-  Redazione P&D  -  04/11/2010

Cass. pen., Sez. IV, 4 novembre 2010, n. 38991 – AMIANTO E COLPA PENALE' – Riccardo RICCÒ


Il riconoscimento di poteri processuali in capo ad enti esponenziali costituisce una novità introdotta nel nostro ordinamento dal codice "Vassalli" per garantire giustiziabilità ad interessi posti in via madiana tra quelli individuali e quelli pubblici.

 

Si tratta degli interessi "diffusi", facenti capo ad una pluralità di soggetti non specificamente individuabili ed inidonei a divenire oggetto di titolarità individuale; nonchè degli interessi "collettivi", facenti capo agli appartenenti ad un determinato gruppo sociale, imputabili alla collettività di riferimento pur rimanendo, però, interessi generali.

 

Poichè non si tratta di interessi di titolarità individuale, il codice di rito consente loro una tutela limitata e subalterna rispetto a quelli della persona offesa : limitata, in quanto non è consentito all'ente esponenziale la costituzione di parte civile non essendo soggetto direttamente danneggiato (arg. ex art. 212 disp. att. c.p.p.); subordinata, in quanto la loro operatività e condizionata dal consenso prestato dalla persona offesa.

 

Nel caso di specie, gli enti di fatto costituitisi parte civile ("Medicina Democratica" e "Camera del Lavoro CGIL"), non hanno fatto ingresso nel processo come enti esponenziali di interessi diffusi o collettivi, bensì agendo "iure proprio" in qualità di soggetti danneggiati dal reato, pertanto a loro non vanno applicate le disposizioni di cui all'art. 91 e segg., ma dell'art. 74 c.p.p..

 

La legittimazione alla costituzione non è inibita dalla circostanza di essere enti di fatto, quindi privi di una vera e propria personalità ma titolari di una mera soggettività.

 

Infatti nel nostro sistema processuale la "legitimatio ad causarti" in sede civile è consentita anche agli enti di fatto come indirettamente si desume dall'art. 75 c.p.c., ove, nel disciplinare la capacità processuale prevede che "Le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate nell'art. 36 c.c. e segg.". La disposizione, attribuendo capacità processuale agli amministratori degli enti di fatto, indirettamente riconosce a questi ultimi la legittimazione ad agire o resistere in giudizio.

 

Peraltro il nostro ordinamento si spinge oltre, laddove ad esempio, riconosce la legittimazione persino al condominio (cfr. art. 1131 c.c.) che non ha soggettività ma è un mero centro di imputazione di interessi.

 

Ne consegue, per quanto detto, che la circostanza di non avere i predetti enti personalità giuridica non è ostativa alla costituzione di parte civile, affermazione questa peraltro già ampiamente condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 3^, 12378/08, Pinzone; Cass. 3^, 38290/07, Abdoulaye).

 

Nè un'ostatività può dedursi dalla circostanza di non essere stati detti enti, in particolare "Medicina Democratica", ancora operativi al momento dei fatti.

 

Sul punto con convincente e logica motivazione, la corte di merito ha osservato che l'associazione "Medicina Democratica" ebbe a costituirsi nel 1978, pur essendo operativa di fatto già negli anni precedenti; pertanto, essendosi consumati i reati in epoca posteriore ed avendo svolto l'ente attività durante il periodo in cui ancora si maturavano le omissioni contestate, sussiste la legittimazione, in quanto il danno vantato si è verificato in costanza della loro attività.

 

Infine, la difesa ha prospettato il difetto di legittimazione sotto altro profilo e cioè l'assenza di un danno diretto.

 

Orbene va ricordato che questa Corte di legittimità ha statuito che gli enti di fatto sono legittimati a costituirsi parte civile non soltanto quando il danno riguardi un bene su cui gli stessi vantino un diritto patrimoniale, ma più in generale quando il danno coincida con la lesione di un diritto soggettivo, come avviene nel caso in cui offeso sia l'interesse perseguito da un'associazione in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, con l'effetto che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione della personalità o identità del sodalizio (Cass. 3^, 38290/07, Abdoulaye).

 

Più in generale il danno ingiusto risarcibile deve essere inteso come quello cagionato "non iure", cioè provocato in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare senza che assume rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo (cfr. Cass. 4, 22558/10).

 

In particolare per quanto attiene al danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), alla luce dell'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (Enti), non può più essere identificato, secondo la tradizionale restrittiva lettura dell'art. 2059, in relazione all'art. 185 c.p., soltanto con il danno morale soggettivo, sicchè, nell'ambito del danno non patrimoniale rientra, oltre al danno morale subiettivo nei casi previsti dalla legge (la sofferenza contingente ed il turbamento dell'animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato), anche ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica (Cass. Civ. 2^, 9861/07).

 

E tale lesione deve essere riconosciuta come possibile anche in danno delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi, pregiudizio non patrimoniale, che non coincide con la "pecunia doloris" (danno morale), bensì ricomprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione (Cass. Civ. 3^, 29185/08).

 

Nel caso di specie gli enti costituiti parte civile avevano ed hanno come oggetto della loro attività la tutela dei lavoratori, anche sotto il profilo della dignità e della salute ("Medicina Democratica" l'ha evidenziato nella stessa ragione sociale). Pertanto ogni condotta del datore di lavoro idonea a ledere la salute dei lavoratori, soprattutto nei casi in cui ciò si verifica in modo reiterato (es. pluralità di decessi) e in conseguenza di condotte riconducibili a sistematiche e radicate violazione delle norme di sicurezza e di igiene sul lavoro, determina, un danno diretto all'Ente. Esso può essere sia economico, per le eventuali diminuzioni patrimoniali conseguenti alla riduzione delle adesioni dei lavoratori per il venir meno della fiducia nella capacità rappresentativa dell'istituzione; sia danno non patrimoniale per la lesione dell'interesse statutariamente perseguito di garantire la salute dei lavoratori nell'ambiente di lavoro, presidiato costituzionalmente dagli artt. 2 e 32 Cost..

 

Tali affermazione non stridono con la pronuncia delle SS.UU. di questa Corte 6168/88 (imputato lori), in quanto detta sentenza, risalente al 1998, non poteva tener conto della evoluzione della nozione di danno non patrimoniale e, quindi, delle conseguenti ricadute in termini di legittimazione processuale; ed inoltre perchè il caso oggetto del processo era costituito da un singolo decesso (determinato dalla colposa violazione delle norme antinfortunistiche) e non da una pluralità di decessi in correlazione ad una sistematica e stabile carenza di rispetto delle norme di sicurezze ed igiene sul lavoro, circostanze queste idonee mettere in dubbio la idoneità degli Enti rappresentativi dei lavoratori a garantire la loro tutela nei diritti essenziali, con conseguente danno per dette organizzazioni.

 

 

11. La posizione di garanzia degli imputati.

 

Tutti gli imputati, sotto vari profili, hanno contestato di avere assunto una posizione di garanzia in relazione ai fatti oggetto delle imputazioni.

