-  Redazione P&D  -  09/12/2008

Cass. Civ., Sez. Lav., 9 maggio 2007 n. 10547, pres. De Luca rel. Balletti, DEQUALIFICAZIONE ED AUTOTUTELA - Luca GALVANINI



La sentenza in esame enuncia un principio di diritto in controtendenza rispetto alle pronunce precedenti della Sezione della Corte di Cassazione sul tema della legittimità o no del rifiuto della prestazione da parte del dipendente che ritenga di essere stato adibito illegittimamente a mansioni inferiori.
Sul punto la dottrina è divisa tra:

1. chi ritiene che il lavoratore possa soltanto far valere le proprie ragioni in sede giudiziaria;
2. chi ritiene che egli possa sospendere l'attività lavorativa opponendo al datore di lavoro l'eccezione di inadempimento prevista all'art. 1460 c.c. (perciò conserverebbe il diritto alla retribuzione anche per il periodo di non lavoro).

La giurisprudenza, invece, oscilla tra:

1. posizioni più radicali e spesso sbrigative, che non considerano l'astensione dalla prestazione lavorativa come inadempimento ovvero assenza arbitraria, e che ritengono pertanto illegittimo il licenziamento disciplinare;
2. un indirizzo prevalente e più articolato che prevede la possibilità per il lavoratore di opporre l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 in presenza di determinate condizioni.



L’eccezione prevista all’art. 1460 c.c. è applicabile a tutti i contratti a prestazioni corrispettive, pertanto anche al contratto di lavoro subordinato. Il fine della norma è quello di mantenere l’equilibrio sinallagmatico: evitare che il rapporto si risolva se una delle parti non adempie esattamente l’obbligazione nascente dal contratto.

Art. 1460. Eccezione di inadempimento

“Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.
Tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.”

La Cassazione, nel valutare la corretta applicazione del presente articolo, ne segue una lettura che tiene conto dei seguenti elementi:

1. il riscontro dei reciproci inadempimenti e della relativa importanza degli stessi;
2. il nesso causale che possa giustificare, nei limiti dell’adeguatezza e della proporzionalità, l’inadempimento di quel contraente e quindi il suo rifiuto di adempimento nei confronti dell’altro.


N.B. La mera esistenza di un nesso causale non è sempre sufficiente ad ammettere l’eccezione dal momento che il secondo comma specifica che “non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto e contrario alla buona fede”. Per questo la giurisprudenza richiede soprattutto che la condotta del lavoratore sia valutata in relazione alla gravità dell’inadempimento datoriale.

Alla luce di tali elementi, per la verifica della legittimità del rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori, occorrerebbe valutare:

1. se l’adibizione a mansioni inferiori sia legittima o costituisca un adempimento contrattuale tale da ritenere di non scarsa importanza;
2. se il rifiuto del lavoratore trovi la propria causa in tale inadempimento;
3. se il lavoratore si sia rifiutato di eseguire la prestazione non dovuta in buona fede.



La sentenza in esame, come già anticipato, presenta un diverso itinerario argomentativo che si distacca da quello proposto dalla Corte di Cassazione in casi analoghi. Il punto di dissenso riguarda l’apprezzamento della gravità dell’inadempimento del datore di lavoro: l’adibizione a mansioni inferiori costituisce un inadempimento contrattuale che possa giustificare il rifiuto del lavoratore di svolgere le mansioni, come nell’ipotesi pacifica del mancato pagamento della retribuzione?

In questa occasione la Cassazione ha ritenuto che la dequalificazione non possa costituire un valido motivo per rifiutare il proprio adempimento, contrastando così con la tesi di P. Ichino il quale ritiene “legittimo sospendere l’attività lavorativa in caso di mansioni non rientranti nel suo debito contrattuale” potendo comunque “far valere il proprio diritto alla retribuzione anche per il periodo in cui la prestazione non è stata svolta”.

In realtà nel complesso giurisprudenziale troviamo casi in cui, diversamente dalla sentenza in questione, viene ammessa la sospensione legittima dell’attività in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460, ma viene specificato che occorre valutare se il comportamento del lavoratore che invoca tale eccezione sia conforme al canone della buona fede e della proporzionalità (es. continuare ad eseguire le prestazioni della qualifica originaria).



Come già stabilito da precedente giurisprudenza, se il lavoratore conviene il datore per far accertare l’effettiva dequalificazione e ottenere la conseguente condanna al risarcimento del danno, l’onere della prova cadrà sul datore che dovrà sostenere l’avvenuto adempimento della propria obbligazione dimostrando uno dei seguenti elementi:

1. la mancanza di dequalificazione,
2. il legittimo esercizio del potere imprenditoriale o disciplinare,
3. l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile di cui all’art. 1218.

Nella sentenza in esame viene inoltre affermato che, in caso di inadempimento datoriale relativo all’adibizione del lavoratore a mansioni dequalificanti, “incombe sul lavoratore l’onere dell’allegazione della cennata inesattezza” (cosa che il ricorrente non ha fatto).

Il dott. R. avrebbe dovuto provare che le mansioni assegnategli fossero tali da comportare un danno alla propria professionalità, al fine di consentire il giudizio

• sulla legittimità dell’eccezione di inadempimento
• sulla legittimità del recesso per giusta causa.

Mancando la prova del lamentato demansionamento, la Cassazione non ha potuto fare altro che ritenere verificato l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro e condividere il giudizio di legittimità del licenziamento del lavoratore.




Come già anticipato  la sentenza si pone in evidente contrasto con l’orientamento maggioritario, ribadito in una sentenza immediatamente precedente (Cass. 5 gennaio 2007, n.43), che in un caso di trasferimento illegittimo disposto dal datore ribadisce il principio secondo cui la reazione del dipendente è conforme a buona fede nel caso in cui egli offra le proprie prestazioni lavorative.

Infatti, la Corte esclude a priori che la sola dequalificazione possa fondare l’eccezione ex art. 1460 c.c. specificando che “ove pur sussista una situazione di dequalificazione […] non può il lavoratore sospendere la propria attività lavorativa, se il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi […] potendo una parte rendersi inadempiente soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte”.

Si arriva così a sostenere che soltanto un inadempimento totale del datore di lavoro possa giustificare una eccezione di inadempimento, contrariamente all’orientamento già esaminato, maggioritario sia in dottrina sia in giurisprudenza (Punto 1), secondo cui , anche inadempimento dell’obbligo derivante dall’art. 2103 c.c. costituisce un legittimo motivo per non adempiere la prestazione lavorativa, se il lavoratore abbia offerto di eseguire le mansioni dovute e sia in buona fede.




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