante dall'interazione tra durature menomazioni di natura fisica, mentale, intellettuale o sensoriale, delle persone e le barriere attitudinali e ambientali che impediscono l'effettiva partecipazione nella società su basi di eguaglianza con gli altri dei soggetti interessati (Art. 1, paragrafo 2, della Convenzione. Utile rimarcare come la definizione di 'disabilità' della Convenzione ONU sottolinei il carattere di "lunga durata" delle menomazione sofferta, al pari del ragionamento dei giudici di Lussemburgo).

In sostanza, nell'ottica della Convenzione lo svantaggio della persona disabile non scaturisce tanto dalle caratteristiche sanitarie in sé dell'individuo, quanto dall'incapacità delle strutture sociali di adeguarsi alle diverse esigenze del medesimo, per cui costituisce discriminazione fondata sulla disabilità ogni omissione nell'adempimento delle obbligazioni della società a rimuovere con azioni positive e soluzioni ragionevoli (reasonable accomodation) la condizione di minorità sofferta dall'individuo (si veda il punto e) del Preambolo alla Convenzione).

Al pari di quanto sancito dalla direttiva 2000/78, centrale nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è il concetto di 'soluzioni ragionevoli' (reasonable accomodation) che il testo della convenzione indica come «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali». Chiarissima, inoltre, la definizione di discriminazione vietata fondata sulla disabilità data dall'art. 2 della Convenzione, tale da ricomprendere tutte quelle situazioni in cui venga ad essere negata l'applicazione di 'soluzioni ragionevoli' di adattamento alla condizione del disabile : "Discriminazione sulla base della disabilità" indica qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l'effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l'esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole". Ulteriormente si possono citare l' art. 5 c. 3 della Convenzione: "Al fine di promuovere l'eguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti prenderanno tutti i provvedimenti appropriati, per assicurare che siano forniti accomodamenti ragionevoli" e , con specifico riferimento all'ambito lavorativo e dell'occupazione, l'art. 27 c. 1 lett. a) g) e i): "1. Gli Stati Parti riconoscono il diritto delle persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri; ciò include il diritto all'opportunità di mantenersi attraverso il lavoro che esse scelgono o accettano liberamente in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l'inclusione e l'accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l'esercizio del diritto al lavoro, incluso per coloro che hanno acquisito una disabilità durante il proprio lavoro, prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative - in particolare al fine di:

Proibire la discriminazione fondata sulla disabilità con riguardo a tutte le questioni concernenti ogni forma di occupazione, incluse le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego, il mantenimento dell'impiego, l'avanzamento di carriera e le condizioni di sicurezza e di igiene sul lavoro;

(...)

(g) Assumere persone con disabilità nel settore pubblico;

(i) Assicurare che accomodamenti ragionevoli siano forniti alle persone con disabilità nei luoghi di lavoro;".

Come riconosciuto dalla dottrina, le norme della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità sono attributive di diritti soggettivi perfetti azionabili nel diritto interno, in quanto affermerebbero diritti 'inviolabili' ex art. 2 Cost. (Giuseppe Tucci, La discriminazione contro il disabile: i rimedi giuridici, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, n. 129, anno XXXIII, 2011, 1, pag. 1-28).

Ugualmente, le norme della Convenzione, quale strumento di diritto internazionale pattizio costituiscono parametri interposti di legittimità costituzionale delle norme interne, potendo dunque il giudice rinviare al giudizio della Corte costituzionale le norme interne della cui conformità si dubita ovvero procedere ad un'interpretazione costituzionalmente orientata delle medesime (sentenze Corte Cost. n. 348 e 349/2007).

Del resto, la Corte Costituzionale, già con l'ordinanza n. 285/2009 ha fatto accenno alla capacità della Convenzione ONU di fondare diritti soggetti perfetti azionabili sul piano del diritto interno quando ha sottolineato «la pregnanza e specificità dei principî e delle disposizioni introdotti da tale Convenzione», sebbene nel contesto diverso della discriminazione degli stranieri – e dunque fondata sulla nazionalità - nell'accesso ad una prestazione sociale per i minori disabili, quale l'assegno di frequenza di cui alla legge 11 ottobre 1990, n. 289, in collegamento con l'art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000.

Ma c'è di più. L'avvenuta e già citata autonoma adesione dell'Unione europea alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità rende tale strumento parte integrante del diritto dell'Unione europea, con conseguente acquisizione di un rango, sul piano del confronto tra le fonti giuridiche, che ne consentirebbe l'immediata e diretta applicabilità nell'ordinamento interno e conseguente esigenza di un'interpretazione conforme delle norme di diritto interno ovvero della loro disapplicazione, qualora incompatibili. Questo almeno con riferimento a quelle norme della Convenzione che siano sufficientemente incondizionate e precise da ritenersi suscettibili di applicazione diretta (sul tema del rapporto tra le fonti, si veda CGE, IATA c. United Kingdom, sentenza 10 gennaio 2006, causa C-344/04, par. 35-36).

Come affermato recentemente dalla CGE "...l'esigenza di un'interpretazione conforme è (infatti) inerente al sistema del Trattato in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia del diritto dell'Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta". Ove però tale interpretazione conforme non sia possibile il giudice deve comunque "assicurare, nell'ambito delle sue competenze, la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge...senza che gli sia imposto né gli sia vietato di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale" (CGE, sentenza Seda Kucukdeveci c. Swedex gmbh &Co. Kg.,, C-555/07, 19.01.2010).

L'obbligo di interpretazione conforme o di disapplicazione costituisce principio recepito anche dalla nostra Corte Costituzionale che, a far data dalla storica sentenza dell'8 giugno 1984 n. 170 (Granital c. Ministero delle Finanze), ha affermato che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la normativa nazionale, anche posteriore, configgente con le disposizioni comunitarie senza l'obbligo di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale.

L'ordinanza del giudice del lavoro di Bologna pertanto evidenzia le grandi potenzialità, ancora poco sviluppate e praticate nel nostro Paese, insite nella direttiva n. 2000/78 e nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, per un effettivo inserimento lavorativo e sociale delle persone con disabilità.




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