 

Va premesso che l'accusa formulata con l'esercizio dell'azione penale è caratterizzata, dal punto di vista oggettivo da una condotta omissiva che ha determinato gli eventi letali e quindi, il processo causale è identificato in quella clausola estensiva della tipicità oggettiva costituita dal secondo comma dell'art. 40 c.p., (reato omissivo improprio). Più in avanti si discorrerà approfonditamente sulla causalità omissiva, in questa sede è opportuno ricordare che per attribuire ad una condotta omissiva umana una efficacia casuale, è necessario che l'agente abbia in capo a sè la c.d. "posizione di garanzia" e che cioè, in ragione della sua prossimità con il bene da tutelare, sia titolare di poteri ed obblighi che gli consentono di attivarsi onde evitare la lesione o messa in pericolo del bene giuridico la cui integrità egli deve garantire (secondo comma dell'art. 40 c.p.: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo"). La rado della disposizione va ricercata nell'intenzione dell'ordinamento di assicurare a determinati beni giuridici una tutela rafforzata, attribuendo ad altri soggetti, diversi dall'interessato, l'obbligo di evitarne la lesione e ciò perchè il titolare non ha il completo dominio delle situazioni che potrebbero mettere a rischio l'integrità dei suoi beni. Poichè l'obbligo di impedimento concorre alla individuazione del fatto tipico, la ricerca della posizione di garanzia deve tenere conto delle esigenze del rispetto del principio di legalità. Tale esigenza viene talora garantita attraverso il richiamo a norme di contenuto generale, quali ad es. l'art. 2043 c.c., (che codifica il principio del "neminem ledere") o l'art. 2087 c.c., (che fa gravare sul datore di lavoro il generale obbligo di sicurezza a favore dei lavoratori), lasciando poi al giudice il compito di concretizzare gli obblighi specifici. Talora l'individuazione della posizione di garanzia viene affidata alla normazione secondaria, che spesso prevede norme di comportamento contenenti specifici obblighi.

 

La dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato tre teorie volte ad individuare la posizione di garanzia.

 

Secondo una teoria ed. "formale" la fonte dell'obbligo giuridico andrebbe ricercata nella legge (penale o extrapenale; con l'aggiunta della consuetudine), o nel contratto (non escludendo la negotiorium gestio), ovvero in una precedente azione pericolosa che impone di attivarsi per eliminare la situazione di pericolo creata. Il limite di tale orientamento è costituito dal fatto che potrebbe determinare la responsabilità sulla base della mera violazione dell'obbligo, senza valutare se esso fosse funzionalmente preordinato ad evitare l'evento. Secondo altra teoria, ed. "funzionale", superando il dogma della giuridicità della fonte degli obblighi di garanzia, vi sarebbero dei criteri di identificazione di natura materiale desumibili dalle specifiche funzioni in concreto svolte dall'agente, titolare di un potere di signoria sulle condizioni essenziali per il verificarsi dell'evento. In tali ipotesi, la "copertura" normativa viene garantita da norme di contenuto generale, quali l'art. 2 Cost., (doveri di solidarietà sociale) o l'art. 32 Cost. (tutela della salute).

 

Va osservato che l'accoglimento di tale teoria, affida la selezione della garanzia a criteri funzionali, di discrezionale interpretazione, con rischio di violazione del principio di legalità ed, in particolare, di determinatezza della fattispecie.

 

E' stata pertanto elaborata un'ulteriore teoria che può essere definita "mista", oggi prevalente, che, integrando le due precedenti, pretende che: la fonte dell'obbligo sia legislativamente determinata, salva la possibilità meramente integrativa della normazione secondaria; che la fonte possa anche essere rinvenuta nel contratto in ragione del richiamo all'art. 1372 c.c. ("Il contratto ha forza di legge tra le parti"); che l'obbligo sia destinato finalisticamente a proteggere ed impedire l'evento lesivo.

 

Riassumendo, perchè nasca una posizione di garanzia, è necessario che: vi sia un bene giuridico che necessiti di protezione e che da solo il titolare non è in grado di proteggere; che una fonte giuridica (anche negoziale) abbia al finalità della sua tutela; che tale obbligo gravi su una o più specifiche persone; che queste ultime siano dotate di poteri impeditivi della lesione del bene che hanno "preso in carico".

 

Invero, i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante, è sufficiente che gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari per evitare che l'evento dannoso venga cagionato, per la operatività di altri elementi condizionanti di natura dinamica.

 

12. (segue): Gli orientamenti della giurisprudenza.

 

Come già ribadito in un recente pronuncia di questa Corte di legittimità (Cass. 4^, 16761/2010, Basile ed altri), la giurisprudenza non sempre ha seguito un univoco indirizzo, più volte affermando che la posizione di garanzia può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr. Cass., sez. 4^, 22 ottobre 2008 n. 45698, Fonnesu, rv. 241759-60, con riferimento al caso dell'ospite di un albergo annegato nel corso di un bagno in piscina in orario in cui non era garantita l'assistenza; 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone, rv. 217904; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco, rv. 197354; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari, rv. 212144; 20 aprile 1983 n. 9176, Bruno, rv.

 

160997). In particolare la giurisprudenza di legittimità ha spesso integrato i criteri sostanziali e formali e, oltre a ritenere ovviamente consentito il sorgere di una posizione di garanzia in base al contratto, ha altresì ritenuto sufficiente a fondare l'esistenza di una posizione di garanzia anche l'assunzione volontaria ed unilaterale di compiti di tutela al di fuori di un preesistente obbligo giuridico con la "presa in carico" del bene accrescendone la possibilità di salvezza. Si sono fatti gli esempi dei vicini di casa che si prendono cura di un bambino in assenza dei genitori o dei volontari del pronto soccorso che assistono un ferito in stato di incoscienza (si veda, su questi o analoghi temi, Cass., sez. 4^, 22 maggio 2007 n. 25527, Conzatti, rv. 236852).

 

Peraltro, l'assunzione della posizione di garanzia in base ad un'assunzione di fatto di poteri inerenti obblighi di tutela è adesso normativamente prevista, in tema di sicurezza sul lavoro, nel caso di chi, pur sprovvisto di formale investitura, "esercita in concreto i poteri giuridici riferiti" al datore di lavoro, al dirigente e al preposto (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 299).

 

13. (segue): Il potere impeditivo.

 

Ciò premesso va ricordato che la posizione di garanzia può essere distinta in : "obbligo di protezione" di uno specifico bene da qualsiasi possibile pericolo che ne attenti l'integrità; "obbligo di controllo" in relazione a determinate fonti di pericolo, per la tutela di tutti i beni che potrebbero essere offesi.

 

In particolare, l'obbligo di controllo è ricollegato ad una concreta prossimità del garante con il bene in ragione della signoria che egli abbia in ordine a situazioni potenzialmente pericolose, connesse a suoi poteri di organizzazione e di comando.

