-  Redazione P&D  -  23/06/2011

Cass. pen., sez. V, 16 giugno 2011, n. 24395, Pres. Amato, Rel. Demarchi Albengo -QUANDO IL COLLEGA TI ENEMICO – Donatella CHICCO


Quanto premesso consente a questa Corte di affermare la piena legittimità, sotto il profilo della motivazione, della sentenza impugnata; pur senza addentrarsi nell'esame delle prove, è sufficiente dare una veloce scorsa ai verbali di causa, per comprendere come le censure contenute nel ricorso siano fondate su singoli pezzi della deposizione, estrapolati dal contesto e reinterpretati a tutto comodo della difesa, essendo evidente in una valutazione complessiva e coerente del materiale istruttorio che al R. fu impedito di accedere alla propria stanza, di utilizzare il proprio computer, di accedere alla rete dello studio (e non certamente per problemi di sicurezza, che non erano certo mutati a quel momento) e financo di ritirare i propri effetti personali; il ruolo del C. fu appunto quello di tentare una pacificazione tra le parti, ma la sua deposizione è chiara nell'affermare che l'accordo non fu mai raggiunto e che l'offerta al R. di accedere alla propria stanza fu sempre condizionata alla sottoscrizione dell'accordo che prevedeva il suo recesso volontario ed unilaterale dall'associazione professionale. Anche sul dolo non è dubbio che le condotte dell'imputato furono volontarie e finalizzate ad ottenere, mediante coartazione della volontà del R., il suo recesso. Quanto, infine, alla asserita violazione dell'articolo 610 del codice penale, in relazione alla sussistenza di una violenza idonea ad influire psichicamente sulla vittima, vale la pena di rilevare che la violenza richiesta ai fini del delitto di violenza privata consiste in un'energia fisica che può esercitarsi sulle persone o sulle cose e che può essere realizzata con i mezzi più diversi, la cui idoneità va valutata anche in rapporto alle condizioni fisio-psichiche del soggetto passivo che si intende privare della capacità di autodeterminazione (cfr. Cassazione penale, sez. 1,19 gennaio 1990). Nel caso di specie il R. fu privato della possibilità di proseguire efficacemente nella sua attività lavorativa, con ciò determinando in lui una costrizione psicologica non solo ingiusta e odiosa, ma altresì difficilmente contrastabile




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