 

Secondo parte della dottrina, gli obblighi di garanzia non vanno confusi con gli "obblighi di sorveglianza", i quali comportano per chi ne è onerato, solo un compito di vigilanza sulle situazioni di pericolo, ma non un compito impeditivo (es. i sindaci di una s.p.a. in ordine a taluni loro compiti di sola sorveglianza). Ne consegue che la titolarità di una mera posizione di sorveglianza non è idonea a far sorgere l'obbligo di impedire l'evento. Tale orientamento, nella sua radicale formulazione non può essere condiviso, richiamando quanto già esposto nella citata sentenza di questa Corte 16761X2010. Invero, la posizione di garanzia richiede l'esistenza di poteri impeditivi che, però, possono anche concretizzarsi in obblighi diversi e di minore efficacia, rispetto a quelli direttamente e specificamente volti ad impedire il verificarsi dell'evento. Del resto nella gran parte dei casi i garanti non dispongono sempre e in ogni situazione di tutti i poteri impeditivi che invece di volta in volta si modulano sulle situazioni concrete.

 

Pertanto è sufficiente che egli ponga in essere quelli da lui esigibili. A titolo esemplificativo, la madre il cui figlioletto sta annegando non è tenuta a soccorrerlo se non sa nuotare, ma ciò non la esime certo dal chiamare i soccorsi; e così il medico che, nel corso di una terapia o di un intervento chirurgico, si rende conto di non essere in grado di affrontare un problema imprevedibile non va esente da responsabilità se non chiede l'intervento dello specialista che questo problema è in grado di affrontare.

 

In conclusione può affermarsi che un soggetto è titolare di una posizione di garanzia, se ha la possibilità, con la sua condotta attiva di influenzare il decorso degli eventi indirizzandoli verso uno sviluppo atto ad impedire la lesione del bene giuridico da lui preso in carico.

 

E' necessario, pertanto, nel caso di specie, valutare se gli imputati, disponevano o meno dei poteri impeditivi dell'evento, nell'accezione sopra fornita.

 

14. (segue): gli amministratori delegati ed i componenti del consiglio di amministrazione.

 

Questa Corte in plurime sentenze, ha già avuto modo di statuire che nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione (Cass. 4^, 6280/2007, Mantelli).

 

Infatti, anche di fronte alla presenza di una eventuale delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poichè non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega.

 

In una fattispecie analoga a quella oggetto di giudizio, relativa ad impresa il cui processo produttivo prevedeva l'utilizzo dell'amianto e che aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, si è ritenuto che, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione e dunque per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento -per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali. Ciò è in perfetta sintonia con quanto previsto dall'art. 2392 c.c., in tema di s.p.a. e vigente all'epoca dei fatti. Tale disposizione, nel prevedere che gli amministratori nella gestione della società devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo, stabilisce che anche se taluni compiti sono attribuiti ad uno o più amministratori, gli altri componenti "sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione...".

 

In sostanza, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione. Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi si vigilanza ed intervento sostitutivo.

 

In definitiva, anche in presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro.

 

Nel caso di specie, come si evince dalla contestazione e dalle emergenze della istruttoria dibattimentale esposte nelle sentenze di merito, la violazione della disposizioni sull'igiene del lavoro erano talmente gravi, reiterate e "strutturali", da richiedere decisioni di alto livello aziendale non delegabili e proprie di tutto il consiglio di amministrazione ed, in ogni caso, che non sottraevano i suoi componenti da obblighi di sorveglianza e denuncia.

 

Se ciò vale per i singoli componenti del consiglio, a maggior ragione la posizione di garanzia rimane radicata il capo all'amministratore delegato od al componente del comitato esecutivo.

 

Ne consegue da quanto detto, che tutti gli imputati, i quali hanno rivestito la carica di consiglieri, presidenti o amministratori delegati del consiglio di amministrazione della Montefibre, hanno assunto una posizione di garanzia, idonea renderli responsabili delle conseguenze relative al mancato rispetto delle norme sull'igiene del lavoro.

 

Analoga posizione l'hanno assunta coloro che hanno rivestito al carica di consiglieri di amministrazione della S.I.N. (Società Italiana Nailon), a cui la Montefibre aveva conferito le attività produttive delle fibre poliammidiche e le cui strutture erano collocate nell'ambito degli stabilimenti della Montefibre.

 

Infine, a fronte della circostanza che nelle cariche sociali gli imputati si sono succeduti nel tempo, va ribadito quanto già più volte affermato da questa Corte di legittimità e che cioè, in caso di successione di posizioni di garanzia, in base al principio dell'equivalenza delle cause, il comportamento colposo del garante sopravvenuto non è sufficiente ad interrompere il rapporto di causalità tra la violazione di una norma precauzionale operata dal primo garante e l'evento, quando tale comportamento non abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente determinata (ex plurimis, Cass. 4^, 27956/08, Stefanacci).

 

15. (segue): il direttore di stabilimento.

 

Quanto alla posizione dei direttori di stabilimento, va osservato che costoro, in quanto dirigenti, erano gravati da una posizione di garanzia derivante dal disposto del D.P.R. n. 547 del 1956, art. 4, (in materia di infortuni sul lavoro) ed D.P.R. n. 3030 del 1956, art. 4, (in materia di igiene sul lavoro), ove è previsto che i dirigenti devono attuare le misure di sicurezza e di igiene e fornire ai lavoratori i mezzi necessari di protezione, oltre che renderli edotti dei rischi specifici a cui sono esposti. Inoltre, in quanto presenti in stabilimento, erano coloro che avevano maggiore prossimità con i beni giuridici da tutelare e garantire (cfr. Cass. 4^, 12758/1980, Lorenzini; Cass. 4^, 7404/1981, Sestieri; Cass. 4^, 9234/1983, Diandra; Cass. Sez. Un., 6168/1989, lori; Cass. 4^, 5835/1991, Invernicci).

 

Ne consegue che in quanto titolari di poteri di vigilanza ed attuazione delle misure di sicurezza ed igiene, nonchè impeditivi anche a costo di interrompere l'attività produttiva (cfr. Cass. 4^, 38009/2008, Pennacchietti), avevano una posizione normativa e funzionale di garanzia dell'incolumità dei lavoratori operanti nell'azienda.

16. (segue) : la posizione di garanzia in relazione agli operai trasferiti alla "TABAN".

 

Gli imputati gravati dei decessi degli operai ma., mo. e ca., hanno lamentato la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione alla affermata sussistenza di una posizione di garanzia relativamente a tali operai, passati alle dipendenze della s.p.a. TABAN il 17/4/1975, prima che essi imputati assumessero cariche sociali nella Montefibre o nella S.I.N. : non avendo la qualità di datore di lavoro e non avendo compiuto condotte di ingerenza nell'attività della TABAN, non aveva una formale (o di fatto) posizione di garanzia in relazione ai predetti operai deceduti.

 

Sul punto l'impugnata sentenza non palesa alcun vizio.

 

Invero il giudice di merito, con coerente e logica motivazione, insindacabile in questa sede, ha evidenziato che:

 

- il passaggio dalla Montefibre alla TABAN (con trasferimento degli operai addetti), ebbe a riguardare solo la centrale termica e la centrale elettrica dello stabilimento di (omissis) (oltre a delle particelle di terreno). Pertanto la TABAN non svolgeva alcuna autonoma attività industriale.

 

- Tale società era di fatto controllata dalla Montefibre, tanto vero che l'ing. Po. era stato contemporaneamente direttore dello stabilimento Montefibre di (omissis) (dal 1976 al 1983) e direttore generale della TABAN (dal 1980 al 1983). Inoltre, l'ing. To.

 

R., alle dipendenze del presidente del consiglio di amministrazione della Montefibre, faceva parte del C.d.A. della TABAN. Infine, dall'ordine di servizio n. 399 del 10/7/01 emergeva che il direttore della divisione filo nailon della Montefibre, coordinava direttamente l'attività della TABAN. - La commistione dei luoghi di lavoro delle due società, determinava in ogni caso la contaminazione anche dei locali gestiti dalla TABAN e pertanto non escludeva la posizione di garanzia di coloro che avevano cariche nella Montefibre.

 

In relazione a tale ultimo punto va osservato che, una volta che con le proprie condotte omissive si è determinata l'insorgenza di una fonte di pericolo, la posizione di garanzia si mantiene non solo per i danni che possono essere provocati ai propri dipendenti, ma anche ai terzi che frequentano le strutture aziendali (cfr. Cass. 4^, 11356/93, Cocco).

 

In proposito si richiama la giurisprudenza di questa Corte laddove è stata riconosciuta la sussistenza della posizione di garanzia del datore di lavoro, che aveva omesso di adottare le misure di sicurezza necessarie previste dalla legge, per la morte della moglie di un lavoratore, addetto ad operazioni comportanti esposizioni ad amianto, che aveva provveduto alla pulizia degli indumenti del marito (cfr. motivazione della sentenza Cass. 4^, 27975/03, Eva).

 

 

 

Tralasciando per ora la trattazione dell'elemento soggettivo del reato, che pare il nucleo essenziale della doglianza difensiva, ed affrontando la problematica della rilevanza dei valori-soglia, va ricordato che questa Corte di legittimità ha avuto già in passato modo di affermare, in tema di amianto, che "L'obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino predeterminati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti (Cass. 4^, 3567/2000, Hariolf). Si è osservato che nell'attuale contesto legislativo italiano non v'è spazio per una interpretazione del concetto dei valori-limite come soglia a partire dalla quale sorga per i destinatari dei precetti l'obbligo prevenzionale nella sua dimensione soggettiva e oggettiva, giacchè ciò comporterebbe inevitabili problemi di legittimità costituzionale, che è implicita e connaturata all'idea stessa del valore-limite una rinuncia a coprire una certa quantità di rischi ed una certa fascia marginale di soggetti, quei soggetti che, per condizioni fisiche costituzionali o patologiche, non rientrano nella media, essendo ipersensibili o ipersuscettibili all'azione di quel determinato agente nocivo, ancorchè assorbito in quantità inferiori alle dosi normalmente ritenute innocue. Pertanto i valori-limite vanno intesi come semplici soglie di allarme, il cui superamento, fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente realizzabili per eliminare o ridurre al minimo i rischi, in relazione alle conoscenze, acquisite in base al progresso tecnico, comporti l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione diretto a limitare la durata dell'esposizione degli addetti alle fonti di pericolo. Questo orientamento è stato avallato in altre pronunce di questa Corte, laddove è stato anche affermato che la mancata individuazione della soglia di esposizione all'amianto (individuazione peraltro oramai impossibile) non era idonea ad infirmare la correttezza del ragionamento del giudice di merito secondo cui un significativo abbattimento dell'esposizione avrebbe comunque agito positivamente sui tempi di latenza o di insorgenza delle malattie mortali (cfr. Cass. 988/03, Macola); nonchè laddove è stato affermato che in caso di morti da amianto, il datore di lavoro ne risponde, anche quando pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (Cass. 4^, 5117/08, Biasotti).

 

Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha evidenziato come dalle dichiarazioni dei consulenti e, soprattutto, dalle deposizioni delle persone che avevano lavorato nello stabilimento di (omissis), era emerso che, come già ricordato, le modalità di utilizzo dell'amianto erano state massicce e prive dell'adozione di cautele, con la conseguente possibilità di inalazione in tutti gli ambienti di lavoro senza particolari attenzione al rispetto del superamento di soglie limite.

 

Inoltre, come già detto, sebbene verso la seconda metà degli anni settanta si era fatta largo una maggiore sensibilità in ordine alla problematiche sulla salute dei lavoratori, il processo di ammodernamento fu lento tanto vero che anche negli anni successivi l'amianto era ancora presente in azienda, come accertato nel 1996, in sede di trasferimento di una parte degli impianti alla soc. ACETATI che ebbe a presentare nel 1997 un piano di messa in sicurezza e di rimozione di tutte le coibentazioni contenenti amianto. Ad avvalorare tali circostanze, lo stesso consulente del P.M. aveva dichiarato che ancora nel 2002 nello stabilimento di (omissis) vi era ancora una significativa presenza di amianto.

 

 

19. I reati omissivi impropri.

 

Come già detto i delitti contestati agli imputati sono connotati da una condotta eminentemente omissiva. E' noto i reati omissivi possono essere suddivisi in due categorie: "propri", in cui il reato si consuma con la mera omissione della condotta dovuta (es. art. 365 c.p.) ed "impropri" nei quali all'omissione consegue un evento di tipo naturalistico. Nei reati omissivi impropri (come quelli di omicidio colposo dei quali ci si occupa) la problematica della causalità è particolarmente complessa perchè, è necessario valutare l'efficacia eziologica di un nihil e cioè di una azione non compiuta che, quindi, sul piano fenomenico, nulla avrebbe dovuto poter determinare.

 

Senonchè è lo stesso legislatore ad attribuire efficacia causale alla omissione, attraverso il disposto dell'art. 40 c.p., comma 1, laddove la imputazione oggettiva dell'evento è ricollegata indifferentemente sia all'azione che all'omissione; nonchè nel disposto del secondo comma, ove viene codificata una clausola di equivalenza tra azione ed omissione "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". E' per tale motivo che la causalità omissiva si ritiene abbia natura normativa, e non naturalistica.

 

Come osservato da autorevole dottrina, i reati omissivi impropri possono avere diversa tipizzazione. In alcuni casi è lo stesso legislatore a prevedere quale sia la condotta omissiva idonea a determinare l'evento (es. art. 437 c.p., comma 2: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro).

 

In altri casi la norma incriminatrice è "a forma aperta", cioè dopo aver determinato il bene giuridico da tutelare, la condotta aggressiva viene volutamente descritta in maniera indeterminata, in modo tale da proteggere il bene da qualsiasi forma di aggressione, quindi anche da condotte omissive (es. l'art. 575 c.p., ove è punito il "cagionare" la morte). Infine, una terza ipotesi la potremmo definire di estensione della tipicità oggettiva, laddove ad un reato di azione che prevede per la consumazione un evento, in virtù della clausola di equivalenza prevista dall'art. 40 c.p., comma 2, si aggiunge una corrispondente ipotesi a condotta omissiva. Per tali casi sorgono seri dubbi di compatibilità costituzionale, in ragione del rischio di violazione del principio di legalità e di tipicità.

 

E' per tale motivo che si ritiene dovere ascrivere alla categoria dei reati omissivi impropri quelli in cui l'omissione causalmente efficiente è esplicitamente indicata nella norma incriminatrice;

 

nonchè quelli "a forma aperta" (anche detti "a condotta libera" o "causalmente orientati"), ove si da prevalenza nel fatto tipico alla descrizione della lesione del bene piuttosto che alle modalità di aggressione, con il chiaro intento di proteggere un bene primario da qualsiasi potenziale pericolo.

 

In tale ultima ipotesi, al fine di garantire il rispetto del principio di legalità, l'attenzione dell'interprete deve essere indirizzata alla individuazione dell'effettiva esistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento, in modo tale da determinare una sua tipizzazione senza lasciare spazio ad eccessive generalizzazioni con pericolo di smarrimento della tipicità del fatto.

 

Tirando le somme, la tematica dei reati omissivi impropri impone preliminarmente di individuare tra le varie omissioni, quelle ricollegabili ad obblighi giuridici che impongono di agire con finalità impeditive dell'evento dannoso; in secondo luogo impone di valutare, la concreta efficienza eziologica della omissione.

 

Quanto alla prima problematica, si richiama quanto già esposto nella parte relativa alla "posizione di garanzia". Necessita ora affrontare la tematica delle modalità di accertamento della effettiva causalità della omissione.

 

20. (segue): la causalità omissiva.

 

Il nesso causale è il legame necessario che deve intercorrere tra la condotta umana e l'evento. In diritto penale si pretende che il reo abbia contribuito materialmente alla verificarsi del risultato dannoso. E' quindi criterio di "imputazione oggettiva" del fatto al soggetto, non solo la ascrivibilità a lui della condotta, ma anche che il risultato lesivo sia "opera" dell'agente.

 

In tale ricerca è compito del giudice penale prendere atto che un evento non può che essere il frutto di una pluralità di condizioni (per la maggior parte naturali) e successivamente valutare se la condotta umana da indagare sia stata una condizione necessaria dell'evento.

 

A tal fine il giudice è chiamato a svolgere un giudizio "controfattuale" ipotetico e cioè contrario alla realtà come realizzatasi: dovrà valutare se, eliminando la condotta umana posta in essere, l'evento si sarebbe o meno realizzato. Se esso non si sarebbe realizzato, risulta dimostrato che la condotta umana ha avuto efficienza causale nel modificare la realtà e quindi a produrre l'evento.

 

Poichè il giudizio da svolgere è ipotetico, è necessario per il giudice utilizzare dei criteri scientifici onde valutare la regolarità degli accadimenti a fronte di determinate condotte umane.

 

Tralasciando in questa sede l'analisi storica della evoluzione di tale tematica e, quindi, i riferimenti alle varie teorie elaborate, si deve ricordare che gli approdi più recenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di nesso causale aderiscono alla ed. "teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche", secondo cui un antecedente è condizione necessaria di un evento, se rientra nel novero di quegli antecedenti che, secondo una successione regolare, conforme ad una legge dotata di validità scientifica (c.d. legge generale di copertura) determina il verificarsi di quegli accadimenti. Tale teoria, essendo ancorata a leggi scientifiche generali, consente di individuare i rapporti di successione "regolare" tra azione ed evento, inteso quest'ultimo non come vicenda unica, ma ripetibile ("spiegazione causale generalizzante", finalizzata al rispetto di ineludibili esigenze di garanzia).

 

Le leggi scientifiche sono : "universali", se spiegano la verificazione dell'evento in termini di certezza senza eccezioni;

 

"statistiche", che spiegano il ricollegarsi di un evento ad una determinata condizione solo in termini di percentualistici.

 

In proposito va ricordata quella giurisprudenza che, in passato, ha ritenuto che "il rapporto di causalità deve essere accertato avvalendosi di una legge di copertura, scientifica o statistica, che consenta di ritenere che la condotta, con una probabilità vicina alla certezza, sia stata causa di un determinato evento....con coefficienti percentualistici vicino a cento o quasi cento" (cfr. Cass. 4^, 14006/2001, Di Cintio).

 

Tale orientamento rispondeva all'esigenza di dare una spiegazione casuale compatibile con il principio del "oltre ogni ragionevole dubbio".

 

Ma la impossibilità di disporre di leggi universali e la difficoltà concreta di poter sempre dare risposte probabilistìche con percentuali vicine alla certezza, ha condotto, soprattutto la giurisprudenza, ad elaborare un nuovo criterio di identificazione causale che, senza abbandonare la copertura delle leggi scientifiche, valorizza anche la probabilità logica, distinguendo appunto tra "probabilità statistica" e "probabilità logica": la prima riferita al "tipo" di evento; la seconda riferita al singolo "evento concreto" (c.d. "causalità individuale").

 

In breve, la probabilità "statistica" indica il grado di frequenza con cui ad un antecedente segue una conseguenza; la probabilità "logica", premessa la presenza di una legge statistica, indica nel caso concreto se con procedimento logico induttivo, sia da escludere la presenza di fattori causali alternativi idonei a produrre l'evento.

 

Sul punto è illuminante la nota sentenza "Franzese" delle Sezioni Unite di questa Corte, ove è stabilito che "Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (sent. n. 30328/2002, Franzese).

 

Le Sezioni Unite, in sintesi, emancipano la identificazione del nesso causale dalla ricerca di un sempre più alto coefficiente statistico di probabilità dell'evento, ancorando la ricerca alla presenza della legge statistica ed alla assenza di fattori causali alternativi.

 

Come già ricordato in altre pronunce di questa Corte (cfr. Cass. 4^, 988/03, Macola; Cass. 4^, 4675/07, Baratalini), in quest'ottica, secondo la sentenza delle SS.UU. citata, non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 100, cioè alla "certezza", quanto all'efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento.

 

Le sezioni unite da questa considerazione traggono la conclusione che la "certezza processuale" del nesso causale può derivare anche dall'esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso concreto di altri fattori interagenti. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è consentito dedurre automaticamente - e proporzionalmente - dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell'ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità.

 

E' inadeguato, infatti, secondo la citata sentenza l'utilizzo di coefficienti numerici, mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite hanno condiviso quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla ed. "probabilità logica" che, rispetto alla ed.

 

"probabilità statistica, consente la verifica aggiuntiva dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica al singolo specifico evento. Solo con l'utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull'esistenza del rapporto di causalità in modo simile all'accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 c.p.p., comma 2, al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta dell'imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell'evento, attribuibile per ciò all'agente come fatto proprio.

 

La causalità omissiva, come già detto, presenta aspetti ancora più problematici, in quanto basata su una ricostruzione ancorata ad ipotesi e non su certezze.

 

Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale ("contro i fatti" : se la condotta omessa fosse stata tenuta, si sarebbe impedito il prodursi dell'evento?) al quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è in talune ipotesi (non sempre però:

 

si pensi alla responsabilità medica) verificabile. In caso di omissione, si è detto, il rapporto si instaura tra un'entità reale (l'evento verificatosi) e un'entità immaginata (la condotta omessa) mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.

 

La giurisprudenza ha precisato che, proprio perchè nei reati omissivi si è in presenza di un "nulla", "la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l'evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto" (Cass., sez. 4^, 21597/2007, Pecchioli).

 

In breve, in tali casi il giudice è chiamato a valutare se il comportamento omesso avrebbe o meno impedito il verificarsi dell'evento, ma al contrario della causalità dell'azione, in caso di omissione il ragionamento deve partire da un dato che non esiste nella realtà e cioè ipotizzare come avvenuta la condotta non tenuta, per poi valutare, con giudizio controfattuale, la sua efficacia impeditiva: è per tale motivo che in tema di causalità omissiva si discorre di giudizio doppiamente ipotetico.

 

Nel prosieguo verrà valutata l'attendibilità o meno del ragionamento ricostruttivo della causalità, svolto dal giudice di merito, relativamente ai decessi per asbestosi e per mesotelioma pleurico.

 

 

Nel tempo si sono prospettate in tema di colpa due orientamenti dottrinari : uno soggettivo, l'altro oggettivo.

 

Le teorie soggettive, colgono la sola dimensione psicologica della colpa; alcuni indirizzi interpretativi la intendono come volontà negativa, incosciente, difettosa, imperfetta; altri identificano la colpa in un vizio intellettivo; altre impostazioni, infine, ritengono che la colpa presupporrebbe un errore, cioè si avrebbe imputazione colposa quando il soggetto è indotto a commettere il reato sulla base di una falsa rappresentazione.

 

Tali impostazioni sono oramai superate; la prima perchè pecca di manifesta artificiosità; la seconda perchè trascura la possibilità che vi sia colpa anche quando c'è previsione; la terza perchè realizza un'inversione dogmatica dei termini del problema: ed infatti, è la colpa il fondamento della rilevanza dell'errore e non l'errore il fondamento della sussistenza della colpa.

 

Nell'ambito delle teorie oggettive, occorre distinguere quelle che identificano la colpa nella violazione di un dovere di attenzione e quelle che fanno leva solo sull'inosservanza delle regole cautelari di condotta.

 

Entrambe le tesi non sono esaustive perchè colgono la esclusiva essenza normativa della colpa e non anche la sua dimensione soggettiva. Ed infatti, sia l'inosservanza del dovere di attenzione, sia della regola cautelare, danno luogo all'imputazione colposa, ma solo nei casi in cui l'osservanza era esigibile dall'autore.

 

Oggi può dirsi prevalente la teoria che potremmo definire "mista" e che coglie una duplice dimensione della colpa: oggettiva, per la necessità che vi sia l'inosservanza di regole cautelari di condotta;

 

soggettiva, necessitando la valutazione della prevedibilità ed evitabilità dell'evento.

 

La natura prevalentemente normativa della colpa presuppone, come detto, la violazione di regole cautelari. Esse possono essere espressamente codificate, dando vita in tal caso alla c.d. colpa specifica; ovvero possono essere il frutto di sedimentate esperienze di vita sociale e la cui violazione (per negligenza, imperizia ed imprudenza) darà luogo alla c.d. colpa generica.

 

Poichè le regole cautelari hanno la finalità di prevenire pericoli di lesione di beni giuridici, può farsi una ulteriore distinzione :

 

se hanno carattere assolutamente impeditivo, sono definite "proprie";

 

se la loro finalità è quella di diminuire la probabilità di eventi dannosi, sono definite "improprie". In materia di prevenzione di malattie professionali, le regole cautelari sono eminentemente improprie.

 

Nel caso che ci occupa, la sentenza impugnata indica come principale regola cautelare violata, il D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, che nel primo comma, dispone che "Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare ì provvedimenti atti ad impedirne o a ridurle, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro".

 

Secondo la difesa tale disposizione non costituisce una norma cautelare mirante a prevenire malattie, ma solo l'inalazione di polveri moleste e fastidiose.

 

Tale riduttiva interpretazione non è condivisibile, in ragione di argomenti sistematici. Invero la norma in questione è calata in un D.P.R. che ha lo scopo di garantire l'igiene del luogo di lavoro, non per mere finalità estetiche o di conforto, ma per garantire la salute dei lavoratori.

 

Di ciò vi è riscontro nell'art. 4 del Decreto, laddove in via generale sono previsti gli obblighi dei datori di lavoro ed in particolare di attuare le misure di igiene; di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti;

 

nonchè di fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione.

 

Tali obblighi sono evidentemente correlati a concreti pericoli per la salute, che le regole cautelari contenute nella normativa, mirano a prevenire.

 

Un ulteriore riscontro è contenuto nell'art. 33, del medesimo D.P.R. laddove sono previste periodiche visite mediche per i lavoratori, evidentemente finalizzate a scongiurare rischi alla salute e non meri fastidi.

 

Nel capo di imputazione, sono inoltre enumerate altre violazioni di regole cautelari, riscontrate sussistenti dalla corte di merito, relative alle modalità di utilizzo dell'amianto senza cautele ed inoltre la negligenza, imprudenza ed imperizia per la violazione dell'art. 2087 c.c., il quale prevede che "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

 

Sul punto va osservato che per valutare se l'agente, in caso di colpa generica, abbia rispettato le regole della diligenza, prudenza e perizia, è necessario stabilire il livello di diligenza che da lui era esigibile. In tal caso si deve fare riferimento al concetto di "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), sul presupposto che se un soggetto intraprende una attività, soprattutto se pericolosa, ha il dovere di informarsi dei rischi ed ha l'obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza pericoli.

 

Non esiste un unico tipo di "agente modello", ma esso va rapportato alle singole attività da svolgere.

 

Sul punto la Corte di appello ha con coerente motivazione evidenziato che un gruppo industriale di primaria importanza come quello che gestiva lo stabilimento di (omissis) (e pertanto i suoi vertici dirigenziali), non poteva non essere a conoscenza della pericolosità dell'utilizzo dell'amianto e delle regole cautelari necessarie per garantire il suo uso con minimi rischi ed in ogni caso aveva il dovere di informarsi circa le più evolute metodologie di lavoro compatibili con la tutela della salute di lavoratori.

 

Come detto, la oggettiva violazione della regola cautelare da sola non basta ad intergare la colpa penalmente rilevante, essendo necessaria la prevedibilità dell'evento che fornisce una connotazione soggettiva e non solo normativa a tale elemento costitutivo del reato.

 

Perchè versi in colpa è necessario quindi che l'agente non solo violi una norma cautelare, ma che possa prevedere (con valutazione effettuate ex ante) che detta violazione possa provocare un determinato evento.

 

Il problema che si pone è stabilire quale sia il parametro a cui rifarsi per valutare la prevedibilità. Anche in tal caso il punto di riferimento è la figura dell'agente modello, ribadendo però che questi non è l'uomo medio, ma la pretesa della sua diligenza deve essere rapportata al tipo di attività da svolgere ed all'onere, come nel caso che ci occupa, di informarsi sulle più recenti acquisizioni scientifiche.

 

Su tale punto i difensori degli imputati hanno evidenziato che all'epoca della commissione dei fatti (per la maggior parte degli imputati, gli anni '70), non era prevedibile che l'inalazione di fibre di amianto potesse esporre al rischio morte (soprattutto per mesotelioma pleurico, ma l'argomento è stato utilizzato anche con riferimento all'asbestosi).

 

Anche su tale punto le argomentazioni svolte dalla Corte di merito sono condivisibili.

 

Invero la giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità ha statuito che ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a provocare danni, ma non necessita che l'agente si prefiguri lo specifico evento concretamente poi verificatosi (Cass. 4^, 5919/1991, Rezza; Cass. 4^, 5037/2000, Camposano; Cass. 4^, 4675/07 Bartalini; Cass. 4^, 21513/09, Stocchi).

 

Pertanto, correttamente è stata ritenuta in capo agli imputati la prevedibilità degli eventi mortali, perchè a tal fine non è necessario che l'agente si sia rappresentato o fosse in grado di rappresentarsi tutte le conseguenze della sua condotta, posta in essere in violazione delle regole cautelari, ma è sufficiente che egli fosse in grado di rappresentarsi la potenzialità lesiva e quindi di rappresentarsi una serie indistinta di danni. Tale prevedibilità poteva essere richiesta agli imputati, tenuto conto, lo si ribadisce, dell'importanza del gruppo industriale di appartenenza, che li onerava di obblighi di informazione particolarmente avanzati, in relazione a rischi già conosciuti, tenuto conto della nutrita normativa, anche previdenziale, già vigente all'epoca dei fatti in tema di amianto ed asbestosi (cfr. R.D. n. 1720 del 1936; D.P.R. n. 648 del 1956; D.P.R. n. 1124 del 1965).

 

Nè è di ostacolo alla riconoscibilità della prevedibilità degli eventi, il richiamo all'assenza di leggi scientifiche di copertura che garantirebbero la certezza del verificarsi dell'evento. In primo luogo perchè il ragionamento probatorio sul nesso di causalità (svolto ex posi), che impone una valutazione di alta probabilità statistica e logica, non può essere utilizzato per accertare la presenza della colpa, essendo in tal caso sufficiente la probabilità o anche la possibilità (seria) del verificarsi dell'evento (cfr. Cass. 4^, 4675/07, Bartalini; Cass. 4^, 40785/08, Cananeo; Cass. 4^, 29232/07, Calabrese).

 

In secondo luogo, come già osservato, nel caso di specie, per i decessi per asbestosi è stata riconosciuta la sussistenza di leggi scientifiche di copertura idonee a spigare la valenza causale delle condotte degli imputati.

 

Va ricordato, inoltre, che le regole cautelari violate, finalizzate a ridurre al minimo possibile al diffusione delle polveri di amianto negli ambienti di lavoro, miravano proprio ad evitare il rischio di patologie polmonari, pertanto il decesso di lavoratori per asbestosi ha determinato la "concretizzazione" del rischio che le disposizioni cautelari neglette miravano a prevenire.

 

Circa i rapporti tra "prevedibilità" dell'evento e la "realizzazione del rischio", va osservato che quest'ultimo si pone sul versante oggettivo della colpevolezza, mentre la prevedibilità dell'evento dannoso si pone più specificamente sul versante soggettivo. Inoltre, mentre la "prevedibilità" dell'evento dannoso va accertata con criteri "ex ante" e va valutata dal punto di vista dell'agente (non di quello che ha concretamente agito, ma dell'agente modello), per verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell'evento; il criterio della "concretizzazione" del rischio, invece, è frutto di una valutazione "ex post" che consente di avere conferma, o meno, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse tra quelli che la regola cautelare mirava a prevenire, tenendo conto che esistono regole cautelari per così dire "aperte" (come l'art. 21 cit), nelle quali la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano esistere conseguenze dannose non ancora conosciute, ed altre c.d. "rigide", che prendono in considerazione solo uno specifico e determinato evento (Cass. 4675/07, Bartalini).

 

Nel caso di specie, come evidenziato, tali valutazioni sono state correttamente svolte dalla Corte di merito, che ha riconosciuto nella condotta colposa degli imputati, sia la prevedibilità dell'evento che la concretizzazione del rischio.

 

Infine va osservato che, perchè si configuri la colpa, non è sufficiente che l'agente abbia violato la regola cautelare e che tale violazione abbia provocato l'evento, essendo necessario, inoltre, individuare la "condotta alternativa lecita" (o, meglio, "diligente") che, se posta in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell'evento :

 

ne consegue che l'evento non deve solo essere "prevedibile", ma anche "prevenibile".

 

Anche sul punto va richiamata la nutrita giurisprudenza di questa Corte la quale ha statuito che "in tema di reati colposi, la causalità si configura non solo quando il comportamento diligente imposto dalla norma a contenuto cautelare violata avrebbe certamente evitato l'evento antigiuridico che la stessa norma mirava a prevenire, ma anche quando una condotta appropriata avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno" (Cass. 4^, 19512/08, Aiana; ed inoltre, Cass. 4^, 16761/10, Catalano).

 

Come già esposto nella richiamata giurisprudenza (Cass. 19512/08), l'art. 43 c.p., reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l'evento non è voluto e "si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia...".

 

Viene così chiaramente in luce il profilo causale della colpa, l'accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire la concretizzazione del rischio. L'individuazione di tale nesso consente di sfuggire al pericolo di una connessione meramente oggettiva tra regola violata ed evento.

 

Ma il profilo causale della colpa si mostra anche da un altro punto di vista che attiene più immediatamente al momento del rimprovero personale. Affermare, come afferma l'art. 43 c.p., che per aversi colpa l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole implica che l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il c.d.

 

"comportamento alternativo lecito") non avrebbe comunque evitato l'evento. Non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico. Tale assunto rende evidente la forte connessione esistente in molti casi tra le problematiche sulla colpa e quelle sull'imputazione causale; ma la causalità di cui qui si parla è appunto quella della colpa. Essa si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno. Su tale assunto la riflessione giuridica è sostanzialmente concorde, dovendosi registrare solo differenti sfumature in ordine al livello di probabilità richiesto per ritenere l'evitabilità dell'evento. In ogni caso, non si dubita che sarebbe irrazionale rinunziare a muovere l'addebito colposo nel caso in cui l'agente abbia omesso di tenere una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe comunque significativamente diminuito il rischio di verificazione dell'evento o avrebbe avuto significative, non trascurabili probabilità di salvare il bene protetto.

 

Nel caso di specie, come osservato con coerente ragionamento dal giudice di merito, il rispetto delle regole cautelari avrebbe ridotto notevolmente la possibilità del concretizzarsi del rischio, tenuto conto che le lavorazioni con impiego di amianto sono state svolte senza cautele a volte elementari (bagnare le polveri, evitare di intervenire durante lo svolgimento dell'ordinaria produzione;

 

prevedere efficienti impianti di aspirazione; rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici di esposizione; ecc), così determinando la diffusione negli ambienti di lavoro delle fibre di asbesto, il loro deposito in detti ambienti e la possibilità di inalazione anche per i lavoratori non addetti alle operazioni di manutenzione. Ne consegue che il rispetto delle cautele avrebbe certamente ridotto al minimo il rischio del verificarsi degli eventi.

 

Tirando le file del discorso fin qui fatto in tema di decessi per asbestosi, richiamando quanto esposto, si deve concludere che la sentenza impugnata non manifesta alcun vizio di violazione di legge o difetto di motivazione.

 

 

Circa le modalità di evoluzione della malattia, nella comunità scientifica si confrontano prevalentemente due opinioni.

 

La prima fa leva sulla legge scientifica nota come "modello multistadio della cancerogenesi", secondo cui la formazione del cancro è un'evoluzione a più stadi, la cui progressione è favorita dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno: con la conseguenza che l'aumento della dose di amianto inalata, è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Pertanto, secondo la teoria multistadio, il tumore polmonare rappresenta una patologia "dose-correlata", ossia il cui sviluppo, in termini di rapidità e gravità, è condizionato dalla quantità di fattore cancerogeno inalato. Ciò consente di ritenere che, a prescindere dal momento esatto in cui la patologia è insorta, tutte le esposizioni successive e tutte le dosi aggiuntive devono essere considerate concause poichè abbreviano la latenza e dunque anticipano l'insorgenza della malattia o l'aggravano. La teoria del mesotelioma pleurico come patologia dose-correlata è stata riconosciuta dalla Corte di Appello di Torino ed ha consentito la condanna degli imputati indipendentemente dal momento di assunzione della posizione di garanzia e dalla durata della loro carica (purchè fosse operativa durante il periodo di esposizione all'amianto dei lavoratori deceduti), ciò sull'assunto che la loro condotta omissiva ha ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente.

 

Peraltro, alcune sentenze di questa corte di legittimità hanno in passato dato atto della completezza e logicità argomentativa delle sentenze di merito che avevano accolto la teoria di patologia "dose- correlata" del mesotelioma pleurico (cfr. Cass. 4^, 988/03, Macola; Cass. 4^, 7630/05, Marchiorello; Cass. 4^, 22165/08, Mascarin; Cass. 4^, 5117/08, Biasotti).

 

Secondo altra teoria della evoluzione della malattia, sostenuta dai difensori degli imputati, non vi sarebbe alcun riscontro scientifico della valenza della teoria della "dose-risposta", che costituisce una mera ipotesi priva di effettivi riscontri. La stessa formula di "Boffetta" ha valenza in relazione a studi di natura epidemiologica sulla popolazione, ma non consente alcuna verifica in relazione alla ricerca della causalità dei singoli decessi. Pertanto allo stato delle conoscenze della scienza non sarebbe possibile risolvere il quesito della rilevanza causale delle dosi successive, assunte cioè dopo l'innesco del tumore (successive alla c.d. "dose killer" ), anzi attendibili studi, escludono tale rilevanza.

 

Ne hanno concluso i difensori che il vizio su tale punto della sentenza impugnata è stato quello di non prendere atto della lacuna conoscitiva della scienza in tema di genesi e sviluppo del mesotelioma, traendone le doverose conseguenze in tema di accertamento del nesso causale, nel rispetto del principio che una condanna può essere pronunciata solo "al di là di ogni ragionevole dubbio", come peraltro espresso in alcune sentenze della corte di legittimità (è stata citata a titolo esemplificativo, Cass. 4^, 5716/02, Covili).

 

27. (segue) la ricerca della legge scientifica di copertura.

 

Come precedentemente ampiamente esposto, in tema di reato colposo omissivo improprio, la prova del nesso di causalità tra la condotta e l'evento deve fondarsi oltre che sulla presenza di una legge scientifica, anche sul criterio della probabilità logica. Il che vuoi dire che pur in assenza di un coefficiente statistico prossimo alla certezza, facendo appello al ragionamento inferenziale in tema di prova indiziaria di cui all'art. 192 c.p.p., comma 2, oltre che alla regola generale in tema di valutazione della prova, il legame causale potrà essere accertato con riferimento a criteri di elevato grado di credibilità razionale e previa esclusione dell'efficienza causale di meccanismi eziologici alternativi. In sostanza, in presenza di conoscenze scientifiche induttive generalizzanti che consentono di affermare la frequenza dell'evento in presenza di determinate condizioni, solo in modo percentualmente probabilistico, il ragionamento causale potrà essere sorretto da argomenti logici (probabilità logica), valutando l'assenza di operatività di fattori causali alternativi. Si può desumere da ciò che, sebbene la legge scientifica di copertura non sia l'unica spiegazione della causalità, la sua presenza deve però sempre essere riscontrata, in quanto la spiegazione causale generalizzante è strumento per addivenire all'accertamento della verità oltre ogni ragionevole dubbio.

 

In non pochi casi la legge scientifica trova fondamento in un vero e proprio "sapere scientifico" che, come osservato da autorevole dottrina, è uno strumento al servizio del giudice e veicolato nel processo attraverso l'opera dei periti e dei consulenti. Sul punto è bene essere chiari : a) non è il giudice ad elaborare la legge scientifica, essa deve essere allegata ed asseverata dalle parti;

 

sarà compito del giudice, con la razionalità della sua motivazione, valutarne la attendibilità; b) la norma penale, per la sua applicazione, non fa "rinvio" al sapere scientifico, in quanto esso è utilizzato solo a fini probatori. Non di rado accade che teorie scientifiche di spiegazione causale siano antagoniste tra di loro, sicchè il giudice come mero utilizzatore del sapere scientifico potrebbe trovarsi di fronte ad un vicolo cieco. Ebbene, partendo dal presupposto che in ambito scientifico ben difficilmente c'è unitarietà di vedute e che non è consentito al giudice defilarsi con un "non liquet", è suo compito dare conto, con la motivazione, della legge scientifica che ritiene più convincente ed idonea o meno a spiegare l'efficacia causale di una determinata condotta, tenendo conto sempre di tre parametri di valutazione: il ragionamento epistemologico deve essere ancorato ad una preventiva dialettica tra le varie opinioni; il giudice non crea la legge, ma la rileva; il riconoscimento del legame causale deve essere affermato al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

Infine, come osservato dalla dottrina, va precisato che la questione della attendibilità delle generalizzazioni scientifiche e del metodo della loro applicazione attiene alla sfera del fatto. Ne consegue che il giudizio della Cassazione non riguarda l'affidabilità della legge scientifica, ma la razionalità, la logicità dell'itinerario compiuto dal giudice di merito nell'apprezzare la validità del sapere scientifico e nell'utilizzarlo nell'inferenza fattuale. Fatte questa premesse, deve affermarsi che la Corte di merito, in relazione al riconoscimento del nesso causale tra le condotte omissive degli imputati ed i decessi per mesotelioma pleurico, non ha fornito un'adeguata motivazione in relazione all'accertamento del legame causale.

 

Infatti la sentenza impugnata solo apparentemente motiva sulla sussistenza della legge scientifica di copertura, in quanto, dopo avere delineato i due orientamenti teorici prevalenti, della "dose risposta" (meglio conosciuta come "teoria multistadio della cancerogenesi") e quello contrapposto della irrilevanza causale delle dosi successiva a quella "killer", dichiara di aderire al primo orientamento, senza però indicare dialetticamente le argomentazioni dei consulenti che sostengono detta tesi e le argomentazioni di quelli che la contrastano e le ragioni dell'opzione causale. In sostanza il giudice di merito, più che utilizzare la legge scientifica, se ne è fatto artefice.

 


(evidenziazioni d.r.)

Fonte: La Pratica Forense 




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